La figura del prete ieri e oggi

Quasi mai mi capita di invidiare il mestiere o la professione degli altri. Molto spesso invece sento di dover compatire chi per tutta la vita è stato costretto a compiere un lavoro ripetitivo, monotono o nel quale puoi mettere assai poco del tuo, o averne una gratificazione a livello umano. Forse gli unici che non compiango sono i medici, gli architetti o anche gli artigiani.

Mio padre, ad esempio, talvolta mi mostrava i serramenti di una casa facendomi osservare con legittimo orgoglio “quei serramenti li ho fatti io”; in genere si trattava di imposte che presentano delle difficoltà particolari per realizzarle. Ci sono però dei lavori manuali, ma anche di ordine intellettuale, talmente aridi per cui l’unica soddisfazione diventa lo stipendio che permette ad uno di vivere e di mantenere la propria famiglia.

Fare il prete, almeno come io intendo questa missione, è veramente una “professione” meravigliosa che impegna sentimento, pensiero, ricerca, rapporti umani, proposta per la vita, lettura del mistero dell’oggi e del domani. Fare il prete significa partecipare, condividere, accompagnare l’uomo nei passaggi più impegnativi della propria esistenza.

Quanta ebbrezza, anche se sofferta, è poter proporre utopie, nuove frontiere, ideali e valori umani durante un sermone! Quanta emozione interiore è prestare le parole e il cuore per accomiatarsi da una persona che lascia i propri cari! Quanto piacere nel poter indicare ad una coppia di giovani innamorati orizzonti nobili e splendidi per il loro domani! Quanta emotività interiore nel poter condividere i drammi della vita!

Quando ero giovane prete non di rado mi capitava di incontrare chi compativa la mia scelta di vita, perché la pensavano anormale e sacrificata. Ora non più. Per me che sono vecchio la cosa può essere comprensibile, ma mi pare che la gente non si curi più di tanto neanche dei giovani preti.

Io sono vissuto in un tempo in cui la letteratura e la società erano quasi sorprese, incantate o in rifiuto del mistero del prete. Ora pare che il problema del sacerdote non interessi più, non so se perché la società non si pone più problemi o perché il prete non pone più problemi alla società in cui vive.

Solidarietà chiusa per ferie

Siamo alle solite. Finita la scuola il mondo nostrano entra nel periodo delle vacanze. Crisi o non crisi, bisogna andar via, o perlomeno far finta di andar via!

Io che sono abitudinario e perciò non amante delle variazioni dei ritmi della mia vita, non amo le vacanze e non vado in vacanza, anche se il nostro Patriarca ha detto che le vacanze non sono un diritto ma un dovere! Confesso però che mi è più difficile e faticoso giustificarmi del mancato assolvimento del dovere delle vacanze, nonostante l’impegno evangelico della povertà e del fatto che siamo in un periodo di crisi e che tutti dicano che operai, impiegati e classi medie non arrivano alla fine del mese.

Questo però è per me un problema marginale, perché ormai mi sono così abituato ad essere solo e controcorrente. Ciò che invece mi dispiace è che proprio nel periodo in cui tutti, o almeno tanti, vanno in vacanza, si chiudono le mense dei poveri e i punti di distribuzione dei viveri. Ciò vuol dire che i poveri diventano ulteriormente più poveri.

Da mezzo secolo combatto questa battaglia, mi sono inimicato i responsabili degli enti caritativi e sono stato sonoramente battuto. Quest’anno mi trovo ad essere responsabile di “Carpenedo solidale”, l’ente più grosso del settore, l’ente che assiste il numero di poveri più consistente di tutti gli altri enti cittadini del settore. Ho convocato il responsabile, perché la coscienza ha cominciato a tormentarmi. Ho insistito che almeno in questo settore, magari un gruppo ristretto di volontari mantenesse l’erogazione dei generi alimentari alle tre-quattromila persone che bussano alla nostra porta ogni settimana.

Non c’è stato niente da fare. Da qualche anno le vacanze estive sono state proclamate da cristiani e non cristiani l’undicesimo comandamento al quale non si possono far deroghe.

Per fortuna sono arrivato fortunatamente ad un compromesso abbastanza onorevole. La chiusura durerà due settimane, l’ultima settimana prima delle fatidiche vacanze si consegnerà un quantitativo doppio di generi alimentari. M’è parso di dover accettare questo compromesso senza arrivare, come sindacati e Fiat, ad un referendum tra i volontari.

La lezione della statua di Giano bifronte

I romani, nel loro pantheon, fra le tante altre divinità, avevano la statua di Giano bifronte. Un tempo pensavo che questo dio trovasse spazio nella fantasia primitiva di un mondo mitologico, mentre ora trova spazio soltanto nel mondo della fantasia e della favola.

Oggi però non butterei via del tutto la statua di Giano bifronte, che ci ricorda che la realtà ha sempre due facce. Al tempo di Guareschi, “il padre” di don Camillo e di Peppone, era abbastanza consueto leggere “visto da destra” e “visto da sinistra”, due versioni dei fatti diverse e molto spesso perfino contrapposte. Erano però i tempi in cui discutevano di politica non solamente deputati, senatori, segretari di partito – che fanno i politici a busta paga con redditi astronomici – ma anche la povera gente. Oggi, mi par di aver capito che è bene non dimenticare del tutto Giano bifronte e il “visto da destra e da sinistra”, perché molto spesso i mass-media di una tendenza o di un’altra sono così persuasivi che finiscono per condizionarti in maniera determinante.

Fino a qualche giorno fa ero convintissimo che avessero torto magistrati, giornalisti e sinistra nell’insistere sulle intercettazioni telefoniche esasperate.

A supporto di questa convinzione adducevo il discorso della privacy, del costo milionario e del fatto che Stati Uniti, Francia, Germania ed Inghilterra non raggiungevano il numero di “guardoni” delle intimità degli italiani, pur avendo una giustizia più funzionante della nostra; sennonché un amico che stimo e a cui voglio bene, mi ha fatto osservare l’altra faccia di Giano bifronte, dicendomi che in Italia c’è meno senso dello Stato, che gli italiani sono per tendenza atavica trasgressivi e che l’intreccio tra mafia, affari e politica è molto più forte che in altri Stati per cui c’è necessità di un’indagine più costante e più intensa. Di fronte all’onestà intellettuale dell’amico non potevo che prender atto della complessità del problema, motivo per cui, nonostante siano passati quasi duemila anni, non sarà male che mi ricordi che la realtà non ha solamente due facce, ma più ancora.

La collaborazione fra Comune e privato sociale è un bene prezioso

Per molti anni, soprattutto quando la sinistra era “pura”, cioè non annoverava nelle sue fila solamente qualche “comunistello di sagrestia”, avevo la netta sensazione che i cattolici fossero considerati come cittadini di serie B, perché pareva che la sinistra pensasse di possedere il monopolio della democrazia, della resistenza della cultura, del progresso, della libertà, dell’economia e di tutti i valori importanti della vita. Allora amministrazioni del nostro comune evidentemente si adeguavano a questi orientamenti nazionali, motivo per cui sembrava che il Comune dovesse gestire direttamente tutto e perciò non ci fosse più alcuno spazio per le parrocchie, per il privato sociale, per le organizzazioni di base. Dottrina che in pochi decenni si dimostrò onerosa, farraginosa e fallimentare.

In quel tempo io, che ho sempre voluto essere partecipe alla vita sociale, elaborai nel mio piccolo una dottrina che permettesse il confronto, o perlomeno la sopravvivenza di tutto l’apparato solidale che si rifaceva alla Chiesa, e per quanto sono stato capace, mi sono impegnato fino allo spasimo per creare una organizzazione parallela che si rifacesse ai valori portati avanti dalla Chiesa.

Il crollo del muro di Berlino non fu rovinoso solamente per quelle maledette ed insanguinate pietre di confine, ma per tutta la dottrina, la prosopopea e l’apparato pigliatutto della sinistra. Quando fui ben certo di questo, sempre nel mio piccolo, cominciai una mia politica di collaborazione critica, ma fondamentalmente sinergica con l’amministrazione pubblica.

Per il settore che mi riguarda, la collaborazione con Bettin e Cacciari mi pare sia stato quanto mai proficua. Tuttora perseguo questo indirizzo, nonostante la burocrazia comunale, che è perfino più tarda della politica, presenti ancora qualche difficoltà per un impegno paritario.

Vi sono dei problemi che è opportuno risolvere assieme, o perlomeno tentare delle soluzioni innovative di comune accordo. Talvolta però ho ancora la sensazione che la burocrazia comunale tenti di porsi in posizione di privilegio e di padronanza, piuttosto che di servizio e di incoraggiamento al privato sociale che è più snello, ha certamente più inventiva, è più economico, ma che ha pur bisogno della “mano secolare” per realizzare più velocemente e meglio il servizio a favore degli ultimi. Voglio però giocarmi sulla speranza!

Dove punta la bussola della religione oggi?

C’è un pensiero che mi tormenta come un tarlo e non mi dà pace. Mi spiace e nello stesso tempo sono felice che proprio ora, che sono nei tempi supplementari, mi accorga che i criteri con cui, ormai da molto tempo, si qualificano i discepoli di Gesù, non solo sono difettosi, ma forse falsi.

Ricordo che nei tempi ormai remoti in cui leggevo avidamente Emilio Salgari,  in uno dei suoi innumerevoli romanzi (forse “Capitano a quindici anni”) il timoniere scoprì che la rotta seguìta non era quella giusta, perché qualche marinaio galeotto aveva collocato vicino alla bussola di bordo una massa ferrosa che condizionava in maniera determinante la lancetta della bussola. La bussola segnava il nord, ma era un segnale falso, perché in realtà la rotta reale era quella del sud e quindi non avrebbe mai condotto il veliero in porto.

Il tarlo della mia analisi sulle qualità della religione oggi, mi fa sospettare che il criterio di orientamento sia profondamente falsato. La bussola della religione indica che la salvezza si ottiene tenendo la barra del timone a nord, ossia dicendo le formule della preghiera, andando a messa, dichiarandosi cristiani, mentre In realtà quella indicazione è assolutamente mendace, perché quello indicato non è il vero nord (ossia l’amore a Dio misericordioso, giusto, che ama i pacifici, gli uomini che lo cercano con cuore sincero, che sono solidali, veri, autentici, liberi e perseguono con ogni mezzo la redenzione), ma il sud, ossia una rotta che non si rifà né al bene di Dio, né a quello dell’uomo, ma soltanto una indicazione sfalsata per motivi di tradizione, di vantaggi di qualcuno, semplicemente di comodo.

Credo che i criteri di distinzione tra buoni e cattivi, tra credenti ed atei, tra vicini e lontani, tra praticanti e credenti, vadano verificati in maniera seria e sincera. Infatti sta scritto: “Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio” ed è certo che la volontà del Padre è certamente quella che prima di tutto siamo onesti, ci vogliamo bene e ci aiutiamo a vicenda.

Oggi ho paura di non aver capito per tempo chi siano quelli che “Dio ama”.

Anche in politica, “un fatto vale mille chiacchiere”!

Confesso che Berlusconi, il capo del nostro governo, non è il tipo di uomo che mi piaccia più di tanto. Il fatto che ostenti di essere amico quanto mai ascoltato dai capi degli stati più importanti, che ad ogni pié sospinto ci ricordi che i sondaggi affermano che lui gode di un grande consenso popolare, che si mostri sempre con quell’aria un po’ cafoncella, che frequenti amicizie femminili piuttosto dubbie, che abbia alle spalle una situazione familiare fallimentare, e che sia imbarazzato nella scelta delle ville ove abitare, non collima con l’aria austera, responsabile e coerente che io mi aspetto da qualunque capo di una nazione.

Debbo dire però che gli riconosco le capacità di manager. Non è da tutti crearsi una fortuna in pochi anni, come ha fatto lui ed inventare un partito che attualmente è il più grande tra quelli esistenti nel nostro Paese. Come c’è riuscito? Alcuni insinuano che la sua fortuna nasca dall’appoggio di Craxi, altri dicono che è un abile persuasore populista, comunque resta il fatto che lui ha realizzato realtà veramente colossali, mentre altri tentano di vendere aria fritta da decenni.

Scusatemi se, una volta ancora, cito mons. Vecchi, il quale diceva che un fatto vale mille chiacchiere. Io condivido questa teoria. In questi giorni in cui le critiche di Bersani, Franceschini, Rosi Bindi e Di Pietro diventano più insistenti e taglienti (tanto che il primo più volte ha gridato “vada a casa”), mi sono chiesto cosa direi se Berlusconi venisse da questo vecchio prete a chiedere consiglio. La risposta m’è venuta pronta, ripescandola tra le mie lontane reminiscenze storiche. Gli direi: «Senta, signor Silvio, prenda esempio da Cincinnato, che s’è trovato in una situazione simile alla sua, dica mediante la televisione, lei che ha la chiave degli uffici di Mediaset “Cari concittadini, torno a fare il mio vecchio mestiere di muratore! Ma se domani avrete ancora bisogno di me, sappiate che mi potrete sempre trovare in un cantiere edile!” Soltanto allora avrà diritto, anzi dovere di cacciare a calci nel sedere i vari Bersani, Franceschini, Di Pietro, D’Alema e via di seguito!»

Un atto indegno!

Più volte ho confessato che sono molto critico con la Chiesa perché l’amo molto. Vorrei che la Chiesa fosse una realtà splendida, ricca di umanità, coerente col Vangelo, e soprattutto capace di fare, sia da un punto di vista teorico, ma soprattutto a livello di testimonianza, le proposte più coerenti alle attese ed ai bisogni degli uomini del nostro tempo.

Questa posizione, esigente nei riguardi della comunità a cui appartengo, che amo e alla quale dedico tutte le risorse della mia vita, credo che mi dia il diritto di essere, anche a livello di cittadino, altrettanto esigente nei riguardi di chi si rifà ad altre culture ed ad altri princìpi. Non dovrebbe quindi sorprendere nessuno quando intervengo in maniera schietta e talvolta ruvida nel condannare posizioni che reputo decisamente in contrasto con i valori umani più condivisi o semplicemente con la civiltà a cui la stragrande maggioranza pare volersi rifare.

Questa premessa nasce dall’aver conosciuto dalla stampa di qualche giorno fa un fatto che mi costringe ad un commento severo. Si tratta di questo: in un ospedale del meridione si è proceduto ad un aborto previsto dalla legge (come se la legge potesse anteporsi alla natura). Ebbene il feto, ma sarebbe più giusto dire il bambino, estratto dal seno della madre, fu messo in un recipiente di ferro in attesa di essere buttato tra i rifiuti organici da smaltire. Contro ogni previsione l’esserino, rifiutato dalla madre e costretto a morire dai medici, contro ogni logica, sopravvisse per due giorni abbandonato alla sua sorte. Ora pare si voglia procedere penalmente contro i medici per le mancate cure a questa creatura, uccisa da sua madre, dai medici, dalla legge e dalla pseudomorale laica.

Mi pare proprio che non si possa assolutamente superare tanta ipocrisia e l’efferatezza con cui si è causata la morte di un essere innocente ed indifeso da parte dei legislatori, dei medici pseudo-sacerdoti della sanità, e soprattutto di una cultura laica che ha partorito una morale talmente disumana ed assurda!

Per questa gente la gogna alla quale la Serenssima condannava certi delinquenti, sarebbe ancora troppo poco!

Il nostro Patriarca dice cose giuste, ma è ascoltato e seguito?

In questi giorni il nostro Patriarca ha rilasciato al direttore de “Il Gazzettino”, dottor Pappetti, una lunga intervista, il cui testo ha riempito una pagina intera del giornale e ha suscitato una notevole serie di commenti tra i politici e gli amministrativi della cosa pubblica.

Normalmente il nostro Patriarca due-tre volte l’anno interviene in maniera autorevole con proposte sociali che riguardano la vita pubblica della nostra città e, in questa occasione, della nostra Regione.

Ho l’impressione che certi interventi, quali quello sul meticciato, sulla tendenza all’autocommiserazione, all’autoflagellazione dei veneziani, e su temi del genere, abbiano smosso le acque; la politica pare non sia rimasta indifferente, segno che il Patriarca di Venezia e soprattutto il nostro Patriarca, che in queste cose è un esperto, ha ancora un ruolo accettato da tutti.

Spesso però ho il timore che il sasso lanciato in laguna abbia un certo impatto e formi i soliti centri concentrici più o meno rilevanti, ma che poi l’acqua della laguna ridiventi ben presto quieta e pigra come sempre. Gli interventi del Patriarca sono sempre autorevoli e pertinenti, ciò si deduce dall’eco della stampa; essi sempre colpiscono nel segno, e certamente hanno una funzione, però ho la sensazione che esprimano lo sprint di un campione, ma che dietro a lui non ci sia una squadra e che egli faccia solitario le sue fughe in avanti. In tutto questo non posso che ammirare lo sforzo del Pastore, ma contemporaneamente debbo anche dolermi che le parrocchie, le associazioni e “l’intelligentia” del popolo di Dio se ne rimanga sonnacchiosa e poco partecipe al destino della propria città e della propria gente.

Il discorso del nostro Maestro sulla missione che i singoli e le comunità cristiane diventino lievito, luce e sale mi pare che non sia troppo attuato e che il consumismo e il relativismo rendano ancora poco partecipe il gregge, che segue pigramente le indicazioni del Pastore, trascinando le ciabatte e lasciando che le tematiche più attuali, più urgenti e più importanti le gestiscano altri.

Pare che questa Chiesa stanca e rannicchiata in se stessa lasci ad altri portar avanti il discorso sulle sorti della Regione e del federalismo, che è lo strumento per evidenziare la nostra individualità e le nostre potenzialità, paga che il Patriarca intervenga, senza però lasciarsi coinvolgere più di tanto.

Non so proprio chi e come possa suonare la carica e spingere all’impegno, ma so che occorrerebbe far tutto questo.

Un culto forse troppo legato alla rievocazione

Il 13 giugno, festa di sant’Antonio da Padova, ho visto su “Telechiara” un lungo servizio sul “santo”. La parte che ho guardato con più attenzione è stata la rievocazione storica del trasporto del corpo del santo dall’Arcella alla basilica ora a lui dedicata. Non si è trattato di una semplice processione con preghiere e canti, come quelle abbastanza frequenti che avevano luogo nel mio piccolo paese di campagna, quando in due lunghe file – uomini davanti e donne dietro il baldacchino – si procedeva per le vie del paese recitando il rosario, si trattasse della Madonna come del Sacro Cuore, intervallando le avemarie con i soliti canti di chiesa. A Padova il rito si avvicinava piuttosto ad una ricostruzione storica, con tanto di figuranti, carro a ruote piene trainato da buoi, con tanto di banda, di confraternite di vario tipo in divisa, di labari e di gruppi di ogni genere, che per le grandi occasioni indossano grandi mantelli multicolori. E poi paggi e soldati con uniformi medioevali.

Io non sono un grande esperto del settore, ma questa, piuttosto che una processione caratterizzata dal silenzio, dalla preghiera e dalla testimonianza umile ma intensa di fede, m’è sembrata uno spettacolo, pur interessante, organizzato da un regista non di grandissima levatura.

Purtroppo, prima una pioggerella fastidiosa e quindi un temporalone, hanno determinato un fuggi fuggi generale di preti, suore e figuranti verso la basilica, mentre gli spettatori si son ritirati sotto i portici, dei quali Padova abbonda.

Sono profondamente convinto che la basilica del “santo” rappresenti un vero centro di spiritualità che fa certamente del bene, però che assorbe un gran numero di frati che concorrono con riti, prediche e quant’altro a mantenere efficiente l’apparato che richiama ogni anno centinaia di migliaia di pellegrini. Forse essi sarebbero più produttivi per il regno se si inserissero nelle parrocchie ora sguarnite di sacerdoti.

Poi, senza togliere nulla all’importanza religiosa dell’attività del santuario, ho il grave timore che la religione si riduca pian piano alla rievocazione di esperienze di fede del passato, piuttosto che alla promozione di testimoni che con la vita seminino la semente evangelica tra la gente del nostro tempo. Spero però tanto che tutto questo sia una mia esagerata preoccupazione.

Bisogna amare anche chi cerca l’amore su strade sbagliate!

Mi pare di avere finalmente appreso dal Vangelo che l’amore equivale a salvezza. Chi ama si salva, chi non ama si perde. Credo poi che il Vangelo non pretenda un amore filtrato da ogni scoria come i cuochi richiedono l’olio vergine di oliva, ma accetti pure l’amore grezzo, quello ancora spurio.

Mi riconferma in questa convinzione la pagina del Vangelo che la Chiesa ha offerto all’attenzione dei fedeli qualche settimana fa. San Luca, l’evangelista più colto dei quattro, ha descritto con sobrietà, ma anche con estrema efficacia, l’incontro di Gesù con la “peccatrice”, quella che nel passato, ma anche oggi, viene sbrigativamente definita una volgare donna di strada: il Maestro è talmente preoccupato di recuperare la potenzialità d’amore di questa donna, da affermare che è stata perdonata perché ha molto amato.

I santi, e particolarmente quelli che hanno fatto questo percorso di redenzione, hanno intuito tutto questo, tanto che Agostino, che certamente fu uno di questa categoria, fa un’affermazione in maniera perentoria e liberatrice, che recupera la validità di una delle sconfinate ricchezze dell’uomo qual è l’amore: egli afferma “Ama e poi fa tutto quello che vuoi!”

Tentavo di trovare le parole che potessero esprimere ai fedeli che mi ascoltavano la purificazione operata dall’amore in quella bella ed infelice creatura, che dimostrava a Gesù tutto il suo bisogno di redenzione, toccando tutte le corde della sua umanità (l’accostarsi ai piedi di Cristo, il pianto incontenibile e poi la tenerezza del voler asciugare le lacrime con le sue lunghe chiome). Mi venne in mente una confidenza di padre Ugo Molinari. Bergamasco DOC, padre Ugo fu un parroco forte, severo, deciso nel tenere la barra della sua comunità di Altobello. Parlando delle tante prostitute che battevano la sua zona, diceva di esse che erano delle care ragazze che purtroppo cercavano l’amore su strade sbagliate, ma che comunque cercavano l’amore, che è la ricchezza più grande che Dio ci ha donato.

Ho viva speranza che i miei fedeli abbiano scoperto che essere cristiani non vuol dire tagliare alla radice queste piante stupende che sono solo bisognose di essere coltivate con tanta tenerezza.

La splendida realtà del Don Vecchi Marghera

Nella “Galleria san Valentino” del “Centro don Vecchi” di Marghera, viene allestita, grazie alla buona volontà di alcuni volontari, una mostra di pittura ogni 15 giorni. Questa iniziativa rende più vivace la vita del Centro, permette ai visitatori non solamente di ammirare l’estro, il buon gusto e talora l’arte dei nostri pittori, ma anche di “scoprire” il Centro.

Purtroppo nell’opinione pubblica vi sono ancora molte persone che pensano il “don Vecchi” come una delle tante case di riposo, in cui vegetano in attesa della morte dei poveri vecchi, spesso rimbambiti, in balìa di inservienti, in ambienti maleodoranti, di cattivo gusto.

Il regolamento della Galleria prevede che la Fondazione si faccia carico di ogni spesa, motivo per cui all’artista la mostra non costa un centesimo. Si chiede solo che il pittore regali una tra le opere scelte dal responsabile del settore. Questo dipinto sarà destinato ad ornare il nuovo Centro di Campalto.

Nel pomeriggio mi sono recato a Marghera per salutare gli ospiti, per vedere la mostra e per scegliere l’opera tra quelle attualmente esposte. Sono stato particolarmente felice nel trovare il prato rasato come un tappeto verde, i fiori ben curati, gli anziani sparsi a crocchi nella grande struttura, chi nel parco, chi nella hall, chi nella sala giochi, ma soprattutto nel riscoprire un ambiente pulitissimo: quadri alle pareti, un mobilio appropriato e di buon gusto ed un clima sereno e disteso.

A Marghera si pratica finora l’autogestione in maniera integrale; i residenti, coordinati da due volontari pensano a tutto: telefono, fiori, guardina e quant’altro serve in un condominio di 57 alloggi.

Confesso che sono orgoglioso dei nostri Centri; sono orgoglioso che gli anziani più poveri possano vivere in un ambiente veramente signorile, sono orgoglioso perché ad ogni anziano è richiesto un contributo possibile anche per chi ha le entrate più modeste.

Mi spiace solamente che le comunità cristiane delle diocesi siano coinvolte solamente in modo molto marginale e che la civica amministrazione, con la quale ci sono pur buoni rapporti, non collabori ancora in maniera adeguata perché gli anziani in difficoltà possano godere di questa soluzione.

La pigrizia da pensionati va combattuta!

Ho notato, con una certa sorpresa, che questa rubrica de L’incontro esce talvolta con la testata “Il diario di un prete in pensione” e talaltra con “Il diario di un vecchio prete”. Non so a quale criterio si attengano gli impaginatori; forse a nessun criterio, ma a quello che trovano nel “magazzino” del periodico.

Quando ho fatto questa scoperta, per nulla importante, mi sono chiesto d’istinto quale fosse la più giusta, quale io avrei preferito. Quasi subito ho optato per la seconda. Parlare di pensione ti dà subito l’impressione di una persona ormai logora, inefficiente, rassegnata a starsene alla finestra a guardare il fiume della vita che scorre veloce. Purtroppo al “don Vecchi” devo registrare spesso gente della mia età che passa tutto il santo giorno dormendo, mangiando e chiacchierando su argomenti futili.

E’ vero che taluno è in mal arnese e non potrebbe fare granché, ma è altrettanto vero che con un pizzico di iniziativa e di buona volontà si potrebbe sempre spendere più utilmente il proprio tempo. Per me il discorso “pensione” è un discorso fittizio, artificioso e di comodo perché ognuno riceve comunque aiuto dagli altri e quindi deve ricambiare con la propria disponibilità.

San Paolo, a questo riguardo, è semplicemente categorico quando afferma “chi non lavora, non mangi”. Quante volte mi rammarico per non trovare tra i 230 residenti chi voglia alzarsi presto per bagnare i fiori, chi non si renda disponibile per far la cernita della verdura, piegare “L’incontro”, servire al bar, o stare al tavolo della cortesia per fornire notizie ai visitatori o controllare gli intrusi.

Spesso poi il rammarico aumenta ulteriormente quando avverto che costoro avanzano pretese o sono i primi ad approfittare quando c’è qualcosa da ottenere.

Per quanto mi riguarda, pur non avendo cose impegnative e pesanti da svolgere, ho le giornate piene zeppe, tanto che spesso devo pigiare il tempo per farci stare qualcosa che di primo acchito parrebbe di troppo. Di questo non solamente non mi dolgo, ma ringrazio il Signore di poter essere ancora utile nonostante la mia vecchiaia.

Un bell’incontro!

Qualche giorno fa due sposi di mezza età sono stati accompagnati nel mio minuscolo alloggio al “don Vecchi” perché avevano deciso di sottoscrivere due azioni della Fondazione Carpinetum per la costruzione del nuovo Centro di Campalto.

Ho capito immediatamente che essi erano due affezionati e fedeli lettori de “L’incontro” e perciò, vedendo la listerella settimanale dei sottoscrittori dei “Bond Paradiso”, avevano deciso di partecipare alla benefica impresa sottoscrivendo due azioni, pur essendo lui ormai in pensione da qualche anno.

Questi due cristiani praticanti hanno una strana posizione a livello parrocchiale. Abitano nel territorio di una data parrocchia, frequentano la catechesi della più numerosa scuola di catechismo della diocesi, quella de “L’incontro”, alla quale partecipano ogni settimana quattromila alunni (veramente, a sentire alcuni esperti del settore i lettori del periodico sarebbero anche tre-quattro volte tanto il numero di copie stampate) e vanno a messa nella parrocchia di don Roberto, mio fratello minore, a Chirignago.

La strana “vita ecclesiale” di questi due coniugi, che poi mi hanno motivato le loro scelte religiose, m’ha fatto capire che la gente non va dove le norme canoniche e le pretese dei parroci vorrebbero e non è attratta dai riti, spesso noiosi e poco coinvolgenti, ma va dove avverte che c’è vita cristiana autentica, dove si crede nel messaggio, ove c’è entusiasmo e fierezza del vivere l’avventura proposta da Gesù, dove tutto l’uomo riceve risposte e il caldo abbraccio della comunità.

Tralascio, per doverosa discrezione, le lodi al nostro periodico e il disappunto di non poterlo trovare nella loro parrocchia geografica, ma sottolineo la loro ammirazione e quasi l’ebbrezza per avere la possibilità di condividere la lettura della vita, le proposte di solidarietà, l’avventura cristiana vissuta positivamente e non in maniera stanca, rassegnata ed incanalata in un binario morto.

Se ne sono andati contenti ed io sono rimasto nel mio studiolo più contento di loro avendo, ancora una volta, scoperto che sotto la brace c’è ancora qualcosa di vivo pronto ad infiammarsi.

Il prezzo di essere “libero e fedele”

Un signore che mi vuole veramente bene e che forse ha una stima esagerata nei miei riguardi, qualche giorno fa, nel ripetermi che legge sempre e molto volentieri “L’incontro”, mi diceva: «Don Armando, apprezzo quanto mai il suo ripetere: voglio essere “libero e fedele”».

Io sono stato evidentemente molto contento di sentirmelo dire, ma soprattutto sono stato felice che egli avesse colto quello che per me è un punto di forza nell’affrontare la complessa avventura della vita. Quel motto è troppo bello e troppo alto perché sia nato dalla mia consapevole mediocrità, perciò devo confessare a questo lettore e a tutti gli amici de “L’incontro” che “libero e fedele” è il principio ispiratore della filosofia di quel grande profeta del nostro tempo che fu don Primo Mazzolari.

Don Mazzolari, che non ho mai incontrato fisicamente, ma che conosco molto bene dalla lettura dei suoi numerosi scritti, come tutti i profeti di ogni tempo, affrontò momenti estremamente difficili, fu combattuto non solamente dai “nemici”, ma soprattutto fu oggetto del “fuoco amico”, ossia passò i peggiori guai per i provvedimenti e le sanzioni emanati da una parte della gerarchia ecclesiastica poco aperta e poco preoccupata di conoscere e dialogare con i tempi nuovi.

Quando quel caro signore sottolineò positivamente la dottrina che ha sempre ispirato le mie scelte, mi venne d’istinto di domandarmi: “Quanto è costata a me questa scelta di fondo?” Non certamente il prezzo che ha dovuto pagare don Mazzolari! Io per fortuna sono vissuto in tempi diversi, più lontani dalle code di un certo spirito di inquisizione, che non è mai stato estirpato completamente negli apparati ecclesiastici. Il prezzo è stato infinitamente inferiore, ma posso affermare senza tema di smentita che anche oggi l’essere libero e l’essere fedele costano. Costano ugualmente la libertà ed altrettanto la fedeltà.

Anch’io ho pagato in solitudine e amarezza questo prezzo, ma confesso, con onestà e con orgoglio, che non ne sono assolutamente pentito e che mai e poi mai ho ritenuto questo prezzo alto o, peggio ancora, esagerato.

Un giorno dissi a monsignor Vecchi: «Perché non si possono trovare cose belle, ma a poco prezzo?» E monsignore, che talvolta aveva il vezzo di sentenziare, mi rispose: «Ricordati, Armando, che le cose tanto sono belle tanto costano di più».

Io mi sento un uomo ricco perché, tutto sommato, ho conservato fino a tarda età, sia la mia libertà che la fedeltà alla mia coscienza e al messaggio che la Chiesa porta avanti, bene o male, da venti secoli.

Don Gino, la mia seconda ala per quindici anni…

L’altro ieri ho incontrato don Gino, l’arciprete di Mira Taglio, che tornava dalla benedizione di un loculo in cui suoi cari amici, conosciuti in tempi lontani in cui lavoravamo assieme in parrocchia a Carpenedo, avevano deposto le ceneri di un loro congiunto.

Era tanto che non vedevo questo caro prete, che è stato mio collaboratore per una quindicina di anni in parrocchia. Per don Gino nutro un legame particolare perché venne in parrocchia quando non era ancora prete e vi rimase per lungo tempo, soprattutto nei “tempi eroici” del mio impegno di parroco.

Don Gino si lasciò coinvolgere in tutte le grandi avventure parrocchiali, dalla costruzione del patronato, alla casa alpina. la “Malga dei Faggi”, all’apertura della villa asolana per gli anziani. Soprattutto don Gino fu artefice dello svilippo della comunità dei giovani e dei ragazzi. Quegli anni furono gli anni della ricostruzione, delle nuove frontiere, non per nulla al patronato hanno dato il nome di John Kennedy! Credo che in quegli anni giungemmo all’apice dei successi nel campo pastorale. La differenza di doti e di carismi – lui pacato, ordinato, io irruente, sognatore e combattivo – fecero si che la sinergia operasse degli autentici miracoli quali: l’apertura di una emittente, la pubblicazione di tre, quattro periodici, la rassegna di canti liturgici e folk, la biennale di arte sacra, la nascita del turismo per anziani, l’apertura de “Il Ritrovo”, e soprattutto la nascita di un vivaio di ragazzi e di giovani così numeroso e così vitale da far letteralmente sognare.

Questo pomeriggio m’è arrivato con la posta anche il settimanale di don Gino, fatto “a sua immagine e somiglianza”: ordinato, pulito, steso con buon gusto, originale come stile. La lettura del periodico e la rivisitazione della nostra storia comune, mi hanno fatto venire in mente una bella immagine di don Tonino Bello, il compianto vescovo di Barletta: “per volare ci vogliono due ali”. Per me don Gino è stato un’ala quanto mai valida, infatti dopo di lui il volo in parrocchia è diventato affannoso e poco produttivo perché non avevo più una seconda ala. Lui invece vola anche senza di me, però mi pare sia un volo di linea senza acrobazie!