Cosa mi insegnò la parabola del Samaritano

Qualche Domenica fa ho tenuto il sermone della parabola del buon samaritano.

Confesso che in quell’occasione avrei preferito il tono del comizio a quello della pia meditazione. Vi sono dei passaggi del Vangelo che non dico che mi entusiasmano, perché questo è troppo poco, ma che mi caricano di un’ebbrezza interiore.

Io ho avuto modo di ascoltare un commento al “Laurentianum” di Mestre, da parte di Padre David Maria Turoldo, nel quale è venuto fuori il meglio dell’attore, del sacerdote e del poeta che questo frate, servo di Maria, assommava nella sua personalità ricca e appassionata, e non dimenticherò mai la lezione di vita e di Vangelo che è emersa dalla sua parola piena di passione religiosa e civile.

Qualche anno dopo, ebbi modo di leggere una delle migliori lettere pastorali del Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, che aveva come tema “Farsi prossimo” e che ruotava tutta attorno alle tematiche della parabola evangelica. Porto ancora con me alcune verità che sono diventate punto di forza nella filosofia della mia vita. Il “prossimo” non è colui che ti è vicino, ma colui a cui ti accosti con pietà e con partecipazione al suo dramma. E ancora: la religiosità non è quella teorica del dottore della legge, del sacerdote che tira dritto e del levìta, il quale aveva altro a cui pensare che soccorrere il malcapitato.

La salvezza non è per chi appartiene ad un certo schieramento, per chi è iscritto in un certo registro o si definisce con una certa terminologia formale, ma per chi si sporca le mani per soccorrere il prossimo, seppur incontrato per caso.

Ricordo un pezzo un po’ spregiudicato in cui si ipotizzava che in Cielo può accadere che vicino ad una monachella tutta pudore e preghiera, possa sedere il Ché Ghevara con il mitra sulle ginocchia perché anche lui, pur a modo suo, ha tentato di soccorrere il suo prossimo sfruttato!

Altra verità: nessuno può rifarsi solamente all’organizzazione sociale, alle competenze e tentare di scusarsi dicendo “non è compito mio!”, ma ognuno deve compromettersi col prossimo che ha bisogno.

Forse, se non avessi letto con questo cuore la parabola del samaritano, il “Don Vecchi” e tante altre cose sarebbero rimaste nella sfera delle utopie o, peggio ancora, dei futuribili.

L’importanza degli educatori in questo nostro tempo

Quando facevo l’assistente religioso dell’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici), perché in quei tempi lontani insegnavo alle magistrali, ricordo che un docente di una delle moltissime lezioni che l’associazione organizzava per aggiornare i maestri, affermava che educare significa far emergere dalla personalità dei ragazzi quelle qualità positive che essi possedevano. L’ educatore doveva far prendere coscienza di queste sementi, curare la crescita dei germogli e fare da tutore perché essi crescessero dritti e robusti. In fondo c’è la legge di natura che regola questo meccanismo di crescita, essa vale per gli uomini, per gli animali e perfino per le piante. Se l’educatore non segue questa crescita in maniera decisa, con gli innesti opportuni e i necessari interventi, avremo delle creature selvagge, disordinate, improduttive e brutte da vedersi.

Da un paio di anni io sto addestrando un filare di oleandri a crescere ad alberello, perché solo così ci permettono di vedere lo splendido tappeto verde del prato che sta aldilà del filare delle piante di oleandro, e sono certo che riuscirò in questo intento!

Credo che in ogni settore della vita, dalla scuola alla società, dalla famiglia alla politica, servano educatori esperti, autorevoli e decisi, che inizino con un addestramento, proseguendo con un’opera di educazione e quindi di formazione, crescendo uomini veri e non selvaggi disordinati, irrequieti ed incapaci di vivere in una società ordinata e civile.

In questo momento storico credo che a livello familiare, scolastico, civile e politico, i preposti all’educazione siano incerti, poco decisi e senza idee chiare, cosicché nella scuola alligna il bullismo, nella fabbrica l’assenteismo e il disinteresse, nella società i no-globals e i centri sociali, in Parlamento le chiacchiere e nella famiglia il capriccio.

Quindi il problema è quello delle guide, che devono avere idee chiare e polso fermo, perché solo così è possibile creare una società migliore; chi rema sempre contro e chi non mantiene fermo il timone tradisce l’uomo e la società.

Pomigliano

Le vicissitudini degli operai e dei sindacalisti della fabbrica della Fiat di Pomigliano m’hanno coinvolto; vi ho partecipato, pur da lontano, appassionatamente, e mi sento tuttora coinvolto. Per chi parteggio?

Non so a chi possano interessare le mie scelte, però credo che sia doveroso avere delle opinioni e prendere posizione, almeno interiormente. Non mi sentirei uomo, cittadino, cristiano, se non mi lasciassi coinvolgere da questo conflitto e se idealmente non dessi il mio contributo, seppur sofferto ed aperto, ad ogni ulteriore elemento che possa modificare il quadro in cui sta avvenendo lo scontro.

Se la Fiat, nella persona di Marchionne, coltivasse il tentativo di schiavizzare gli operai, di sfruttarli in maniera disumana, di imporre criteri nuovi di sudditanza per guadagnare di più, per comandare più agevolmente, per fiaccare la resistenza dei dipendenti e violare la loro dignità, sarei con la FIOM senza alcuna perplessità; mi sentirei in peccato mortale e lontano dal mio Signore se assecondassi chi volesse mortificare ed opprimere tanti figli di Dio. D’altronde, se mi accorgessi che la FIOM sostiene la sua tesi per preconcetti di partito, per agevolare l’opposizione di sinistra, per mantenere la sua inveterata cinghia di trasmissione con una certa dottrina sociale, sonoramente battuta dalla storia, se comprendessi che la FIOM non tien conto della situazione globale dell’economia. se essa assecondasse la naturale tendenza del sud ad impegnarsi poco nel lavoro, a sfruttare lo Stato; se praticasse la teoria tante volte seguita del “tanto peggio tanto meglio”, se capissi che il sindacato di sinistra è connivente con la mafia che a Pomigliano ha interessi e sudditi a non finire, se fossi certo che questo sindacato bara, come ha detto Bonanni alla televisione, credo che pure dovrei confessarmi per peccato grave di connivenza, e dovrei accettare a capo chino una grossa penitenza dal confessore.

Per ora c’è dentro la mia coscienza un dibattito forte ed una battaglia senza esclusione di colpi; devo però confessare che, mentre la prosopopea e la prepotenza del segretario della FIOM mi ha fortemente irritato, il ragionare pacato e perlomeno apparentemente saggio di Banoni, segretario della CISL, ha accattivato le mie simpatie.

Qualcuno dirà «ma dove va a impegolarsi questo vecchio prete?» Gli rispondo: «Voglio essere un cittadino di questo mondo ed un cristiano che partecipa ai drammi dei propri fratelli!»

“Si può lodare Dio egualmente costruendo cattedrali che pelando patate!”

Spesso mi verrebbe la tentazione di pensare e parlare sempre di argomenti di carattere religioso. Credo che per un prete che deve occuparsi di questo settore particolare della vita, questo sia giusto e doveroso.

Il guaio però sta in un equivoco di fondo che è persino troppo radicato, non solamente nel mondo ecclesiastico, ma anche tra la gente comune.

Per troppi, a mio modesto parere, l’etichetta religiosa riguarda non la vita, ma alcuni aspetti che spesso sono marginali, in un certo senso, della vita. Ad esempio, che il prete si occupi della preghiera, è sensato, ma per certuni la preghiera corrisponde ad una definizione troppo generica e molto equivoca. I testi di mistica affermano che la preghiera consiste in una “elevatio mentis ad Deum”, ossia in una elevazione della mente a Dio, quindi in una certa riflessione interiore nei riguardi di Dio.

Mi domando però che cosa significhi questo per l’uomo contemporaneo; per qualcuno consisterà in un gruppo che recita rosari su rosari, per qualche altro in un coro di frati o monache che indossando certe tonache bianche salmodiano a certe ore del giorno e della notte. Non dico che tutto questo sia in disaccordo con la vita, però credo che la modificherà molto marginalmente.

Io sono profondamente convinto invece che, partendo da valori di fondo, come la considerazione che l’uomo è persona, che è figlio di Dio e fratello di ogni essere umano e che Dio è la fonte della verità, della sapienza, della bellezza, della giustizia e di ogni altra virtù, la preghiera è il tentativo onesto di tradurre in comportamenti, in scelte, in pensieri e nella vita quotidiana anche gli aspetti – dai più sublimi ai più banali – questa realtà di fondo. Quindi il vero orante non è il frate del convento, o il membro del gruppo di preghiera in quanto tale, ma il professionista che si aggiorna e richiede solamente il giusto compenso, il politico che non bara, non fa discorsi solamente per accaparrare la gente e raccogliere voti, l’operaio che fa il proprio dovere senza rinunciare a pensare con la propria testa, il cittadino che collabora alle sorti della sua città, il prete che testimonia con la vita il messaggio di Gesù, l’insegnante preparato che sa educare.

Ricordo, a questo proposito, un’affermazione di un giovane scout francese; “Si può lodare Dio egualmente costruendo cattedrali che pelando patate!”

Ho sempre avuto fiducia nella vita, anche durante la battaglia contro la malattia!

I miei concittadini hanno appreso la mia avventura chirurgica da “L’incontro”, forse lasciandosi impressionare dalla cronaca un po’ fiorita del mio diario. Tanto che ho l’impressione che siano tutti un po’ sorpresi di vedermi sano e pimpante nonostante i miei ottant’anni passati e le mie disavventure renali.

Talvolta penso che “L’incontro” faccia la funzione di seminare certe notizie che poi, come le piume sparse dal vento, vanno a finire in ogni dove e perciò tanti cittadini, più di quanti io pensi, finiscano per conoscere certe vicissitudini della vita, oppure che passino delle immagini settimanali che rimangono impresse nella fantasia senza poterne conoscere il seguito.

Io ritengo che tutto questo sia positivo, perché da un lato crea una familiarità, per cui ci sentiamo tutti coinvolti da un comune destino e dall’altro lato sdrammatizza certi eventi, che sono certamente gravi, ma che si possono anche vincere. Non mi spiace di poter dare questa testimonianza in diretta, spero che tutto questo possa aiutare taluno a superare angosce forse esagerate e al tempo stesso aiuti a capire che certi incidenti, anche di una certa gravità, fan parte dell’avventura della vita. Non si deve pensare che la nostra esistenza debba procedere tutta piatta, informe e tranquilla. Una battaglia vinta procura molta soddisfazione, aiuta i medici a cimentarsi con fiducia contro il male, constatando che esso, pur chiamandosi col nome tetro di cancro, si può vincere e non una volta soltanto!

Molti non immaginano neanche quanta ricchezza interiore procurino certe prove superate, io penso che non sarei neanche quel poco che sono, se non fossi passato attraverso certe disavventure fisiche. Poi non vi dico il piacere che provo quando mi capita di incontrare persone, di cui non ricordo il nome e che forse neanche conosco, che si sorprendono felicemente vedendomi perfino troppo florido, dopo essere stato sottoposto ai ferri della sala operatoria.

Spero che la mia testimonianza di fiducia nella vita, nel prossimo, negli operatori sanitari, possa aiutare chi ha timori del genere e che la mia scelta di vivere tutta la vita in tutti i suoi aspetti come un’avventura, tutto sommato positiva, possa essere di una qualche utilità anche per i miei concittadini.

La “ricetta” per una chiesa gremita!

Il mio coro domenica mattina ha ricevuto a fine messa un caldo e prolungato applauso dall’assemblea che gremiva la chiesa, occupando tutte le 220 sedie, stando in piedi lungo le pareti e gremendo pure il sagrato.

Sono troppo vecchio per chiedere alla Veritas e al Comune di ampliare la chiesa del cimitero, mi accontento anche così e spero che i fedeli della mia splendida comunità facciano lo stesso.

Essendo stonato, ma tanto stonato, ho chiesto alla “Corale Santa Cecilia” del “Don Vecchi” il dono di animare alla domenica l’Eucaristia che celebro in cimitero alle dieci. Ho avuto immediatamente la disponibilità della signora Giovanna che è il Toscanini del mio gruppo corale. Abbiamo superato qualche difficoltà per il trasporto – perché il cimitero, come tante altre parti della città, non è servito dagli autobus dell’ACTV – mediante la disponibilità di due miei coinquilini, Primo e Rino i quali, facendo la spola “Don Vecchi-cimitero” trasportano soprani, contralti, organista e maestro del coro, tutta gioventù che ruota attorno agli ottant’anni.

Fortuna mia e loro, essendo i canti facili e “cantabili”, tutta l’assemblea, se non altro per un motivo di tenerezza verso tanta veneranda età, si lascia coinvolgere e canta; qualche anziano si è unito da volontario e la signora Buggio fa da soprano solista, pur potendo essere considerata una nipotina con i suoi quarant’anni. Nino, il violinista novantenne, ogni domenica giunge in bicicletta col violino a tracolla, accompagna il coro, assieme all’armonium suonato dalla signora Dolens, e in altri momenti si esibisce con i virtuosismi che, in tempi andati, strappava gli applausi dei “foresti” e dei veneziani, quando suonava al “Lavena” o al “Quadri” in Piazza San Marco; adesso fa ancora venire i brividi e fa sognare la beatitudine del Paradiso.

Domenica scorsa la chiesa era gremita, com’era gremito il porticato antistante la porta principale. Dicono che le chiese sono deserte e che poca gente va a messa la domenica, ma se penso alla mia chiesa mi vien da concludere che bisognerebbe che le prediche fossero più corte e più sostanziose, la liturgia più curata e l’animazione più accattivante e più consona all’incontro col buon Dio che ci viene a visitare.

Mi son permesso di scrivere tutto questo perché non voglio essere il solo a beneficiare di questa “ricetta”, almeno “provare per credere!”

La dolce e fiduciosa cornice del primo mattino

Il primo pensiero, dopo il tormentato sonno notturno, mentre la sveglia non ha ancora smesso di suonare le cinque e trenta, è sempre lo stesso: “Signore aiutami”. Ogni giorno è per me un’avventura, ma anche nello stesso tempo una “battaglia”. Ora più che mai sono consapevole della mia fragilità.

Gli psicologi pare abbiano scoperto che la terza età è un tempo di portento e di meraviglia, io però rimango del parere dei nostri antichi romani, i quali avevano sentenziato “Senectus, ipsa morbus”, la vecchiaia è di per se stessa una malattia invalidante!

Segue alla preghiera del risveglio la pulizia personale e quindi la recita del breviario, per giungere alle 7, quando suor Teresa mi porta “Il Gazzettino” e mi scalda il caffelatte.

Recito il breviario nella stanzetta d’ingresso che mi fa da cucina e nello stesso tempo da salotto. Ora che è bella stagione tengo aperta la porta che si apre sulla piccola veranda, che ha il bordo del muretto tutto pieno di petunie multicolori ed una spalliera di gelsomino.

Talora, per preparare lo spirito alla lode del Signore, esco sulla veranda ad ammirare il cielo, a sentire la voce del silenzio, a vedere i merli in redingote nera e i gabbiani in bianco che passeggiano disinvolti e felici nel grande prato di levante. D’istinto mi vengono in mente le parole di Gesù: “Guardate gli uccelli dell’aria e i fiori del campo!” I primi vivono felici, pur non preoccupandosi troppo di che mangiare, i secondi vestono da re, senza andare in boutique!

Rientro quindi in casa per la preghiera del mattino, di mezzogiorno e della sera, al Signore dico tutto d’un fiato la mia riconoscenza, la mia fiducia e il mio abbandono in Lui. Mentre prego, il ciclamino profuma ed accompagna in cielo il tutto, anche quando leggo vecchie storie di guerra e di sangue, intrighi, soprusi e malefatte di tempi lontani; anche quando ripeto le parole di un piccolo popolo che si credeva al centro del mondo e che spesso tentava di ricattare anche il Signore.

Alle sette e venti esco per andare nella mia cattedrale tra i cipressi, ove la cornice è più seria, ma non meno dolce e fiduciosa.

Corsi e ricorsi

Ho notato, con felice sorpresa, che quando l’Annunziata, la giornalista di Rai3, intervista una persona di grosso spessore umano, prende un atteggiamento cortese e rispettoso. Mi pare che questa donna tenga conto del detto popolare “Scherza con i fanti e lascia stare i santi”.

L’ultimo dibattito a cui ho assistito, è stata l’intervista fatta a Bonanni, il segretario della CISL, sull’accordo per la fabbrica della Fiat a Pomigliano. L’Annunziata in questa occasione è stata, come sempre, arguta, stuzzicante, sorniona, puntuale ed intelligente, ma estremamente rispettosa; m’è sembrato che nutrisse un naturale rispetto per il sindacalista pacato, saggio, libero e corretto. In questa occasione, come in altre simili, m’è parsa perfino più donna e più bella!

Bonanni, pur evitando ogni polemica e tenendo aperta la porta alla CGIL, m’è parso un uomo saggio, deciso, libero e coraggioso, offrendo criteri realistici per una lettura della situazione del nostro Paese e quella del mondo e, da persona di buon senso e con i piedi per terra, ha difeso l’accordo raggiunto, pur temendo che esso non sia portato in porto a causa della faziosità del sindacato della sinistra.

Son passati tanti anni da quando la CISL ha dovuto rompere con la CGIL perché asservita al partito comunista e cinghia di trasmissione tra il mondo del lavoro e il partito, però pare che la Fiom, ancora una volta, voglia dare una mano al partito di Bersani che si muove con affanno e specializzandosi nel dire sempre di no, opponendosi disperatamente ad ogni collaborazione con il Governo.

Oggi, come allora, qualche “comunistello da sagrestia” tenta di puntellare la barca arrogante e presuntuosa, nonostante le dure batoste e il bisogno di sentirsi chiamare “compagno”! Tutto questo, mentre perfino Putin va in chiesa ed abbraccia il Patriarca di Mosca.

Un “fioretto” fortunato

Recentemente ho avuto, a Villa Querini, un colloquio quanto mai importante per la vita del “Don Vecchi”, con il dirigente che è il responsabile dell’amministrazione comunale per quanto concerne l’assistenza agli anziani.

Non eravamo soli, perché ognuna delle due parti era accompagnata da una piccola delegazione di tecnici: iI funzionario del comune dalla dottoressa Corsi, che credo sia il tecnico più preparato e soprattutto più appassionato di questo problema; da parte mia avevo il ragionier Candiani, che da una quindicina di anni vive le problematiche del Centro, e dalla signora Cervellin, che fino a poco tempo fa ha guidato tutto il personale infermieristico dell’Ospedale dell’Angelo, donna di una logica stringente, accompagnata da una calda familiarità.

Il motivo del contendere: il mantenimento, quanto più a lungo possibile nella residenza protetta, degli anziani in perdita di autonomia. Io a sostenere che senza personale adeguato la cosa era impossibile, il rappresentante del Comune preoccupato della situazione finanziaria del Comune, non certamente rosea, pur sapendo che per ogni anziano al “Don Vecchi”, il Comune eroga un euro e venticinque centesimi al giorno, mentre in casa di riposo la spesa è di 50 euro più 50 della Regione.

Io ho premesso che andavo all’appuntamento nel convincimento e con la volontà di cercare assieme una soluzione possibile. Il “duello” è avvenuto armati ambedue di “fioretto”, ma muniti di corpetto e di visiera, perché in ambedue c’era l’intenzione di non “ferire” l’altro.

Ci fu un “assalto”, però sempre corretto, ma deciso. Credo che se dovessi dare un punteggio, dovrei dire che l’incontro si è risolto alla pari; ognuno, credo che sia rimasto soddisfatto di come ha portato avanti le sue tesi e di certo nessuno ha arretrato di un millimetro. Ambedue abbiamo portato avanti le nostre tesi, convinti di dover raggiungere il meglio e il possibile. Alla fine entrambi abbiamo delegato i tecnici a tradurre in numeri e in cifre l’operazione comune.

Al momento in cui annoto nel diario quest’incontro, non sono in grado di misurare gli obiettivi raggiunti o meno; di certo il discorso sulle dimore protette per anziani ha fatto un passo avanti ed io e il dottor Gislon ci siamo conosciuti meglio come persone che non mollano facilmente, ma che dialogano, magari in maniera dura, ma onesta.

Una croce sempre più difficile da portare

Confesso che sento sempre di più il peso del comando. Io, pur avendo ben chiari gli obiettivi e pur perseguendoli con tenacia, con determinazione e sempre disposto a pagarne il prezzo, non ho il coraggio e forse la forza per tenere in riga i vari “colonnelli”.

Spesso, anche con le più buone intenzioni, avendo essi una visione parziale dell'”azienda”, finiscono per combinarmi dei guai e mettermi nei pasticci. Purtroppo lo spirito gerarchico nel mondo dei volontari, non dico che sia tenue, ma spesso è inesistente. Ognuno pensa al suo orticello, ognuno persegue l’interesse del suo comparto e, non avendo una visione globale del problema, crea disagio, contrapposizioni che molto di frequente nuocciono alla causa ultima.

Papa Giovanni XXIII era un uomo mite e aveva come obiettivo questa virtù; quante volte non citava la frase di Gesù “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore”. Però, contemporaneamente, lo stesso “Papa buono” citava la frase strategica della sua guida pastorale: “Miles pro duce et dux pro victoria”, iI soldato deve stare agli ordini del comandante e questi deve essere totalmente impegnato e deve impegnare i suoi subordinati e perseguire il successo, l’obiettivo fissato.

Recentemente Obama ha licenziato il comandante in capo del suo esercito in Afghanistan perché egli non condivideva la strategia della Casa Bianca. Ma Obama ne avrà avuti altri trenta generali che sognavano di diventare comandante in capo, mentre io non ho quasi nessuno disposto ad addossarsi una nuova croce; devo far quadrare il bilancio con la gente che ho! Il cardinale Urbani era solito dire in proposito che anche quando aveva una bella candela, non aveva il bossolo adatto. Io mi reputo già fortunato, nonostante tutto, d’avere un volontariato consistente, pur dovendo ammettere che provo la fatica di Sisifo nel farlo andare d’accordo, nel non permettere che non si travalichino confini delle proprie competenze, che non si ricatti minacciando di andarsene.

Come capisco quel Papa che avendo avuto la maggioranza dei voti dei cardinali elettori, alla richiesta se accettava la nomina, rispose : «Accetto di portare la croce». Finora ci sono riuscito anch’io, ma non so fin quando ci riuscirò.

Proverò anch’io la “cerca” modernizzata!

Quando a maggio sono stato in pellegrinaggio, con i residenti del “Don Vecchi”, al santuario della Madonna dell’Olmo a Thiene, ho avuto il piacere di incontrare e dialogare un po’ con un ragazzo del nostro quartiere, che ha mollato tutto, s’è perfino “liberato” del gruzzolo che aveva messo da parte, per vedere se era adatto a seguire le orme del poverello d’Assisi, san Francesco.

Chiesi, com’è naturale, come si trovava e che cosa faceva. Tra l’altro mi disse che si occupava della mensa dei poveri, com’è tradizione in quasi tutti i conventi dei cappuccini. Il discorso si allargò perché ero, e rimango, interessato a scoprire come si possono trovare gli approvvigionamenti, essendo questo un grosso problema per il Banco alimentare del “Don Vecchi”. Lui mi disse che c’era un frate addetto alla “cerca”. La frase dapprima mi evocò il personaggio dei Promessi Sposi, fra Cristoforo, che s’era imposto questa penitenza per espiare i suoi trascorsi non tutti virtuosi, poi mi ricordai di un fraticello francescano che fino ad una trentina di anni fa passava per le calli di Venezia a raccogliere e mettere nella bisaccia che portava a tracolla le elemosine dalle donne dei vari quartieri.

Il nuovo giovane amico mi disse che nel suo convento la cerca s’era aggiornata, il fraticello addetto partiva col suo motocarro e andava presso i suoi “clienti”, un “portafoglio” che il frate precedente aveva acquisito e trasmesso a lui.

Questo episodio mi diede un’idea! Anch’io ho la necessità di raccogliere almeno due milioni di euro; finora ho fatto la cerca alla vecchia maniera, stendendo la mano mediante “L’incontro” e portando a casa “pan vecchio e alimenti di poco conto”. Penso che sia giunta l’ora di aggiornarmi, di fruire del portafoglio di clienti che ho acquisito in questi ultimi quarant’anni: Chisso per la Regione, il sindaco Orsoni per il Comune, Segré per la Fondazione Carive, l’Associazione Industriali di Venezia, il Banco San Marco, la Banca Antonveneta e qualche altro.

A quanto mi disse l’aspirante frate della Madonna dell’Orto, il suo confratello che modernamente va alla cerca col motocarro da clienti prestabiliti porta a casa una quantità di alimenti. Speriamo che la cosa funzioni anche nel mio caso!

“Non frequentava, ma credeva”

Mi par d’aver ripetuto che in occasione del sermone che tengo durante le messe di commiato, evito i panegirici o le orazioni funebri, tentando di passare invece qualche verità fondamentale, che mi pare che i fedeli non conoscano più perché le nuove generazioni hanno passato il tempo del catechismo facendo cartelloni, o tutt’al più qualche recita biblica. Però, pur perseguendo questo obiettivo, mi pare giusto, sotto ogni punto di vista, avere un’idea, seppur minima, del morto per cui celebro il commiato cristiano.

Nel tempo, mi sono creato una serie di domande sommarie e discrete da porre ai parenti, per non dir cose che proprio non ci stanno, in modo d’aver un’idea, seppur minima, del soggetto, per adoperare il tasto della speranza piuttosto che quello della misericordia del Signore. Tra queste veloci e sobrie domandine, mi pare non possa mancare quella se il defunto era una persona religiosa. Pare che la gente abbia raggiunto un accordo sociale a livello globale. La risposta pronta e convinta è quasi sempre questa: «Non frequentava, ma credeva». Talvolta: «Era un buon credente anche se non andava in chiesa come certuni». E s’aggiunge quasi la commiserazione e il malcelato disprezzo per i praticanti.

Di certo è un bel problema farci stare dentro agli otto minuti di predica l’idea che è ben difficile conservare o acquistare una fede viva, che innervi la vita, senza confrontarsi con i fratelli, senza ascoltare la parola del Maestro, senza alimentare la fede come si alimenta l’amore, con parole, gesti, tensioni interiori, confronti, senza una dimestichezza di rapporti con la persona amata. Io tento di fare del mio meglio, ma ci vorrebbero almeno trenta-quaranta morti all’anno della stessa famiglia per fare una catechesi cristiana abbastanza decente. Per fortuna, o per disgrazia, ciò capita circa ogni circa dieci anni, per cui temo che ci si dimentichi anche quel po’ che ho tentato di passare la prima volta. Mi consola però la certezza che a questo scopo il buon Dio non ha solamente a disposizione la predichetta del funerale!

Solidarietà: chi protesta e chi dialoga; io vado avanti!

In una notizia apparsa sul “Gazzettino” di alcune settimane fa, non so se giustamente o meno, m’è sembrato di leggere che il vicesindaco, nonché assessore, tra l’altro, alla sicurezza sociale, prof. Simionato, fosse intervenuto ad un’assemblea tenuta in ambienti della parrocchia di San Pietro Orseolo, assemblea in cui alcuni cittadini avevano protestato in maniera violenta contro l’andirivieni di poveri che nel pomeriggio dalle 15 alle 18 vengono al “Don Vecchi” per ritirare indumenti, generi alimentari e mobili.

Il giornalista, tra l’altro, pareva riferisse che il prosindaco aveva promesso di regolamentare tale afflusso al “Don Vecchi” non visto di buon occhio dai suddetti residenti. Molto probabilmente si trattava degli stessi residenti che un tempo s’erano opposti, riuscendoci, alla costruzione di case popolari, quindi s’erano opposti alla costruzione del “Don Vecchi due”; infine, quando al “Don Vecchi” si pensò di creare un Centro per anziani non autosufficienti nell’ex cascina Mistro, si opposero col pretesto di voler costruire un Centro giovanile. Quando poi il “Don Vecchi” rinunciò al progetto perché la struttura sembrò non idonea, e perciò avevano la possibilità di costruire quel Centro giovanile, non si sa perché, desistettero dall’impresa.

Ora, molto probabilmente, temendo che si attui il sogno della “Cittadella solidale” si sono rifatti vivi. Queste reazioni non mi interessano per nulla perché chi non accetta i più poveri e i più deboli, non solo non ha le mie simpatie ma, meno ancora, la mia stima, come uomo, come cattolico, come cittadino e come cristiano. Però che il vicesindaco avesse abbracciato questa causa non m’andava proprio giù.

Quando questo amministratore mi chiese un colloquio, ci andai con spirito quanto mai bellicoso. Incontrando però il dottor Simionato, l’indignazione sbollì come per incanto, in quanto egli mi disse che per coscienza, cultura e convinzioni personali, non aveva che stima per quanto andiamo facendo al “Don Vecchi” per i poveri.

L’incontro servì anche per fare un giro di orizzonte sui problemi sul tappeto – anziani in perdita di autonomia, “Don Vecchi” di Campalto, “Cittadella della solidarietà” e generi alimentari in scadenza – trovandoci d’accordo su tutto il fronte.

Sono grato all’assessore, nonché vicesindaco, per la ritrovata intesa con la civica amministrazione e per la volontà di lavorare in maniera sinergica a favore dei meno abbienti. Per quanto riguarda i concittadini, posso rassicurarli che tento di avere rispetto per tutti, ma grida, firme e quant’altro non mi scompongono affatto, quello che ritengo giusto e doveroso lo perseguo nonostante tutto e credo d’averla finora sempre spuntata.

Come sarebbe bella una società senza il peccato!

Credo che ognuno, quando legge un testo che racconta un episodio di vita, sia pronto con la fantasia a crearsi attorno ciò che ha letto una ambientazione che incornicia l’evento e lo immagini seguendo le suggestioni della sua sensibilità e della sua cultura.

Stamattina ho letto, durante la messa, l’episodio del paralitico calato dal tetto da quattro generosi volontari, che non riuscendo ad entrare nella casa in cui si trovavaa Gesù, a causa della calca di gente che ostruiva il passaggio, con decisione presero la coraggiosa iniziativa di calare il malcapitato dal tetto. Spesso, commentando l’episodio evangelico ho parlato del dovere della solidarietà, del senso della partecipazione, della pietà di Gesù e della dimostrazione della sua divinità, avendo Egli operato una guarigione naturalmente impossibile.

Quest’anno, nella mia fantasia, ho messo in moto l’immaginazione prima nel pensare al volto di quell’infelice alle parole: «Ti siano rimessi i tuoi peccati». Mi è stato facile pensare allo stupore, alla delusione, alla tristezza, allo scoramento e forse alla stizza di quel malcapitato a cui può darsi non interessasse la faccenda dei peccati, come d’altronde anche alla gente del nostro tempo non interessa più di tanto la “facezia” del peccato, che spesso è considerato come l’espressione di certi tabù del passato e, peggio ancora, considera una “manna” poter cogliere le cose piacevoli della vita.

Poi la ragione mi ha costretto ad approfondire l’argomento, concludendo, senza troppa fatica, che il peccato è causa di tutto il disordine interiore e della società, crea malessere nella coscienza della persona e tutti i malanni che la cattiveria e la trasgressione fatalmente mettono in moto nel vivere sociale, facendomi concludere che di certo era giusto quello che Cristo volle affermare, che cioè una società senza peccato sarebbe veramente la più bella e la più felice delle società.

Mi sono sforzato di trasmettere questo concetto mediante il sermoncino che ho tenuto ai devoti, ma poi ho pensato che potevo anche risparmiarmelo perché, per l’età e le condizioni, i miei fedeli non avrebbero avuto nemmeno la possibilità di tentare di cogliere “i fiori del male”.

La società civile riscopre la visita casa per casa che i preti hanno dimenticato!

Qualche giorno fa, prima ho letto sul “Gazzettino” e poi, il giorno dopo, ho ascoltato alla radio, una notizia piuttosto singolare. Il sindaco di Meolo, un paesotto ad una ventina di chilometri da Mestre, aveva scoperto che per conoscere meglio i suoi amministrati e stabilire con essi un rapporto più costruttivo, era una buona idea andarli a visitare nelle loro case, piuttosto che attenderli nel suo ufficio nella Casa Comunale.

La notizia ha sorpreso gli operatori dei mass-media per un verso, ossia perché è piuttosto insolita una soluzione così intelligente e democratica come questa del primo cittadino di Meolo. Io invece sono rimasto sorpreso per un altro verso, per il fatto che quella che era una vecchia prassi adottata da quasi tutti i parroci anziani, e poi abbandonata col pretesto che fosse vetusta e superata, ora quasi completamente abbandonata dalle nuove generazioni di ecclesiastici, sia stata riscoperta a livello civile tra il plauso, non solamente dei concittadini amministrati, ma dall’opinione pubblica più avanzata, come soluzione d’avanguardia che attua il principio “porta a porta” e del contatto personale, come ormai sta avvenendo per le competizioni elettorali anche nei grandi Paesi del mondo.

Povere parrocchie, ma soprattutto poveri preti: assumono la prassi retributiva dei Paesi socialisti, quando questi le hanno abbandonate perché favoriscono il disimpegno e la tentazione di non far nulla e abbandonano prassi consolidate e sicuramente efficaci benché impegnative e faticose.

Proprio in questi ultimi tempi il “Datore di lavoro dei sacerdoti” ha fatto, attraverso la pagina del Vangelo domenicale, alcune affermazioni piuttosto ostiche ma precise a proposito dei suoi aspiranti discepoli: «Gli uccelli hanno i loro nidi e le volpi le loro tane, ma il figlio dell’uomo non ha neppure una pietra su cui posare il capo» – «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» – «Chi pone mano all’aratro e poi si volta indietro è adatto per il Regno».