La bellezza del Creato è sempre intorno a noi, non serve cercarla lontano!

All’inizio dell’autunno, quando ero in parrocchia, organizzavamo una gita pellegrinaggio di cinque-sei giorni con un minigruppo che io chiamavo pomposamente “opera parrocchiale pellegrinaggi”. Voglio illudermi che quelle gite-pellegrinaggio siano state veramente un’iniziativa pastorale quanto mai originale e positiva.

Quell’esperienza traduceva esattamente una visione di vita parrocchiale che, secondo me, deve interessarsi di tutto l’uomo, non solo di quello che in maniera fittizia e grossolana siamo soliti chiamare “lo spirituale”.

Le nostre uscite mescolavano in maniera disinvolta cultura, turismo, riflessione, buona tavola, preghiera ed amicizia. Partivamo in due, tre, perfino quattro pullman. Sceglievo un tema legato alla storia o alla cultura delle città che visitavamo; al mattino, in ogni corriera c’era chi leggeva la meditazione che avevo preparato, chi illustrava il territorio con la storia relativa, poi la messa in templi particolarmente significativi, con omelie appassionate e vibranti, pranzi in ristoranti tipici, visite guidate ai monumenti più insigni, rosario sul far della sera durante il ritorno.

Credo che le tante gite-pellegrinaggio alle quali ho partecipato, siano state dei veri “esercizi spirituali” moderni, piacevoli e quanto mai positivi ed efficaci, che sostituivano ritiri melanconici a cui la gente di Chiesa è solita partecipare.

Ricordo che in quelle occasioni mi piaceva moltissimo starmene quieto e solitario a guardare dal finestrino il susseguirsi di prati verdi, di filari rettilinei di vitigni, di boschi che iniziavano a colorirsi di marrone e di giallo, di paesetti le cui case si tenevano per mano, di campanili aggraziati sulla sommità delle colline, quasi sentinelle a protezione delle chiese e del paese. Ricordo soprattutto il cielo terso ed azzurro, il sole tiepido, l’aria frizzante e le ombre lunghe degli alberi sul verde cupo dei prati, la bellezza soave e tenera dell’autunno.

In queste settimane sono andato spesso con la fantasia a questi dolci ricordi, provando nostalgia di qualcosa che inizialmente pensavo di aver perduto per sempre, poi mi sono accorto che facendo quattro passi attorno al “don Vecchi” posso rivedere tutta la poesia dell’autunno, la bellezza della natura che si prepara per l’inverno, l’incanto dei verdi, del prato, dei filari di carpini, con le ombre lunghe che pare s’adagino sull’erba!

Quanta bellezza c’è ancora accanto a noi e purtroppo molta gente non s’accorge che in ogni stagione Dio sta sostituendo una bella scena con una ancora più bella!

Mi hanno donato una clessidra

Ogni mese viene in sagrestia, per chiedermi una messa di suffragio, un uomo rimasto solo dopo la morte della moglie, una cara donna ricca di calore umano e di sentimento, e l’uscita di casa dell’unica figlia che ha fatto una scelta di vita radicale per dedicarsi totalmente agli altri. Mi chiede il suffragio per la sua Franca ed ogni volta sottoscrive un’azione per il “don Vecchi” di Campalto.

Questo signore m’ha preso in benvolere dimostrandomi un affetto ed una ammirazione che mi fanno tanto piacere, anche se non credo di meritarmeli appieno. Già nel passato mi aveva fatto qualche regalo, quasi ad esprimere condivisione per i miei progetti e per il mio modo di fare il prete.

La settimana scorsa mi regalò una piccola clessidra dicendomi: «Lei, don Armando, vive una vita tanto intensa e frettolosa. Le regalo questa misura del tempo perché, durante la sua giornata, si ritagli qualche momento per uno stacco, per trovare serenità nella sua fatica.» Ci ho trovato gusto a rovesciare questo piccolo cilindro di vetro strozzato a metà per far scorrere il filo bianco di polvere che dall’alto scende in basso. L’ho messa sul mio tavolo da lavoro ed ogni tanto mi piace rovesciarla per vedere il tempo che scorre.

La mia clessidra ci mette due minuti esatti, pochi, ma sufficienti per una pausa di verifica, di ripensamento e per una riflessione o una preghiera. Questo dono m’ha fatto ritornare alla memoria una confidenza del cardinal Roncalli, il nostro vecchio Patriarca, che ci diceva che durante la sua giornata ogni tanto smetteva quello che stava facendo per entrare nella sua “cella interiore” per incontrare il Signore.

Due minuti son pochi, passano presto, però mi sono accorto che sono sufficienti per una preghiera, per un “colpetto al volante”, per mantenere il centro della strada. Spero di far presto l’abitudine a capovolgere la piccola clessidra per degli “stacchi” quanto mai utili, quasi un sussulto per svegliarsi, per prendere coscienza della vita che passa.

Una gemma fra le preghiere degli uomini di altre religioni

Monsignor Visentin è stato per molti anni vicedirettore del seminario, poi viceparroco a San Lorenzo, quindi parroco in viale San Marco, poi ancora vicario generale della diocesi ed infine riposa nel nostro cimitero, nel campo di fronte alla vecchia cappella. Per molti anni si occupò in maniera convinta e zelante dell’ecumenismo, un movimento che fino a pochi anni fa era molto di moda nella Chiesa. Ora, forse per i pochi risultati raggiunti nonostante infinite discussioni, si è un po’ appannato.

Io, in verità, non sono mai stato molto appassionato della cosa perché mi irritano le discussioni di lana caprina, perché penso che la globalizzazione finisca per risolvere il problema ed infine perché le discussioni sono su argomenti marginali alla fede, mentre io sono più che mai convinto che è la fede che conta, anche se un cristiano veste di rosso, uno di verde ed un altro di viola. Però anch’io, pur a mio modo, partecipo sostanzialmente al movimento ecumenico, da un lato avendo tolleranza e rispetto per le posizioni degli altri ma soprattutto tentando di assimilare quanto di buono, non solamente scopro tra i cristiani veri delle varie Chiese cristiane, ma anche delle religioni che non si rifanno a Cristo.

A mo’ d’esempio, del mio ecumenismo vorrei citare un pensiero del pastore protestante Dietrich Bauhoeffer, fatto impiccare pochi mesi prima della fine della guerra, da Hitler. Dice questo autentico uomo di Dio: «Non possiamo usare Dio come un tappabuchi, non dobbiamo abusare di Dio. Di fronte alla maestà, l’immensità di Dio che ha creato e governa l’universo, mi sembra una mancanza di rispetto, “disturbarlo” quasi, per delle cose troppo piccole e troppo banali che posso risolvere benissimo da solo. Non posso tentare di usare Dio come un servitore che risolva tutti i miei problemi, anche quelli tanto banali che posso e debbo risolvere io, perché il Signore m’ha dato i mezzi e mi ha insegnato come farlo.»

Il pensiero del pastore protestante mi serve quanto mai da filtro ogni volta che mi rivolgo a Dio: Da quando ho incontrato questo fratello di fede, la mia preghiera è diventata più essenziale e più degna.

Di Canti e di raccoglimento

La nuova chiesa del cimitero – l’ho ormai detto cento volte – è stata per me un dono del Cielo. Non avrei mai pensato che un prefabbricato, messo in piedi appena in un mese, senza progetti, senza architetti e senza alcunché di pregiato, sarebbe stato accolto con tanto entusiasmo da parte dei concittadini, fosse ammirato ed apprezzato come se avessero costruito per loro una cattedrale.

Il fatto che proprio tutti affermino che la nuova chiesa offre un’atmosfera di intimità, quasi accogliesse tutti col calore familiare di una baita di montagna e che si sentano bene tra le sue mura sottili e le sue finestre che s’aprono sulle tombe, mi pare un ulteriore miracolo.

Il fatto poi che i fedeli, da un anno, gremiscano ogni settimana la chiesa, occupino tutte le 220 sedie, stiano in piedi lungo le pareti e nel corridoio centrale e che perfino partecipino alla messa sul piccolo sagrato e sotto la prospiciente galleria di loculi, mi è parsa la terza grazia!

A tutto questo si aggiunge la soddisfazione di avvertire una partecipazione reale sia alla preghiera che ai canti sorretti dal piccolo coro di una quindicina di ultraottantenni, cosa che mi fa enormemente felice; sono pochi i preti che possono godere di una fortuna simile a questa! In molte chiese, purtroppo, c’è aria di stantio; qualche prete canta a squarciagola solitario e le assemblee, spesso sparute, sonnecchiano annoiate.

Da noi le cose vanno fortunatamente in maniera tanto diversa. Però, qualche giorno fa, mi è giunta una lettera di una signora che dice di non essere la sola a lagnarsi della mancanza di possibilità di raccoglimento e di non apprezzare, anzi di essere disturbata dai canti. Povero mondo!

Alla lettura di questa gentile, ma rigorosa critica, m’è venuta in mente la storiella del padre che va al mercato col figlio e con un asinello. Monta in groppa il padre e la gente: “Guarda quel vecchio in sella e il povero bambino a piedi!”. Scende il vecchio e monta il bambino: “Che gioventù, il vecchio a piedi e il ragazzo in groppa!”. Montano tutti e due: “Vergognosi, si approfittano di quel povero asino!” . Scendono tutti e due: “Guarda quegli allocchi, hanno un asino e non ne approfittano!”.

Sia ben chiaro! Io ascolto tutti, ma obbedisco solo alla mia coscienza, checché ne dica il mondo intero!

Al canto aggiungeremo, d’ora in poi, qualche minuto di silenzio!

Anche l’ateismo è di moda?

Non molto tempo fa ho confessato alla pagina bianca di questo mio diario, la triste sorpresa d’aver incontrato, nel lasso di tempo di una decina di giorni, due persone che con serenità, come fosse la cosa più scontata di questo mondo, mi hanno detto di essere atei.

Un giovane professionista e una donna di casa di mezza età mi hanno fatto questa “confidenza” in occasione di lutti che avevano colpito le loro famiglie.

Con loro ho discusso fraternamente sull’opportunità o meno, di compiere il rito religioso, che suppone la fede. Siamo arrivati, dopo un’amichevole e sincera conversazione, a concludere per motivi che mi parvero validi, di accogliere la loro richiesta e di celebrare il rito cristiano del congedo.

Credo di aver rispettato la posizione religiosa di chi m’aveva fatto la richiesta, ma altresì ho offerto con limpidezza il messaggio di Cristo in tutta la sua integrità e valenza umana.

Non è passata neppure una settimana che una ragazza m’ha fatto la medesima richiesta e, con naturalezza e candore, mi ha dichiarato il suo ateismo. In quest’ultimo incontro ho avuto modo di approfondire questa grave posizione nei riguardi della fede.

Supponevo ci fosse sotto uno scontro con un prete, una delusione da parte della parrocchia, l’incontro con un insegnante a scuola, un libro? Niente di tutto questo. Niente di niente. Non un ragionamento, non una motivazione; solamente un’affermazione irresponsabile che poggiava sul nulla.

Mi viene il terribile sospetto che oggi sia diventato di moda dichiararsi atei. Una dichiarazione fatua e banale come chi si veste in maniera stravagante, scomoda ed antiestetica, al quale domandi il perché di questa scelta e questi ti risponde con candore stupido e irresponsabile: «E’ di moda!»

“E’ la moda!”

Qualche giorno fa sulla scala mobile che porta al primo piano dell’Ospedale dell’Angelo ho visto, un paio di gradini avanti a me, un giovanotto sui venticinque-trent’anni, con un paio di blue jeans sdruciti e scoloriti sulle ginocchia e sul didietro, tanto che pensai che fosse un barbone o un drogato. Sceso dalla scala mi accorsi che aveva invece un volto ben curato e per nulla sfatto ma, riguardando i pantaloni, mi accorsi che, oltre ad essere in mal arnese, avevano pure un vistoso “sbrego” vicino all’inguine, tanto che si vedeva la carne. La cosa mi sorprese, ma poi ho pensato che a questo mondo ci sono tante persone eccentriche e stravaganti.

Sennonché, un paio di giorni dopo, incontrai nel piazzale del cimitero una bella ragazza bionda, neanche ventenne, e m’accorsi, con estremo stupore che anche lei indossava dei “jeans scanchenici” e sbrindellati, pure essi con un vistoso sbrego tutto sfrangiato sul davanti e nella parte alta dei pantaloni. Suor Teresa, a cui manifestai tale sorpresa, mi rispose laconica e tranquilla: «E’ la moda!»

Ho sempre pensato che la moda sia la cosa più cretina a cui certi giovani e molte donne si assoggettano passivamente come fosse un comandamento. Non mi si facciano discorsi di estetica, di comodità, di risparmio o altro, perché, senza dubbio di sorta, ritengo che seguire le indicazioni del mercato, degli stilisti o di chi so altro, sia la cosa più stupida e più banale che una persona possa fare.

La moda è invece una trovata intelligente, ma truffaldina, di chi specula sulla incapacità di usare la ragione e il buon senso da parte di troppa gente.

Tutto questo mi stupisce, però poi penso che la mode del vestire non siano male sociale più grave, perché purtroppo al mondo ci sono anche mode più stupide ed assai più pericolose: la droga, il vino, lo sballo, le notti brave, il servilismo, la prepotenza, il tentativo di distruggere le fabbriche, la prostituzione, lo sfascio delle famiglie e, purtroppo, tanto altro ancora!

Un rischio per Comunione e Liberazione

Ancora una volta il Meeting di primo autunno di Comunione e Liberazione a Rimini mi ha favorevolmente sorpreso. La milanese Comunione e Liberazione, come la Comunità romana di Sant’Egidio, non solo sanno imporsi all’attenzione del nostro Paese, ma lambiscono perfino l’Europa.

Anche il movimento neocatacumenale e quello del Rinnovamento dello Spirito, come quello dei Focolari, riescono a reclutare fiumi di giovani e di adulti nei loro tradizionali incontri, ma questi hanno un respiro più intimistico e non parlano sulla lunghezza d’onda della cultura e dell’opinione pubblica, mentre i due primi coinvolgono la società civile e riescono ad inserire in essa, anche se sempre piuttosto laica, il lievito cristiano.

Ho seguito quest’anno Rimini un po’ da lontano, un po’ perché le tematiche trattate volano alto ed un po’ perché un episodio spiacevole con un membro di questo movimento m’ha reso un tantino sospettoso e refrattario.

Comunione e Liberazione oggi rappresenta una “potenza” a livello culturale, politico e pure economico; essa viaggia con dei leaders di molta consistenza sia nei partiti che nel mondo finanziario.

Comunione e Liberazione è ormai diventata una holding che ha imprese e addentellati in tutti i settori della vita del nostro Paese. Questo dato, lo confesso, mi preoccupa un po’; quest’anno a Rimini c’erano ancora tanti giovani e tanti volontari, ma c’era anche presente, forte e visibile, un’organizzazione con il supporto finanziario pur consistente.

Il denaro è un pericolo per la Chiesa come per tutti i movimenti che si rifanno ad essa. Il denaro ha rovinato lo sport, ha massacrato la politica, ha impoverito la cultura ed ora temo che, almeno in parte, sciupi e tolga genuinità e freschezza evangelica anche a questi movimenti emergenti nella Chiesa italiana.

Quando ho osservato le tavole rotonde, le impalcature organizzative, i nuovi protagonisti di Rimini, ho avuto la sensazione che mal si coniugassero con la splendida persona di educatore e fondatore, don Giussani. Spero di sbagliarmi, perché, se ciò fosse, sarebbe di certo l’inizio del declino.

Una celebrazione quotidiana di carità e nell’altruismo

Ogni giorno, verso le sedici, faccio una capatina nell’interrato del “don Vecchi” perché, dalle 15 alle 18 il “don Vecchi” di sotto ha il volto di una casba araba pulsante come il centro commerciale di una metropoli internazionale.

Il “giro” che compio è soprattutto teso a gratificare il centinaio di volontari che per cinque giorni la settimana dedicano pressoché l’intero pomeriggio al “servizio della causa”! Però la visita quotidiana rappresenta anche per me la celebrazione eucaristica vespertina. Il corpo di Cristo si muove e vive per cinque giorni alla settimana nei grandi magazzini del “don Vecchi”.

La celebrazione del corpo del Signore non si esaurisce in una lode tra pochi fedeli di una “messa” privata, ma al don Vecchi si celebra ogni giorno un pontificale maestoso, solenne ed affollato.

Proprio qualche giorno fa, in una lettura del breviario, ho letto una meditazione di san Giovanni Crisostomo (Crisostomo significa bocca-voce d’oro) che pensa esattamente come me, o meglio sono stato felicissimo di riscontrare che le mie convinzioni sono uguali a questo grande padre della Chiesa.

Crisostomo afferma con chiarezza assoluta di termini che il Signore si venera non tanto con le pietre preziose di un tempio o nella sfarzosità dei riti, ma nell’amore e nel servizio ai poveri, che rappresentano e sono il corpo reale del Signore.

Confesso che nelle due settimane di agosto, quando i magazzini sono rimasti chiusi, mi è sembrato che il don Vecchi fosse diventato un monumento ai caduti e non quella cittadella della solidarietà nella quale i cittadini del mondo possono incontrare il volto più reale e più bello della Chiesa e del messaggio di Gesù.

Dopo l’estate la vita è ripresa quasi per incanto e le brezze autunnali hanno determinato veramente il tutto pieno.

Mi fa felice e mi esalta l’andirivieni frettoloso di questo mercato atipico, ma vivace e ricco di altruismo. Talvolta mi capita di domandarmi come tante comunità parrocchiali pare non abbiano capito che la solidarietà è il sangue vivo che scorre nelle vene della Chiesa e che un corpo senza sangue è morto?

La Pina è tornata alla casa del Padre

Nota della redazione: come tutti, questo appunto di don Armando è stato scritto diverso tempo fa su un foglio di carta. Man mano che i suoi pensieri vengono trascritti al computer li riportiamo in questo suo blog.

Suor Teresa m’ha riferito che pochi minuti fa è morta la Pina. La Pina è una signora più che novantenne che abitava sulla mia “strada”, pochi numeri più in là della mia dimora al “don Vecchi”.

Proprio sabato scorso, durante la messa vespertina, avevo buttato un occhio sulla fila di destra, vicino alla colonna ove era solita mettersi, e avevo notato la sua sedia vuota, ricordandomi che circa una settimana fa l’avevano trovata in terra ai piedi del letto. Probabilmente aveva passato la notte sul pavimento.

La Pina era una vecchina minuta, un grumetto di carne rattrappita, ma dentro c’era ancora un’anima arguta, una volontà di ferro; mi dicono che era stanca e che si sentiva vicina alla fine, però non rinunciava a fare la sua passeggiatina e ad intrattenere figlie, nipoti e generi.

Qualche tempo fa, probabilmente stanca ed affaticata, nonostante fosse una delle residenti più visitate dai parenti, con un guizzo di volontà, volle che la portassero in casa di riposo. Forse aveva nel suo vecchio cuore l’illusione che la casa di riposo fosse un’oasi fresca e felice. Ci rimase un paio di giorni, inorridita dal costo e dal trattamento, ordinando – perché non aveva mai rinunciato al comando – : «Riportatemi a casa mia al don Vecchi». Ci ritornò per morire nel luogo ove era vissuta felice ed amata gli ultimi anni della sua lunga vita.

Ricordo, un paio di anni fa, quando era ancora completamente autonoma, quando mi raccontava della sua casa nel sestiere di Castello. «Mi cadevano i travi addosso, pioveva dentro, temevo che un giorno o l’altro sarei rimasta seppellita sotto le macerie!»

Al “don Vecchi” aveva trovato serenità e vita nuova. Le finestre del suo appartamento, sempre ordinato e pulito, davano sul grande prato verde con, davanti, il lungo filare di oleandri e, più in là, quello di carpini maestosi. Mi disse che si sentiva felice e che era in Paradiso prima del tempo.

Il crollo è stato rapido, pareva che sarebbe tornata fra qualche giorno dall’ospedale, invece la morte la prese dolcemente per mano mentre sognava di tornare. Ma qualche giorno prima di morire, con quella decisione e quella autonomia alle quali non aveva mai rinunciato, mi diede 50 euro per un’azione per il “don Vecchi” di Campalto. Le ricevetti come fossero i due milioni di euro che mi mancano, perché mi han fatto capire ch’era giusto giocarmi ancora una volta per il bene dei nostri vecchi.

La mia vita nei tempi supplementari…

Molte mattine mi sveglio molto prima delle fatidiche 5,30 quando suona la sveglia. Talvolta mancano 10 minuti, qualche altra volta una o due ore. Normalmente evito di premere il tasto che illumina il quadrante della sveglia, sperando o illudendomi che la notte non sia tutta passata e nella speranza d’avere ancora tempo da dormire.

Fino a qualche tempo fa davo uno sguardo alle tapparelle per vedere se filtrava un po’ di luce, ora è sempre tutto buio. Questo giochetto mattutino, condotto tra me e me, lo faccio più lucidamente di giorno. Passati gli ottant’anni si è sempre e comunque vicini al “giorno nuovo”, talvolta tento di assaporare il tempo che mi manca, vivendo intensamente e godendo di ogni minuto e di ogni cosa, talvolta mi sento preoccupato perché da tanti segni mi vien da pensare che suoni il campanello per “il passaggio”.

E’ un po’ particolare la vita nei tempi supplementari. Da alcuni anni so che la partita è praticamente finita e che sto vivendo il tempo breve dei recuperi. Al “don Vecchi” mi è abbastanza facile incontrare i novantenni, ma sono molto pochi e quasi sempre mal ridotti. Ora sto centellinando i giorni, talvolta perfino le ore, e mi pare bello anche quello che un tempo mi sembrava banale. Soprattutto avverto sempre urgenza di concludere quello che sto facendo, pur essendo certo che la vita mi tenta facendomi sognare e prospettandomi altre cose belle ed interessanti e facendomi rammaricare di non averci pensato prima, di non aver posto in atto, quando avevo tempo, imprese che ora ho perfino paura ad iniziare, perché temo di non poter portare a termine o di dover lasciare come un onere pesante sulle spalle degli altri.

Spesso mi capita di pensare come un sogno splendido ma impossibile la “cittadella della solidarietà”. Ora poi, che perfino il Patriarca mi ha scritto che è interessato al progetto, mi spiace quanto mai sapere che comunque rimarrà per me una visione lontana, e guardo al progetto come Mosè alla Terra promessa.

“Il giornale dell’anima” di Papa Giovanni XXIII

Rovistando in un piccolo magazzino in cui, partendo dalla mia vecchia ed immensa canonica, ho stipato alcune cose che pensavo mi fossero necessarie, vi ho scoperto un volume che credevo di non possedere più.

Una ventina di anni fa – o forse trenta – m’era stato regalato un voluminoso libro “Il giornale dell’anima”, nel quale monsignor Capovilla, il segretario personale, prima, del nostro vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli, e poi, di Papa Giovanni XXIII, ha raccolto con pazienza certosina e catalogato in maniera ordinatissima, le annotazioni che questo grande uomo di Dio e della Chiesa era solito fare ogni giorno.

Ricordo personalmente che anche a noi giovani preti era solito dire, quando ci incontrava per qualche raduno ecclesiale: «Nulla dies sine linea”, che tradotto significava qualche riga ogni giorno su ciò che ti capita, su quello che di buono incontrate o che il vostro spirito vi suggerisce.

Avevo letto d’un fiato il volume, così vivo e palpitante per me che ero stato fatto prete da lui e che per alcuni anni avevo beneficiato della sua saggezza e della sua santità.

Il volume m’era particolarmente caro se non altro perché, almeno in due passaggi, il nostro Patriarca faceva cenno a questo suo chierico prima e giovane prete poi, in maniera cara e positiva.

Ho prestato a qualcuno il volume e, come quasi sempre avviene, non m’è tornato. Tuttavia, avendo pensato che ormai non si trovasse più nelle librerie, mi sono lamentato in una qualche occasione di questa perdita. Una ragazza, che aveva sentito la mia amarezza, dopo pochi giorni, con grande mia sorpresa e gioia, mi regalò una copia dello stesso volume che era stato ristampato.

Ora finalmente l’ho riscoperto e non vi posso dire l’ebbrezza di assaporare tanta sapienza e tanta santità.

Sempre ho nutrito grande venerazione per il Papa buono, ora però lo riscopro ricchissimo di una cultura spirituale, conoscitore profondo degli uomini, umile ed arguto, lucido nel leggere i segni dei tempi. In questi giorni ho perfino la sensazione che la “sapienza e la santità” che la gran parte della gente ritiene ormai valori stantii, vecchi ed uggiosi, siano invece delle realtà splendide e meravigliose!

Due tesori di questo 2010

Un tempo, quando facevo il parroco e mi avvalevo del settimanale “Lettera aperta” per comunicare con i miei parrocchiani, curavo una rubrica che avevo intitolato, in maniera un po’ romantica e sentimentale “I fioretti del 2000”. Questo sull’abbrivio del poverello di Assisi, ma con la differenza che lui era un poeta e un santo, mentre io ero e rimango un povero diavolo; cercavo e pubblicavo tutti quei gesti belli e luminosi che scoprivo qua e là durante la settimana.

La cosa andò avanti per parecchi anni e mi pare fosse accolta con piacere, non so però se facesse anche del bene, e convincesse il prossimo che nella nostra società non tutto è deludente, sporco o, perlomeno, fatuo.

Ora faccio fatica a vedermi col cesto di vimini in braccio a raccogliere, seppur metaforicamente, i fiorellini sul prato della vita. Rimango però sempre voglioso e in ricerca di qualcosa di più consistente, che mi rassicuri che proprio tutto non è perduto e che il mondo reale non è così inconsistente e tragico come ce lo presenta la stampa e la televisione.

Questa settimana ho fatto due begli incontri che mi han fatto veramente del bene. Ho ricevuto la confidenza di un giovane manager che ha lasciato una brillante e lucrosa carriera per accompagnare lungo il percorso di sei anni la sua adorata sposa al “gran passaggio”, poi ha diviso le sue risorse destinandole metà all’unica figlia e metà all’Avapo che aveva curato con amore sua moglie e infine ha deciso di spendere d’ora in poi il suo tempo e la sua professionalità per gli anziani poveri della nostra città.

Il secondo incontro l’ho fatto in preparazione al commiato cristiano di un’anziana signora nostra concittadina. Questa creatura, assistita e sorretta da una sua cugina, che l’ha aiutata a portare a termine il suo progetto, ha lasciato tutto il suo patrimonio in eredità alla stessa associazione Avapo che si avvale di alcuni professionisti e di una novantina di volontari per accompagnare gli ultimi giorni gli ammalati terminali di tumore. Se in questo 2010 non facessi altre scoperte del genere – ma son certo che non sarà così – avrei già scoperto due “tesori”!

I perché de L’Incontro

Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera intelligente e buona di un lettore che, tra qualche complimento generoso, mi ha precisato che alcune affermazioni che io avevo dato per scontate, non corrispondevano a verità. Se fossero state osservazioni di una critica amara avrei reagito polemicamente, almeno dentro di me; esse però erano benevole e gentili.

Tutto questo mi ha fatto riflettere sull’avventura entusiasmante, ma allo stesso tempo faticosa e impegnativa, quasi temeraria, de “L’incontro”.

Tante volte nei meandri della mia coscienza irrequieta e sempre esigente, m’era affiorato il dubbio di essermi avventurato in un’impresa più grande di me, per la quale sarebbe stato necessario un solido retroterra culturale, una lettura intelligente degli eventi e poi una correttezza di discorso che sono convinto di non possedere.

Talvolta mi sono autodifeso convincendomi che il periodico era stato dato alla luce al momento della pensione e lo pensavo come l’unico modo per uscire da un improvviso e totale isolamento. Il periodico m’è parso allora l’unica tavola di salvataggio che mi capitasse sottomano per non affogare e per salvarmi.

Però ora sono passati cinque anni e la mia situazione psicologica ed umana è notevolmente cambiata. La lettera onesta e corretta di un lettore sconosciuto ha riproposto, nitida e precisa alla mia coscienza, la domanda: “perché?”

La vecchia risposta non tiene più. E allora?

In questi giorni di riflessione mi è affiorata dalla coscienza una bozza di giustificazione che, ridotta all’osso, può essere condensata in queste due affermazioni.
1)Ritengo doveroso, almeno per quel che posso e mi riguarda, tentare di liberare il messaggio cristiano, diventato religione strutturata da tante incrostazioni della tradizione che l’hanno sclerotizzato e ridotto a rito, togliendogli gran parte di quella forza originale che illuminava e dava senso alla vita; privandolo, in una parola, di quella che era e dovrebbe essere la vera forza di rigenerare il vecchio uomo.
2)Non riesco più a sopportare una società individualista, egoista; mi pare che essa porti alla morte per suicidio e perciò credo di dover spendere tutte le mie forze residue per promuovere la solidarietà.

Sono conscio che queste sono utopie, però non si può vivere per niente, anche se fossi un illuso ed inadeguato a questo progetto.

Dialoghi

Recentemente, in una sola settimana, ho fatto tre incontri che mi hanno costretto a verificare le vecchie scelte che ho fatto nella mia vita e su comportamenti e problematiche di scottante attualità sul nostro mondo. Come sempre, un addetto alle pompe funebri mi chiese di fissare un funerale per un certo giorno e, come sempre, ho cercato un contatto con la famiglia del defunto. Anzi, il contatto lo abbiamo cercato sia l’uno che l’altra.

Mi s’era chiesta una semplice benedizione. Chiesi il perché. Il figlio, pur senza spavalderia e con grande rispetto, si dichiarò assolutamente ateo. La moglie del defunto era in una posizione meno definitiva e, soprattutto, era in una posizione di ribellione: «Se c’è un Dio, così non avrebbe dovuto fare!»

Parlammo pacatamente per alquanto tempo, arrivando alla conclusione concreta di fare “il funerale”. Io non sono mai per rompere, memore del monito di Gesù “Non spegnere il lucignolo fumigante e non rompere la canna già flessa!” Ho tentato di intervenire da uomo e da sacerdote dando voce alla sofferenza e all’amore dei famigliari e alla mia fede. Credo che sia loro che io non abbiamo barato e, pur rispettosi l’uno dell’altro, abbiamo trovato un punto di comunione che credo faccia bene ad una parte e all’altra.

Dopo pochi giorni una figlia mi si è presentata nelle stesse condizioni. Le era morto il padre, credente si e no, mentre lei si dichiarava apertamente e certamente non credente. Altro colloquio pacato, rispettoso, disponibile, aperto non solo al confronto, ma anche alla possibilità di rivedere le nostre posizioni e di farci disponibili alla scoperta di ulteriori e diverse risposte. Ho avuto una bella impressione di questa donna del popolo, che aveva fatto lucidamente una scelta così estrema, ma che manteneva apertura di cuore, riconosceva la fede-carità e che, tutto sommato, era disponibile a fare dei passi in avanti su questa strada.

In ambedue i casi ho avuto la sensazione di essermi incontrato in creature che, a dire di sant’Agostino “Dio possiede, ma la Chiesa non possiede!”.

Questi sono sintomi che con il rifiuto di una religiosità formale, fenomeno diffuso ed incombente, stia aprendosi una crepa sulla riva della fede, che possa creare rotture e devastazione nel popolo cristiano. Senza alcuna presunzione, sono stato contento che in ambedue i casi si siano rivolti ad un prete con tanti dubbi ed incertezze, ma soprattutto che sogna un cristianesimo dal volto umano.

E’ ora che decidiamo se per noi la vita è un dono di Dio o un castigo!

Qualche domenica fa il mio sermone s’è incentrato sulla pagina del Vangelo in cui Gesù fa il noto discorso usando le due immagini: “Quando tu sei invitato al banchetto di nozze non metterti al primo posto, perché ….” e “Quando tu offri un banchetto, non invitare i ricchi e i fortunati, ma ricordati anche di tutti quei poveri diavoli che vivono ai margini del benessere”.

Ambedue i temi, sui quali avevo riflettuto durante la settimana, mi affascinavano, pur ricordandomi del proposito, fatto parecchie volte, di non superare gli otto-dieci minuti. Preoccupato di questo fatto, quando mi parve di aver messo a fuoco la parte dell’invitato, mi venne da iniziare quella dell’invitante, ed allora, pur non avendo misurato il tempo, capii che la ricchezza e l’importanza del primo tema m’aveva così preso, che molto probabilmente arrischiavo di sforare il tempo prefissomi e comunque di mortificare il secondo argomento così urgente ed importante per la vita cristiana del nostro tempo.

Accennai solamente al fatto che tutti avevamo contratto un debito con questa immagine evangelica, ma che l’avremmo pagato molto volentieri alla prima occasione in cui ne avessimo avuto l’opportunità.

Mi ha affascinato e turbato come non mai il fatto che Gesù presenta la vita come un invito a nozze. Per Cristo la vita è una cosa bella, è un dono prezioso, è un tempo da vivere felicemente, comunque e per tutti, sia che abbiamo l’opportunità di sedere ai primi posti, sia che le circostanze ci collochino tra gli ultimi.

Mentre parlavo della vita che va vissuta come una bella avventura, come un gioco quanto mai interessante, mi pareva di camminare su una strada contrassegnata da un lato da una sferzata amara dell’ateo Andrée Gide: “Come pretendete d’essere testimoni del Risorto, voi che camminate sempre sul ciglio, immusoniti e malinconici!” e dall’altro lato dall’offerta del prete del romanzo di Bernanos – Il curato di campagna – che dice: “Cosa mi importa se vesto da beccamorto, io posseggo la gioia e ve la darei volentieri, se soltanto me la chiedeste!”

Conclusi: «E’ ora che decidiamo se la vita per noi è un dono di Dio o un castigo! Possiamo essere discepoli del Risorto solamente se, nonostante tutto, viviamo da creature felici della vita!»