E’ indispensabile dare agli anziani in perdita di autosufficienza una vita dignitosa!

Io non sono certamente un ammiratore delle case di riposo per mille motivi, primo fra tutti perché l’anziano viene privato di ogni seppur minima possibilità decisionale.

Qualche settimana fa sono stato a visitare un mio “confratello” ricoverato in una casa di riposo che, peraltro, gode di ottima fama a Mestre e che in realtà non è un’azienda in cui degli azionisti abbiano investito del denaro pensando che il rendimento sia maggiore e più sicuro! Ebbene l’ospite, pur se con una coscienza ormai limitata e fragile, mi raccontava, amareggiato e stupito: «Qui tutto è proibito “non deve far questo, non può andare là … ” ogni decisione è in mano dell’infermiera!»

Normalmente poi il bacino in cui si pesca il personale di servizio è certamente povero, spesso fatto prevalentemente da extracomunitari, che se non altro, hanno una cultura ed una sensibilità tanto lontane dalla nostra e sono sempre costretti ad accettare i lavori più ingrati che la nostra gente non vuole più fare. Comunque ci sono delle situazioni che, nel tipo di società in cui viviamo, dobbiamo accettare ricorrendo a questa soluzione, pur riveduta, corretta e umanizzata al massimo.

Io convengo con la dottoressa Corsi, alto funzionario del Comune di Venezia per quanto riguarda la terza età. Ella afferma: «L’anziano deve rimanere nella sua casa ed essere accudito come un tempo lo erano i nostri vecchi, accompagnati con amore al termine dei loro giorni». Io convengo totalmente su questo progetto e penso che la stragrande maggioranza dei nostri vecchi potrebbe vivere in questo contesto, ma a condizione che si possa ricreare la grande e numerosa famiglia patriarcale, con la coscienza di poter sorreggere con rispetto e amore l’anziano in perdita di autosufficienza.

So che questo obiettivo è difficile da perseguire, perché il contesto sociale è individualista o peggio ancora egoista, perché i famigliari spesso tentano di scaricare il “vecchio incomodo”; perché talora l’anziano rappresenta “un’entrata” da sfruttare col minimo sforzo e costo possibile; perché le norme burocratiche sono ben lontane dall’aver questa sensibilità e quindi l’importante per l’apparato è erogare comunque un servizio senza poi accertarsi se esso funziona e rispetta la dignità dell’anziano.

Noi al “don Vecchi” ci troviamo nella quasi tragica situazione che le case di riposo per non autosufficienti hanno sempre fuori il cartellino “completo”. Nel Centro non riusciamo ad avere quell’elementi giovani e disposti ad accettare la fragilità esistenziale del vecchio, qualora ce li cercassimo, e ciò sarebbe possibile, lieviterebbero i costi così che i “poveri” non potrebbero rimanere.

Spesso sarei tentato di “mollare”; per ora m’aiuta anche a non farlo una cara alunna di anni lontani, che pur dentro al groviglio burocratico del Comune, continua a credere ed operare come venti anni fa le ha insegnato questo “vecchio docente”.

Che delusione il dialogo col Comune per avere i viveri in scadenza degli ipermercati!

Credo che la mia guerra col Comune di Venezia, perché ci ottenga dagli ipermercati della città i viveri in scadenza, potrebbe diventare più lunga di quella “dei trent’anni”, senza però arrivare ad alcun risultato.

Finora non ho ottenuto che promesse e delusioni. Ora infine ho capito che non ho neppure davanti a me un “nemico” con cui poter incrociare le armi; esso s’è dileguato tra le nebbie dense e cupe della laguna ed è totalmente evanescente o, forse peggio, inconsistente, col quale è perfino impossibile scontrarmi.

Pensavo che il problema dei più poveri fosse di pertinenza dell’assessore alla sicurezza sociale, poi costui m’ha fatto intendere che toccava a quello del commercio. Intanto il tempo è passato tra una promesse ed una delusione.

In questi giorni finalmente ho incontrato il nuovo assessore al commercio, che pensavo si fosse fatto carico dei progetti e delle promesse del suo predecessore. Invece no! Così ho finalmente capito che la mia non era solamente una battaglia perduta, ma una disfatta a cui non può che seguire una resa senza condizione e senza neppure l’onore delle armi, perché non so neppure più con chi dialogare e combattere. Siamo a Caporetto!

Mi spiace di non poter recuperare tonnellate di generi alimentari che andranno a finire tra i rifiuti, creando ulteriori problemi per lo smaltimento. Ma mi spiace di più che la Serenissima stia in maniera vistosa ed inesorabile avviandosi al disfacimento, trascinando nell’abisso anche Mestre, la sua città satellite e sobborgo, che pur meriterebbe una sorte migliore. Quello che non è ancora riuscita a fare l’acqua alta, lo fa l’amministrazione comunale.

Anche una “cena di lavoro” per coltivare l’utopia della Cittadella della Solidarietà

Il Patriarca, tra i suoi mille impegni nazionali e internazionali, ha perfino trovato il tempo per accorgersi dell’utopia di un suo vecchio prete in congedo, che sta sognando una Chiesa che si prenda di petto, ma alla grande, il problema dei cittadini stranieri ed italiani più in difficoltà.

La “Cittadella della solidarietà” dovrebbe diventare, almeno per il piccolo drappello che sta seminando questa bella avventura evangelica, una risposta globale alle attese diversificate dei poveri della nostra città.

L’utopia, come tutti sanno, non è ancora un progetto definito con piani attuativi o finanziamento acquisito, non rappresenta quindi una realtà della quale si stanno gettando le fondamenta, ma non è neppure una chimera o tanto meno una fata morgana, che qualcuno pensa di intravedere, ma che in realtà è solo una illusione ottica.

Il Patriarca, successore di uno dei pescatori di Galilea, ha giustamente deciso di ordinare al suo più diretto collaboratore: «Getta la rete in mare!» Il vescovo ausiliare l’ha gettata nella forma più moderna, organizzando una “cena di lavoro” a Villa Visinoni di Zelarino, invitando i principali operatori della solidarietà. La cosa è stata per un certo verso interessante, perché nei miei 81 anni di vita, non sapevo che cosa fosse una cena di lavoro. Ora l’ho finalmente capito: uno parla e gli altri mangiano! A parlare è stato Andrea, il mio vecchio lupetto e il mio portavoce per quella occasione: l’ha fatto brillantemente, mentre tutti gli altri stavano a mangiare.

Ho capito però quello che già sapevo: al massimo – ma non è neanche questo del tutto scontato – ci permetteranno di realizzare noi la “Cittadella della solidarietà”. Ho compreso inoltre che ci vorrà forse un altro secolo perché la Chiesa veneziana realizzi una sinergia di impegno superando gli individualismi così fortemente radicati.

Spero che prima o poi si realizzi la “cittadella”. Però per me sarà come per Mosè: la potrò solo sognare perché il mio tempo è quasi scaduto e non potrò metter piede nella Terra promessa!

Per fortuna ci sono poveri che aiutano i poveri, perché chi potrebbe latita

Un mese fa ho spedito, molto speranzosamente, una serie di lettere raccomandate con risposta pagata, per essere certo che esse arrivassero a chi di dovere e che nel nostro mondo tiene le chiavi della cassaforte, per chiedere un contributo a favore dei nuovi 64 alloggi per gli anziani poveri della città.

Quasi due terzi del costo li ho raccolti, o li sto raccogliendo, goccia a goccia, tra la povera gente: le persone dallo stipendio di “mille euro al mese”, quelli che hanno la pensione minima di 516 euro, e chi perfino molto meno. Supponevo quindi che chi manovra le grosse cifre della finanza pubblica ci avrebbe aggiunto, senza grande fatica – constatando ogni giorno l’infinito, ripeto l’infinito, spreco di denaro pubblico – l’ultimo tassello.

“Illusione, dolce chimera sei tu!”.
La prima risposta è stata quella dello Stato, il quale, mentre dichiara mediante il Governo e perfino mediante i suoi uscieri, quanto abbia a cura i poveri, mi dice che non solamente non è disponibile a scucire un centesimo, ma anzi pretende il dieci per cento della spesa, chiamando IVA il furto!

Lo Stato di Napolitano, di Berlusconi, di Bersani, di Di Pietro e di Bossi pretende ben trecentocinquantatremila euro (settecento vecchi milioni), perché mi fa il benevolo piacere di permettermi di aiutare i vecchi più poveri della mia città!

La Chiesa mi invita spesso a pregare per “le autorità del nostro Paese”. D’ora in poi pregherò più insistentemente e più devotamente perché il buon Dio conceda loro quel che si meritano.

Allo Stato finora ho versato già 14.500 euro, pari a quasi trenta milioni, sempre di vecchie lire, per la prima trance.

Seconda risposta in ordine di tempo e di mia speranza: Fondazione Venezia. La vecchia Fondazione della Cassa di Risparmio che per il “don Vecchi 2” aveva contribuito con l’acquisto dei blocchi cucina (mi pare con trecento milioni di vecchie lire), m’ha risposto, medianta una lettera del suo presidente, prof. Segre, che per statuto e scelte della Fondazione stessa, non può assolutamente accogliere la mia richiesta. E due!

In attesa delle altre risposte alle mie richieste – ma se dal mattino si può arguire cosa ci riserverà il giorno – credo che ci sia poco di buono da sperare.

La prima e parziale mia conclusione è questa: per fortuna a Mestre ci sono ancora i poveri disposti ad aiutare i più poveri! La seconda: mi procurerò una bisaccia da frate da cerca ed andrò di casa in casa a domandare, per amor di Dio, qualche soldino per la casa dei nostri nonni!

Gli “amici” ossequiosi che rovinano la politica a tutti i livelli

Non ho mai stimato coloro che non hanno i coraggio di confrontarsi con chi non è della propria corrente e anche con chi gli è notoriamente contrario. Il dialogo, il confronto e perfino lo scontro onesto, sono convinto che siano sempre un fatto positivo che produce libertà, democrazia, giustizia e benessere. Purtroppo chi detiene il potere, forse per comodo, o per l’illusione di essere più libero di fare una politica efficace, si circonda di lacchè e di collaboratori sempre ossequiosi.

Monsignor Vecchi – e qui mi scuso con chi mi dirà che lo cito perfino troppo di frequente (d’altronde lui fu uno dei maestri più incidenti) – ogni tanto mi ripeteva: «Armando, circondati di persone libere ed intelligenti, perché se anche non sono del tuo stesso parere, ti criticano e si spingono fino a contrariarti ed opporsi dialetticamente ai tuoi giudizi o alle tue disposizioni, con essi potrai trovare sempre un punto di accordo, mentre tienti lontano dagli stupidi, perché questi facilmente ti pugnalano alle spalle o comunque non fan nulla perché tu non sbagli».

A tal proposito, non sono riuscito a capire i motivi veri, non quelli dichiarati per gli allocchi, del divorzio tra Berlusconi e Fini. A parte che hanno messo in un bel pasticcio il Paese, ma non so perché non hanno voluto trovare un punto d’incontro. Tra persone intelligenti, amanti del bene della collettività, c’è sempre un punto di intesa. Probabilmente, uno e l’altro, hanno ascoltato solamente “amici”.

Un giorno ho sentito uno che affermava che le liti ad oltranza, i ricorsi alla magistratura e in particolare le guerre, sono sempre assurdità, perché dopo una lite dannosa per tutti, in ogni caso salta fuori una soluzione, altrimenti saremmo ancora a proseguire le guerre puniche o quelle del Risorgimento! Tanto vale trovare l’intesa o il compromesso fin da subito!

Ma tornando a noi, ormai la civica amministrazione di Venezia ha celebrato i primi cento giorni di governo. Non so proprio dare un giudizio sul bilancio di questa nuova amministrazione, ma da quanto mi risulta e per quanto mi riguarda, non penso che l’assessore, che dovrebbe occuparsi dei poveri e dei vecchi, abbia mai convocato gli addetti ai lavori, chi si gioca su questi settori, per sentire una proposta o una critica. Forse ha parlato con i suoi burocrati, la carriera dei quali dipende da lui. Anche se questo assessore fosse intelligente, preparato, ed avesse accanto una buona squadra di tecnici, non solo non farebbe male, ma anzi avrebbe tutti i vantaggi, a concordare con chi ha lunga e diretta esperienza un progetto, da verificare con una certa frequenza.

Spesso l’amministrazione pubblica opera in solitudine e cala dall’alto norme inefficaci e perfino ingiuste. Giorgio Gaber affermava intelligentemente, che oggigiorno operare socialmente significa “partecipare”; le soluzioni migliori spesso sono quelle che emergono da un crogiolo di pareri diversi.

Dubbi e timori sull’Angelo

Più di un amico o di un lettore de “L’incontro” mi ha fatto osservare che non capiva o non condivideva la mia ammirazione, per nulla nascosta, per l’Ospedale all’Angelo di Mestre. E’ vero che da un lato ero e sono ancora orgoglioso che finalmente a Mestre, città condannata ad essere un sobborgo e dormitorio – ora del turismo lagunare e, prima, dell’attività industriale di Marghera – si fosse finalmente fatto qualcosa di bello e da un altro lato mi rasserenava che la mia gente ed io potessimo contare su un ospedale di eccellenza come gli “addetti al lavoro” non perdono occasione di farci sapere.

Io frequento spesso l’ospedale, sia per motivi di ordine pastorale, perché due volte la settimana porto “la buona stampa”, sia per motivi di salute perché più di una volta sono stato ricoverato in questo ospedale per i guai che da qualche anno mi affliggono.

Da un punto di vista estetico la mia ammirazione non ha subìto crepa alcuna. La “piramide maya” dell’Angelo, l’oasi verde, ora più che mai rigogliosa ed accogliente, gli spazi di ampio respiro, l’entrata larga e funzionale che ti offre l’alternativa, ai soliti gradini, della scala mobile o del comodo ascensore, la collinetta verde trapunta di cipressi, il laghetto artificiale e il prato verde sempre ben rasato che sembra un soffice tappeto su cui posa delicatamente la struttura, mi pare facciano concorrenza ad un quadro del Pinturicchio. Tutto ciò continua ad incantarmi.

Dall’altro lato la stampa cittadina, che ogni giorno ti mette sott’occhio le scoperte, i primati, i risultati scientifici dei primari che vi lavorano, le eccellenze che si manifestano nelle varie divisioni, mi hanno sempre tenuto lontano e in posizione di rifiuto di certe voci malevole per l’angustia degli ambulatori, per il costo del posteggio, per la poca praticità delle “finestre”, per le critiche dei sindacati o per l’affollamento esagerato del pronto soccorso.

Ora però cominciano a far breccia certi dubbi per voci che non ci possono non preoccupare, quali la fuga dei primari o dei dottori più promettenti, la carenza della strumentazione, il mancato aggiornamento delle macchine. Queste voci, che spero siano solo critiche malevole, non mi possono lasciar tranquillo e cominciano col preoccupare anche me. Sono critiche che io non posso però verificare, ma il fatto che l’ospedale mi appaia come “il deserto dei tartari”, che i negozi non abbiano mai dentro un’anima viva, quando a Padova o il Ca’ Foncello di Treviso sembrano dei mercati brulicanti di gente, che senta a destra e a sinistra concittadini che vanno a farsi curare altrove, mi danno pensiero; mi spiacerebbe proprio scoprire che l’Angelo è una patacca e non un gioiello.

Se solo l’amministrazione pubblica aiutasse chi offre una vita più dignitosa agli anziani…

In questi ultimi mesi il tormentone che agita i responsabili del “Don Vecchi” sono gli anziani in perdita di autosufficienza. Un tempo i residenti, felici per l’ambiente signorile e gradevole, per i conforts che scoprivano nel nostro Centro e soprattutto per la retta a portata perfino di chi fruisce soltanto della pensione sociale, dicevano: «Ci avete offerto il Paradiso in terra!» Ciò mi gratificava e mi faceva immensamente felice. Al “Don Vecchi” di Marghera, aperto solamente un paio di anni fa, l’atmosfera è ancora quella da Paradiso, ma in quello di Carpenedo siamo arrivati almeno al Purgatorio.

Qualche giorno fa, in una delle mie visite sempre più rare in quel di Marghera, ho trovato un ambiente veramente idilliaco: ambienti comuni climatizzati, poltroncine moderne ed accoglienti, prato verde e ben rasato, quadri, ordine, pulizia e l’efficiente e completa autogestione m’hanno dato un po’ l’impressione di quel mondo bello che ognuno sogna. A Carpenedo però, la sempre più alta marea degli anni sta provocando lo stesso disagio che l'”acqua alta” provoca a Venezia. Ormai ci avviciniamo all’età media degli 84-85 anni, con tutti gli inconvenienti che quest’età comporta.

Stiamo studiando come rallentare l’invecchiamento o, semmai, puntellare l’autosufficienza che viene meno. Noi qualche idea l’avremmo, anche il Comune è totalmente consenziente, però in pratica l’operazione vorrebbe fosse a costo zero, e qui i conti non tornano!

Mi hanno riferito di qualcuno dei nostri che ha dovuto trasmigrare in casa di riposo. I racconti di questi “esuli” sono stati veramente raccapriccianti: pochissimo personale, nessuna possibilità di decisioni autonome, seppur marginalissime, pannoloni con funzione di latrina da svuotarsi solamente quando possibile, automi in attesa della “morte”, anche se non fisica, ma dello spirito e della persona umana. Il tutto al costo di cento euro al giorno.

Purtroppo, a causa dei regolamenti dell’apparato sociale, in pratica l’amministrazione pubblica scuce la borsa per queste soluzioni infernali, piuttosdto che aumentare l’euro e venticinque centesimi che finora mette a disposizione per ogni residente del “Don Vecchi”.

Potremmo trovare anche soluzioni alternative, però dovrebbero lasciarci liberi dagli schematismi di una burocrazia costosa ed insufficiente. Ora siamo nel guado, chi vivrà vedrà!

“Signore, mandaci preti folli!”

Chi mi conosce un po’, sa che sono impegnato da un paio di anni in un’altra impresa editoriale, oltre la pubblicazione de “L’incontro” e del quindicinale per gli ammalati “Coraggio”, cioè quella del mensile “Sole sul nuovo giorno”.

A quest’ultimo periodico sono particolarmente affezionato, come un padre al più piccolo dei figli, all’ultimo nato. Il mensile è costituito da una raccolta che offre ogni giorno “un pezzo” di autore, più o meno noto, sugli argomenti più disparati, ma sempre dal contenuto molto sostanzioso e dall’involucro dai colori smaglianti. Immagino quasi che un raggio del sole nuovo del mattino illumini un aspetto vero, cruciale ed estremamente significativo della vita sempre diversa e poliedrica. Mi è sempre più impegnativo scoprire riflessioni nuove, soprattutto espresse in maniera intensa, coinvolgente, con termini ed immagini che ti prendano per il bavero e che ti mettano colle spalle al muro. Io amo tanto questo tipo di letteratura, tagliente, che ti toglie il respiro e la pace.

Qualche giorno fa mi sono messo a sfogliare un numero pubblicato mesi fa nel quale c’era questa preghiera: “Signore, mandaci preti folli!” Riecheggiava le parole di san Paolo: “Nos stulti proter Christum”, noi accettiamo di essere considerati della gente folle perché seguiamo “lo sconfitto” vincitore: Gesù.

Non so ripetervi le parole e le argomentazioni di questa singolare preghiera, perché la bellezza specifica sta proprio nella scelta dei termini e dei concetti.

Pensavo, durante la lettura, che la Chiesa veneziana ebbe, soprattutto nel passato, delle splendide figure di preti con questa “pazzia”, che in definitiva è la ricchezza spirituale ed umana espressa in modi diversi, ma sempre ricca, sebbene spesso fuori dalle righe di una ordinarietà stanca e monotona.

Mi vengono in mente figure sacerdotali come don Barecchia, il cappellano della ritirata del Don, don Dell’Andrea, che accompagna fascisti e partigiani all’esecuzione capitale, monsignor Scarpa, col suo sigaro in bocca, ma col pensiero lucido e tagliente, don Vecchi, capace di tirar giù dalle nuvole i sogni più impossibili, don Da Villa, il cappellano dei nostri soldati nella fallimentare vicenda bellica dell’Africa settentrionale, don Giuliano Bertoli, il rettore del seminario che rimane impavido sulla barricata di fronte alla contestazione e salva il seminario, don Giorgio Busso, il prete sorridente che, contro tutti, crede che il Signore chiami ancora i nostri ragazzi, don Mezzaroba, che spalanca il suo cuore e la sua casa ai parrocchiani, don Spanio, che crea “i ragazzi di don Bepi”, don Niero, che recupera in maniera arguta ed intelligente la pietà popolare della nostra gente ed altri ancora.

Pensando a queste figure sacerdotali così diverse, ma così originali ed intense, ho ripetuto, quasi sillabando, la preghiera “Signore, mandaci preti folli!”, perché ho un sacrosanto timore di incontrare preti come soldatini di piombo immobili ed insignificanti!

Il punto sui Centri don Vecchi

La soluzione di alloggi accessibili anche agli anziani più poveri, e con qualche lieve servizio di supporto, per almeno un decennio si è dimostrata una soluzione ottimale, non solo innovativa, ma pure pilota nei riguardi delle residenze per la terza età.

Mezzo mondo è venuto a vedere i “Don Vecchi”, ad informarsi su questo nuovo modello che egregiamente allontana il tempo della casa di riposo, offrendo una maggior qualità di vita e a costi infinitamente minori, tanto che in più luoghi si sono create strutture simili.

Ma il nostro mondo corre molto in fretta, sicché ogni giorno mi convinco sempre più che la soluzione ha bisogno di aggiornamenti abbastanza consistenti e per nulla marginali. I motivi sono questi:

1) I residenti si accorgono e approfittano di tutti i vantaggi come fossero non il frutto di sacrifici di qualcuno, ma loro diritti sacrosanti.
2) Con mille sotterfugi tentano di beneficiare dei costi bassissimi per metter via o, più ancora, per poter aiutare figli o nipoti.
3) Abbastanza presto si accorgono degli aspetti convenienti, se ne approfittano a piene mani, ma sono molto restii ad una collaborazione generosa.
4) I figli sono sacri, guai disturbarli perché lavorano, han diritto di riposarsi, andare in vacanza; mentre pretenderebbero che giorno e notte la direzione provvedesse ai loro bisogni. C’è stato perfino chi avrebbe preteso che vendessimo i quadri per pagare più personale a loro servizio.
5) Naturalmente per via degli acciacchi e l’età avanzata quasi tutti scoprono prestissimo la previdenza offerta da Comune e Regione, intascano silenziosamente e poi, altrettanto silenziosamente versano in banca o, più ancora, ai figli.
6) Il ricorso alle badanti, pagate in nero, è una tentazione; infatti le lingue prevalenti al don Vecchi sono il rumeno, il moldavo e l’ucraino.
7) Infine, il passare degli anni ha innalzato non solamente l’età media, ma soprattutto gli acciacchi ed ha diminuito l’autonomia.

Ormai venti-trenta dei nostri anziani avrebbero bisogno della casa di riposo, ma le esistenti non hanno posti disponibili. Il Comune insiste, per motivi sociali ed economici, per la domiciliarità al “Don Vecchi”, offrendo una qualche ancora incerta disponibilità a far gestire dal Centro il costo dei servizi che esso eroga agli anziani. Questa soluzione esige scelte notevoli, assunzioni di responsabilità maggiori, modifica dello statuto e soprattutto il consenso dei singoli residenti.

Speriamo che il tempo porti consiglio e che a settembre siamo in grado di fare le scelte più opportune.

La “ricetta” per una chiesa gremita!

Il mio coro domenica mattina ha ricevuto a fine messa un caldo e prolungato applauso dall’assemblea che gremiva la chiesa, occupando tutte le 220 sedie, stando in piedi lungo le pareti e gremendo pure il sagrato.

Sono troppo vecchio per chiedere alla Veritas e al Comune di ampliare la chiesa del cimitero, mi accontento anche così e spero che i fedeli della mia splendida comunità facciano lo stesso.

Essendo stonato, ma tanto stonato, ho chiesto alla “Corale Santa Cecilia” del “Don Vecchi” il dono di animare alla domenica l’Eucaristia che celebro in cimitero alle dieci. Ho avuto immediatamente la disponibilità della signora Giovanna che è il Toscanini del mio gruppo corale. Abbiamo superato qualche difficoltà per il trasporto – perché il cimitero, come tante altre parti della città, non è servito dagli autobus dell’ACTV – mediante la disponibilità di due miei coinquilini, Primo e Rino i quali, facendo la spola “Don Vecchi-cimitero” trasportano soprani, contralti, organista e maestro del coro, tutta gioventù che ruota attorno agli ottant’anni.

Fortuna mia e loro, essendo i canti facili e “cantabili”, tutta l’assemblea, se non altro per un motivo di tenerezza verso tanta veneranda età, si lascia coinvolgere e canta; qualche anziano si è unito da volontario e la signora Buggio fa da soprano solista, pur potendo essere considerata una nipotina con i suoi quarant’anni. Nino, il violinista novantenne, ogni domenica giunge in bicicletta col violino a tracolla, accompagna il coro, assieme all’armonium suonato dalla signora Dolens, e in altri momenti si esibisce con i virtuosismi che, in tempi andati, strappava gli applausi dei “foresti” e dei veneziani, quando suonava al “Lavena” o al “Quadri” in Piazza San Marco; adesso fa ancora venire i brividi e fa sognare la beatitudine del Paradiso.

Domenica scorsa la chiesa era gremita, com’era gremito il porticato antistante la porta principale. Dicono che le chiese sono deserte e che poca gente va a messa la domenica, ma se penso alla mia chiesa mi vien da concludere che bisognerebbe che le prediche fossero più corte e più sostanziose, la liturgia più curata e l’animazione più accattivante e più consona all’incontro col buon Dio che ci viene a visitare.

Mi son permesso di scrivere tutto questo perché non voglio essere il solo a beneficiare di questa “ricetta”, almeno “provare per credere!”

Un “fioretto” fortunato

Recentemente ho avuto, a Villa Querini, un colloquio quanto mai importante per la vita del “Don Vecchi”, con il dirigente che è il responsabile dell’amministrazione comunale per quanto concerne l’assistenza agli anziani.

Non eravamo soli, perché ognuna delle due parti era accompagnata da una piccola delegazione di tecnici: iI funzionario del comune dalla dottoressa Corsi, che credo sia il tecnico più preparato e soprattutto più appassionato di questo problema; da parte mia avevo il ragionier Candiani, che da una quindicina di anni vive le problematiche del Centro, e dalla signora Cervellin, che fino a poco tempo fa ha guidato tutto il personale infermieristico dell’Ospedale dell’Angelo, donna di una logica stringente, accompagnata da una calda familiarità.

Il motivo del contendere: il mantenimento, quanto più a lungo possibile nella residenza protetta, degli anziani in perdita di autonomia. Io a sostenere che senza personale adeguato la cosa era impossibile, il rappresentante del Comune preoccupato della situazione finanziaria del Comune, non certamente rosea, pur sapendo che per ogni anziano al “Don Vecchi”, il Comune eroga un euro e venticinque centesimi al giorno, mentre in casa di riposo la spesa è di 50 euro più 50 della Regione.

Io ho premesso che andavo all’appuntamento nel convincimento e con la volontà di cercare assieme una soluzione possibile. Il “duello” è avvenuto armati ambedue di “fioretto”, ma muniti di corpetto e di visiera, perché in ambedue c’era l’intenzione di non “ferire” l’altro.

Ci fu un “assalto”, però sempre corretto, ma deciso. Credo che se dovessi dare un punteggio, dovrei dire che l’incontro si è risolto alla pari; ognuno, credo che sia rimasto soddisfatto di come ha portato avanti le sue tesi e di certo nessuno ha arretrato di un millimetro. Ambedue abbiamo portato avanti le nostre tesi, convinti di dover raggiungere il meglio e il possibile. Alla fine entrambi abbiamo delegato i tecnici a tradurre in numeri e in cifre l’operazione comune.

Al momento in cui annoto nel diario quest’incontro, non sono in grado di misurare gli obiettivi raggiunti o meno; di certo il discorso sulle dimore protette per anziani ha fatto un passo avanti ed io e il dottor Gislon ci siamo conosciuti meglio come persone che non mollano facilmente, ma che dialogano, magari in maniera dura, ma onesta.

Proverò anch’io la “cerca” modernizzata!

Quando a maggio sono stato in pellegrinaggio, con i residenti del “Don Vecchi”, al santuario della Madonna dell’Olmo a Thiene, ho avuto il piacere di incontrare e dialogare un po’ con un ragazzo del nostro quartiere, che ha mollato tutto, s’è perfino “liberato” del gruzzolo che aveva messo da parte, per vedere se era adatto a seguire le orme del poverello d’Assisi, san Francesco.

Chiesi, com’è naturale, come si trovava e che cosa faceva. Tra l’altro mi disse che si occupava della mensa dei poveri, com’è tradizione in quasi tutti i conventi dei cappuccini. Il discorso si allargò perché ero, e rimango, interessato a scoprire come si possono trovare gli approvvigionamenti, essendo questo un grosso problema per il Banco alimentare del “Don Vecchi”. Lui mi disse che c’era un frate addetto alla “cerca”. La frase dapprima mi evocò il personaggio dei Promessi Sposi, fra Cristoforo, che s’era imposto questa penitenza per espiare i suoi trascorsi non tutti virtuosi, poi mi ricordai di un fraticello francescano che fino ad una trentina di anni fa passava per le calli di Venezia a raccogliere e mettere nella bisaccia che portava a tracolla le elemosine dalle donne dei vari quartieri.

Il nuovo giovane amico mi disse che nel suo convento la cerca s’era aggiornata, il fraticello addetto partiva col suo motocarro e andava presso i suoi “clienti”, un “portafoglio” che il frate precedente aveva acquisito e trasmesso a lui.

Questo episodio mi diede un’idea! Anch’io ho la necessità di raccogliere almeno due milioni di euro; finora ho fatto la cerca alla vecchia maniera, stendendo la mano mediante “L’incontro” e portando a casa “pan vecchio e alimenti di poco conto”. Penso che sia giunta l’ora di aggiornarmi, di fruire del portafoglio di clienti che ho acquisito in questi ultimi quarant’anni: Chisso per la Regione, il sindaco Orsoni per il Comune, Segré per la Fondazione Carive, l’Associazione Industriali di Venezia, il Banco San Marco, la Banca Antonveneta e qualche altro.

A quanto mi disse l’aspirante frate della Madonna dell’Orto, il suo confratello che modernamente va alla cerca col motocarro da clienti prestabiliti porta a casa una quantità di alimenti. Speriamo che la cosa funzioni anche nel mio caso!

Solidarietà: chi protesta e chi dialoga; io vado avanti!

In una notizia apparsa sul “Gazzettino” di alcune settimane fa, non so se giustamente o meno, m’è sembrato di leggere che il vicesindaco, nonché assessore, tra l’altro, alla sicurezza sociale, prof. Simionato, fosse intervenuto ad un’assemblea tenuta in ambienti della parrocchia di San Pietro Orseolo, assemblea in cui alcuni cittadini avevano protestato in maniera violenta contro l’andirivieni di poveri che nel pomeriggio dalle 15 alle 18 vengono al “Don Vecchi” per ritirare indumenti, generi alimentari e mobili.

Il giornalista, tra l’altro, pareva riferisse che il prosindaco aveva promesso di regolamentare tale afflusso al “Don Vecchi” non visto di buon occhio dai suddetti residenti. Molto probabilmente si trattava degli stessi residenti che un tempo s’erano opposti, riuscendoci, alla costruzione di case popolari, quindi s’erano opposti alla costruzione del “Don Vecchi due”; infine, quando al “Don Vecchi” si pensò di creare un Centro per anziani non autosufficienti nell’ex cascina Mistro, si opposero col pretesto di voler costruire un Centro giovanile. Quando poi il “Don Vecchi” rinunciò al progetto perché la struttura sembrò non idonea, e perciò avevano la possibilità di costruire quel Centro giovanile, non si sa perché, desistettero dall’impresa.

Ora, molto probabilmente, temendo che si attui il sogno della “Cittadella solidale” si sono rifatti vivi. Queste reazioni non mi interessano per nulla perché chi non accetta i più poveri e i più deboli, non solo non ha le mie simpatie ma, meno ancora, la mia stima, come uomo, come cattolico, come cittadino e come cristiano. Però che il vicesindaco avesse abbracciato questa causa non m’andava proprio giù.

Quando questo amministratore mi chiese un colloquio, ci andai con spirito quanto mai bellicoso. Incontrando però il dottor Simionato, l’indignazione sbollì come per incanto, in quanto egli mi disse che per coscienza, cultura e convinzioni personali, non aveva che stima per quanto andiamo facendo al “Don Vecchi” per i poveri.

L’incontro servì anche per fare un giro di orizzonte sui problemi sul tappeto – anziani in perdita di autonomia, “Don Vecchi” di Campalto, “Cittadella della solidarietà” e generi alimentari in scadenza – trovandoci d’accordo su tutto il fronte.

Sono grato all’assessore, nonché vicesindaco, per la ritrovata intesa con la civica amministrazione e per la volontà di lavorare in maniera sinergica a favore dei meno abbienti. Per quanto riguarda i concittadini, posso rassicurarli che tento di avere rispetto per tutti, ma grida, firme e quant’altro non mi scompongono affatto, quello che ritengo giusto e doveroso lo perseguo nonostante tutto e credo d’averla finora sempre spuntata.

La collaborazione fra Comune e privato sociale è un bene prezioso

Per molti anni, soprattutto quando la sinistra era “pura”, cioè non annoverava nelle sue fila solamente qualche “comunistello di sagrestia”, avevo la netta sensazione che i cattolici fossero considerati come cittadini di serie B, perché pareva che la sinistra pensasse di possedere il monopolio della democrazia, della resistenza della cultura, del progresso, della libertà, dell’economia e di tutti i valori importanti della vita. Allora amministrazioni del nostro comune evidentemente si adeguavano a questi orientamenti nazionali, motivo per cui sembrava che il Comune dovesse gestire direttamente tutto e perciò non ci fosse più alcuno spazio per le parrocchie, per il privato sociale, per le organizzazioni di base. Dottrina che in pochi decenni si dimostrò onerosa, farraginosa e fallimentare.

In quel tempo io, che ho sempre voluto essere partecipe alla vita sociale, elaborai nel mio piccolo una dottrina che permettesse il confronto, o perlomeno la sopravvivenza di tutto l’apparato solidale che si rifaceva alla Chiesa, e per quanto sono stato capace, mi sono impegnato fino allo spasimo per creare una organizzazione parallela che si rifacesse ai valori portati avanti dalla Chiesa.

Il crollo del muro di Berlino non fu rovinoso solamente per quelle maledette ed insanguinate pietre di confine, ma per tutta la dottrina, la prosopopea e l’apparato pigliatutto della sinistra. Quando fui ben certo di questo, sempre nel mio piccolo, cominciai una mia politica di collaborazione critica, ma fondamentalmente sinergica con l’amministrazione pubblica.

Per il settore che mi riguarda, la collaborazione con Bettin e Cacciari mi pare sia stato quanto mai proficua. Tuttora perseguo questo indirizzo, nonostante la burocrazia comunale, che è perfino più tarda della politica, presenti ancora qualche difficoltà per un impegno paritario.

Vi sono dei problemi che è opportuno risolvere assieme, o perlomeno tentare delle soluzioni innovative di comune accordo. Talvolta però ho ancora la sensazione che la burocrazia comunale tenti di porsi in posizione di privilegio e di padronanza, piuttosto che di servizio e di incoraggiamento al privato sociale che è più snello, ha certamente più inventiva, è più economico, ma che ha pur bisogno della “mano secolare” per realizzare più velocemente e meglio il servizio a favore degli ultimi. Voglio però giocarmi sulla speranza!

Il nostro Patriarca dice cose giuste, ma è ascoltato e seguito?

In questi giorni il nostro Patriarca ha rilasciato al direttore de “Il Gazzettino”, dottor Pappetti, una lunga intervista, il cui testo ha riempito una pagina intera del giornale e ha suscitato una notevole serie di commenti tra i politici e gli amministrativi della cosa pubblica.

Normalmente il nostro Patriarca due-tre volte l’anno interviene in maniera autorevole con proposte sociali che riguardano la vita pubblica della nostra città e, in questa occasione, della nostra Regione.

Ho l’impressione che certi interventi, quali quello sul meticciato, sulla tendenza all’autocommiserazione, all’autoflagellazione dei veneziani, e su temi del genere, abbiano smosso le acque; la politica pare non sia rimasta indifferente, segno che il Patriarca di Venezia e soprattutto il nostro Patriarca, che in queste cose è un esperto, ha ancora un ruolo accettato da tutti.

Spesso però ho il timore che il sasso lanciato in laguna abbia un certo impatto e formi i soliti centri concentrici più o meno rilevanti, ma che poi l’acqua della laguna ridiventi ben presto quieta e pigra come sempre. Gli interventi del Patriarca sono sempre autorevoli e pertinenti, ciò si deduce dall’eco della stampa; essi sempre colpiscono nel segno, e certamente hanno una funzione, però ho la sensazione che esprimano lo sprint di un campione, ma che dietro a lui non ci sia una squadra e che egli faccia solitario le sue fughe in avanti. In tutto questo non posso che ammirare lo sforzo del Pastore, ma contemporaneamente debbo anche dolermi che le parrocchie, le associazioni e “l’intelligentia” del popolo di Dio se ne rimanga sonnacchiosa e poco partecipe al destino della propria città e della propria gente.

Il discorso del nostro Maestro sulla missione che i singoli e le comunità cristiane diventino lievito, luce e sale mi pare che non sia troppo attuato e che il consumismo e il relativismo rendano ancora poco partecipe il gregge, che segue pigramente le indicazioni del Pastore, trascinando le ciabatte e lasciando che le tematiche più attuali, più urgenti e più importanti le gestiscano altri.

Pare che questa Chiesa stanca e rannicchiata in se stessa lasci ad altri portar avanti il discorso sulle sorti della Regione e del federalismo, che è lo strumento per evidenziare la nostra individualità e le nostre potenzialità, paga che il Patriarca intervenga, senza però lasciarsi coinvolgere più di tanto.

Non so proprio chi e come possa suonare la carica e spingere all’impegno, ma so che occorrerebbe far tutto questo.