“Allontanati da me, o Signore, perché sono un uomo di poca fede!”

San Pietro, in occasione della pesca miracolosa, dopo l’abbondante pescagione, si buttò ai piedi di Cristo e disse: «Allontanati da me perché sono un peccatore!»

Credo che tutti sappiano come sono andate le cose. Pietro e la sua cooperativa avevano pescato a lungo nel lago, ma senza alcun risultato, per cui lui e i suoi compagni erano stanchi e delusi. Sennonché Gesù disse a Pietro, capobarca: «Butta le reti in mare per la pesca». Pietro era pescatore di professione ed anche i suoi amici erano esperti in questo mestiere, mentre era certamente loro noto che Gesù per trent’anni aveva fatto il falegname, motivo per cui non poteva intendersi di pesca.

Pietro allora fece osservare: «Abbiamo tentato tutta la notte di buttare le reti, ma inutilmente». Poi, forse per soggezione o per affetto e per dimostrare al Maestro l’inutilità di quella ulteriore fatica, controvoglia e di malumore, aggiunse: «Ma sì, sulla tua parola, per accontentarti, butterò la rete». Non è però improbabile che in cuor suo abbia anche mandato Cristo a quel paese! Di certo non fu entusiasta e poco rassegnato ad una ulteriore delusione. Ma quando tirarono su le reti, Pietro fu sorpreso e provò un senso di colpa per aver dubitato; da questo, di certo, è nata la sua confessione.

A me sta capitando la stessa cosa. Ho chiesto accoratamente aiuto per il “don Vecchi” di Campalto al Comune, alla Regione, alla Provincia, alla Fondazione Carive, alle banche Antonveneta, Cassa di Risparmio, Banco di San Marco, Banca popolare, alla Associazione Industriali. Risposta: niente!

Allora ho tentato con la sottoscrizione dei “Bond del Paradiso”, come un giovane amico giornalista ha definito la sottoscrizione di azioni della Fondazione di cinquanta euro l’una. Infine mi sono “messo sulle spalle la bisaccia da frate da cerca” e ho suonato a 400 campanelli della città. La risposta a questa iniziativa è stata tra il modesto e il discreto, però non ha mai raggiunto l’adeguatezza ai bisogni.

Stavo per sconfortarmi, sentendomi abbandonato dagli uomini e da Dio, quando improvvisamente ed inaspettatamente s’è fatto vivo il buon Dio, battendomi una mano sulla spalla e dicendomi: «Prete di poca fede!», facendomi balenare una prospettiva, di cui non oso ancora parlare, ma che potrebbe tirarmi fuori dalle angustie. Sulla proposta del Signore, anche se stanco e deluso, ho ributtato le reti in mare, confessando in anticipo: «Allontanati da me, o Signore, perché sono un uomo di poca fede!»

Ostacolare in qualche modo un’opera di carità è sacrilegio!

Per temperamento sono poco o nulla indulgente verso chi non è di parola, rimanda o tira le cose per le lunghe. Non credo di sbagliarmi, ma pur essendo cosciente che aver a che fare (come è costretto l’architetto che ha progettato e cura la costruzione di Campalto) con la burocrazia comunale, non sia proprio una cosa facile e sbrigativa.

Un giorno questo architetto, che io incalzavo più di sempre, avvertendo la mia impazienza per nulla disposta a subire lungaggini e ritardi, a sua discolpa e per giustificare la sua mancanza del rispetto dei tempi stabiliti, mi disse: «Sa, don Armando, lei ha tanta gente che le vuole bene, ma anche della gente che non è troppo propensa ad assecondare i suoi progetti!»

Sono ben convinto che le cose stiano così, non per questo cesserò di pretendere che ognuno faccia il suo mestiere e lo faccia bene, anche se ha la possibilità di insabbiare l’iter burocratico di certi percorsi ad ostacoli ai quali i poveri cittadini sono costretti dalla burocrazia comunale.

Io non ho mai preteso o ambìto di avere il consenso di tutti, perché questo esigerebbe compromessi con la mia coscienza, avallerebbe la pigrizia di certuni, ma soprattutto perché sono convinto che i poveri debbano avere percorsi agevolati e privilegiati.

Io, alla mia età, non domando più nulla per me, ma credo di dovermi fare portavoce dei più indifesi.

Da qualche anno, vedendo la condizione miserrima in cui vivono gli extracomunitari a Mestre, avevo sognato un ostello ove fossero ospitati civilmente. Non appena la stampa diede notizia del progetto, c’è stato qualcuno che abita vicino al luogo ove doveva nascere la struttura, che s’è opposto con decisione e caparbietà. Inizialmente tentai di rassicurare che avrei vigilato perché non avesse fastidi di sorta, ma più tentavo di far presente che anche questa povera gente che viene dalla miseria ha diritto a ricevere una mano da gente civile e cristiana, più costui dimostrava rifiuto ed opposizione, tanto che ad un certo momento la diga della mia pazienza non resse più e sbottai: «A casa mia e con i soldi miei faccio quello che ritengo giusto!»

Poi, per una serie di considerazioni, ripiegai sulla scelta di una struttura per anziani poveri, ritenendomi non preparato per l’altro progetto. Però il mio contestatore se la legò ad un dito e ha tentato con ogni mezzo di ostacolare il progetto del “don Vecchi 4”.

Scrivo questo senza malanimo o rancore di sorta, ma ripeto ai miei concittadini e soprattutto ai fratelli di fede: «La carità ha sempre un prezzo, ed è un prezzo che è doveroso paghino anche i preti, ma non è giusto pretendere che lo paghino solamente loro, e che la loro carità non scalfisca neppure le fisime di chi è solamente preoccupato del proprio tornaconto. E perché tutti sappiano come la penso, mi sento di dover affermare pubblicamente che ostacolare in qualche modo un’opera di carità è sacrilegio!

Villa Salus, un ospedale che trasmette serenità

Mi sento ormai “tutto rappezzato”; sto con fatica in piedi soltanto in forza di molti sostegni farmaceutici che riescono a stento a mantenere certi equilibri che mi permettono di vivere.

L’aspetto è ancora rassicurante, tanto che qualcuno, forse credendo di farmi un complimento, mi dice che sono una “roccia”, mentre in realtà solo io e pochi altri sanno su quali equilibri instabili mi reggo ancora.

Abbastanza di frequente devo ricorrere all'”officina” o per una visita o per tamponare una falla. Mi capita sempre più spesso di andare a Villa Salus, perché la struttura mi pare più snella ed efficiente della nostra “torre”, bella fin che si vuole all’esterno, però legnosa e problematica nella sostanza.

A Villa Salus c’è profumo di efficienza e di cordialità, per cui mi pare di sentirmi di casa. C’è poi in questo ospedale della nostra città “L’angelo della casa” che dà un senso di famiglia e di sicurezza che aggiunge una qualifica in più a questa struttura ospedaliera.

Mi riferisco alla superiora: un esserino minuto, sempre sorridente ed imperturbabile che, come una vecchia nonna, accomoda, ricuce, rasserena e profuma di casa questa struttura in cui sono impegnati ben quattrocento operatori sanitari. Di fronte alla “superiora” sia gli infermieri che i primari sembrano come degli scolaretti rispettosi, felici di assecondarla nel suo sogno di creare non solo un ospedale a misura d’uomo, ma una comunità di fratelli che si aiutano reciprocamente per affrontare con serenità e coraggio l’avventura e le sventure del vivere.

A Villa Salus pazienti ed infermieri al mattino chiedono assieme, senza complessi, a Dio, Padre di tutti, conforto e speranza, con la preghiera comune. Forse per questo in questa struttura ospedaliera si avverte una serenità che invece è ben difficile trovare altrove.

Una rassicurazione per gli amici!

Avverto gli amici e i lettori, che mi stanno passando i momenti della “grande paura” di non farcela!
Sento che la Città è con me; non passa infatti giorno ed occasione che chi incontro non mi porga il suo aiuto!
Ormai sono convinto, che assieme alla povera gente, per il prossimo anno 1° settembre inaugureremo il don Vecchi 4° di Campalto.
A tutti grazie di cuore!

Silenzi, ritardi e rifiuti!

Purtroppo sono ben cosciente di non tener conto di un saggio consiglio che Papa Roncalli ha ripetuto più volte quando era Patriarca a Venezia: «Quando sei turbato da una notizia, dormici sopra almeno una notte prima di reagire». Non ci riesco proprio. Sarà per un’altra volta che metterò in pratica il consiglio del Papa buono!

Ho appena aperto la lettera della Regione nella quale, dopo tre mesi dalla mia richiesta di un contributo economico per finanziare il “don Vecchi” di Campalto, mi si risponde che “La Regione finanzia le strutture per anziani non autosufficienti, mentre gli alloggi protetti, quali sono quelli del “don Vecchi” – in quanto del settore sociale – sono a carico del Comune. Distinti saluti”.

Nella stessa data, cioè in agosto, avevo inviato una richiesta simile al Comune, ma a tutt’oggi non mi è arrivata alcuna risposta.

Questo ritardo, da parte del Comune, lo posso anche ben comprendere, perché avendo esso solamente quattromilaseicento dipendenti, fa fatica ad essere tempestivo nelle risposte. Probabilmente la Regione ha qualche migliaio di dipendenti in più e perciò riesce in soli tre mesi a dare una risposta!

Alla Regione voglio dire: «Perché allora non accogliete gli anziani non autosufficienti attualmente residenti al “don Vecchi” che da anni vi supplico di accogliere e che sono a posto con tutte le schede SWAM che voi richiedete? D’altronde penso che voi vi sentiate con la coscienza tranquilla sapendo che il Comune ci passa euro 1,25 per anziano. Voi pensate di fare un affare risparmiando, mentre voi e il Comune dovreste spendere cento euro per ogni anziano che dovesse venire nelle strutture per non autosufficienti che voi finanziate!»

Il Comune poi, penso che non abbia scrupoli del genere, perché per averli bisogna avere una coscienza, ma temo proprio che esso non l’abbia affatto, vedendo come si comporta!

Il nono anniversario deila fondazione dei Magazzini San Martino, momento speciale

Quest’anno abbiamo celebrato con particolare solennità il nono anniversario della “fondazione dei magazzini” San Martino.

I magazzini del “don Vecchi”, gestiti dall’associazione di volontariato “Vestire gli ignudi”, sono una realtà che ormai si impone all’attenzione, non solamente del nostro efficiente e ricco Nordest ma, senza presunzione, a livello nazionale per la quantità di merce “lavorata”, per numero di “addetti ai lavori”, per la “filosofia” su cui si reggono e per la loro efficienza.

L’idea di un emporio di vestiti per i poveri è certamente vecchia di quarant’anni, quando con la San Vincenzo abbiamo aperto “l’armadio del povero” nella baracchetta che si affacciava alla corte della canonica di San Lorenzo. Venne poi sviluppata a Ca’ Letizia con un magazzinetto di una ottantina di metri quadrati, ma si sviluppò infine, in maniera sorprendente, nell’interrato del “don Vecchi”.

L’incontro tra questa intuizione e la professionalità di un funzionario in pensione dell’Oviesse di Coin, il signor Danilo Bagaggia, ha determinato la scintilla e ha fatto sbocciare “il miracolo”.

Quasi 600 metri di esposizione, un magazzino di stoccaggio di 500 metri a Mogliano, 110 operatori volontari, trentamila “clienti” all’anno, cassonetti di raccolta in città, ma soprattutto la dottrina “Anche i poveri debbono essere solidali con i più poveri”, motivo per cui niente viene regalato in beneficenza, ma ognuno dà un contributo, seppur minimo, per realizzare strutture di carattere sociale.

Venerdì 12 novembre, su desiderio del direttore generale, signor Bagaggia, abbiamo invitato a visitare i magazzini e poi, a cena, il dottor Vittorio Coin e due suoi collaboratori, perché il gruppo Coin è il maggiore fornitore, a titolo gratuito, della “merce nuova”. Alla cena c’era tutto il Consiglio di Amministrazione al completo, dalla presidente suor Teresa Del Buffa, ai consiglieri Bragaggia, don Trevisiol, la signora Navarra e il signor Bembo.

Al dottor Coin è stato donato, in segno di riconoscenza, un’antica icona e gli è stato richiesto di accettare di essere il testimonial di questa grande impresa umanitaria. Ai volontari poi, una crocetta d’argento.

Debbo annotare che l’incontro è stato il segno di un autentico “miracolo sociale”.

Qesta nostra società semina e abbandona sempre piò “rifiuti d’uomo”!

In due giorni ho celebrato tre funerali di concittadini senza fissa dimora. Devo ammettere che nella mia chiesa fra i cipressi giungono, più frequentemente che nelle altre parrocchie, le richieste di commiato per anziani quasi dimenticati nelle case di riposo, barboni, cittadini assolutamente non praticanti che i congiunti non si sentono di portare nella parrocchia ove sono conosciuti, persone sole, poco conosciute o da poco residenti a Mestre.

Può darsi che questa minoranza di commiati di persone che sono vissute ai margini della società sia assolutamente casuale, comunque ho la netta impressione che il numero di concittadini non inserito nella normalità del tessuto urbano sia decisamente numeroso e, peggio ancora, sia in crescita.

Come la città produce sempre più rifiuti urbani, tanto da diventare questo un grave problema, così ho l’impressione che siano in crescita anche i “rifiuti d’uomo”.

Ricordo una scena di un vecchio film, che tanti anni fa fece scalpore per il tema trattato, “Lo spretato”. Il prete, che aveva appeso la tonaca al chiodo, dopo aver passato una notte squallida in un locale notturno, esce all’alba e incontra un netturbino al lavoro: «Cosa fai?», gli chiede melanconicamente. «Raccolgo i rifiuti!» risponde quello. Ed egli, alludendo alla sua condizione disperata, aggiunge: «Non raccogli rifiuti di uomo?»

La nostra società, che presume d’esser civile, sta producendo, in maniera sempre più scellerata, “rifiuti d’uomo”. Io sto raccogliendo, spero con rispetto e amore, questi rifiuti che il mare anonimo, abbastanza disordinatamente, lascia sulla battigia, per consegnarli al cuore di Dio, essendo cosciente che il Padre del prodigo accetta a braccia aperte “il figlio” disperato e misero che ritorna. Spesso mi sento felice e fortunato di fare questo “mestiere”!

Gli sconosciuti “Francesco d’Assisi” del terzo millennio

Qualche giorno fa un’assistente sociale del Comune mi ha telefonato chiedendomi se ero disposto a celebrare un “funerale di povertà”. Acconsentii immediatamente, essendo “il titolare” incontrastato di questo tipo di commiati religiosi.

Il “funerale di povertà”, come tutte le cose di questo mondo, ha due facciate. Una civile, che si caratterizza dal fatto che, dopo una procedura un po’ laboriosa e a certe condizioni ben precise, l’amministrazione comunale si assume l’onere di fornire gratuitamente la “cassa da morto” che attualmente, pur nella sua estrema sobrietà, è decorosa, a differenza di quella di un passato non molto lontano, e le altre spese connesse alla sepoltura. A livello religioso, si tratti di ricchi o di poveri, il funerale è identico per tutti e, almeno nella chiesa del cimitero, né per questo né per nessun altro funerale, si richiede tariffa di sorta.

Normalmente, in chiesa, il “funerale di povertà” si distingue invece dagli altri perché ci sono pochi partecipanti e talvolta tra i pochi c’è qualcuno con i segni ben marcati della devianza o dell’emarginazione.

In questo caso non è stato così. Una sorella ha aggiunto qualche spicciolo, l’impresa funebre un po’ di benevolenza, motivo per cui l’esteriore non manifestava alcuna differenza. Erano presenti alcuni famigliari, anche se chi “partiva” se n’era allontanato da decenni, un sacerdote della Caritas, un amico “barbone” – che s’era collocato all’ultimo posto come il pubblicano – un rappresentante della mensa di Betania ed uno del dormitorio di Betlemme.

Quello che mi colpì di più fu un giovanottone, alto e prestante, che mi disse che da cinque anni seguiva questo infelice. Ebbi modo di conoscere questo giovanotto, prossimo alla laurea in architettura, il quale mi confidò di vivere assieme ad altri quattro giovani che avevano fatto la scelta di vivere in comunità e di dedicare il tempo libero ai “barboni” che passano la notte alla stazione di Mestre o che vivacchiano in qualche modo ai margini della vita cittadina.

Da quello che ho capito tra le righe del discorso, la loro scelta s’appoggia su motivazioni d’ordine spirituale. Nel mio animo, d’istinto, associai questa esperienza a quella di Francesco d’Assisi, in versione terzo millennio.

La tenerezza, la comprensione, il rispetto con cui mi parlava dei poveri ai quali dedicava tutto il suo tempo libero, mi avvolse come una dolce folata di profumo di primavera.

Da giorni questa immagine bella ed umile di umanesimo cristiano mi accompagna e mi aiuta a sperare nella redenzione di questo nostro mondo che, ogni giorno di più, sembra perdere pace e dignità.

Sto pensando che questa piccola comunità giovanile, silenziosa e sconosciuta, pur nella sua esiguità, può controbilanciare l’enorme desolazione della società di oggi.

I giorni della cerca

Non so proprio come i frati di una volta si comportassero quando ritornavano dalla cerca; suppongo che si presentassero dal padre abate deponendo, talvolta con gioia, il frutto del loro mendicare, quando esso era stato abbondante e con un po’ di delusione e tristezza, quando invece il loro bussare alla porte dei loro concittadini fosse stato con risultati deludenti.

Io sono in grado solamente di riferire al mio “Padre Celeste” che sta in alto, le mie prime esperienze. Dopo pochissimi giorni, dall’inizio del mio “questuare” per raccogliere il denaro per pagare il “don Vecchi” di Campalto, mi è venuta a trovare, nella mia “chiesa – baita tra i cipressi”, una vecchierella un po’ in malarnese con le lacrime agli occhi: «Don Armando, mi spiace tanto, ma non posso darle niente, non ce la faccio veramente con la mia pensione».

La sua era certamente una campanella da non suonare, comunque, avendo bussato alla sua porta per stendere la mano per i vecchi della città, la rassicurai: «Sono invece io in grado di aiutarla, fornendo viveri, vestiti o qualcos’altro se le serve per la sua casa!» E lei prontamente: «Ma, don Armando, mi dà già da mangiare; vengo infatti al banco degli alimentari del “don Vecchi”!» «Bene, continui, vedrà che non verrà mai meno la Provvidenza, né per lei, né per me!»
Se ne andò rasserenata.

Spero che il “Padre abate” sia rimasto comunque contento del mio primo giorno di cerca! Ma spero pure che dietro i campanelli delle venti famiglie che ho “visitato” ogni giorno, ci sia anche chi non ha bisogno, ma che invece possa dare “un pane per amor di Dio”.

La fine de “Il Coraggio”

Immagino che quando i famigliari vanno all’Agenzia delle pompe funebri per organizzare il funerale di un loro caro che viveva in casa di riposo da tempo, abbiano esattamente il volto e il fare del presidente della San Vincenzo di Mestre e della sua vicepresidente quando sono venuti al “don Vecchi” a dirmi che non erano più nelle condizioni di continuare a pubblicare “Coraggio” per la grave crisi finanziaria in cui versa la loro associazione benefica.

La storia di “Coraggio”, il periodico nato per dialogare con le strutture sanitarie, ospedali e case di riposo della città, e per portare conforto ai quasi tremila ricoverati in suddette strutture, è abbastanza tortuosa e tormentata.

Non ricordo quando ho dato il via a questa mia “impresa editoriale”, forse una ventina di anni fa, forse più. Era il tempo in cui facevo l’assistente della San Vincenzo di Mestre e l’associazione, ad imitazione di gruppi vicenziani di altre città del Veneto che avevano, presso i relativi ospedali e case di riposo, centinaia di volontari vicenziani, si ripropose d’aprire una nuova testata di ponte su questa realtà così affine ai “poveri” che la San Vincenzo ha sempre assistito.

L’inizio fu assai faticoso, sennonché, dopo un paio d’anni, ci fu una vera esplosione arrivando a contare più di 120 volontari. Il periodico “Coraggio” è nato come strumento operativo e di supporto all’attività esistenziale di questi volontari. Anche dopo la mia uscita dall’associazione, la stampa del periodico continuò, vivacchiando alla meglio, poi, per difficoltà redazionali, fu sospesa la pubblicazione.

Sembrandomi che la pastorale ospedaliera, per i motivi più diversi, fosse carente, mi offrii di far uscire il periodico, qualora la San Vincenzo avesse rimborsato, almeno in parte, le spese vive. Così siamo andati avanti per due anni, pubblicando 25 numeri con 1700 copie, con scadenza quindicinale.

In verità è stata un’avventura pressoché solitaria, che s’appoggiò solamente sulla mia profonda convinzione dell’opportunità di questo strumento di apostolato. Ho sempre avvertito l’indifferenza dell’équipe pastorale dell'”Angelo” e il quasi inesistente contributo di apporti da parte della San Vincenzo; essendo caduta nel vuoto pure l’offerta di collaborazione col nuovo cappellano dell’ospedale, ho avvertito che si era alla fine. Infatti i dirigenti della San Vincenzo sono venuti a denunciarmi il decesso.

Ho celebrato il funerale di “Coraggio” con mestizia e in solitudine, come per i molti funerali che celebro in cimitero di persone che son vissute ai margini della società, piuttosto sopportati che amati.

Credo che a rimpiangere il “caro estinto” non ci sia se non questo povero illuso che vive ormai in un tempo non più suo.

Mendicante a ottant’anni

La mia è stata una decisione sofferta ma necessaria. Dopo essermi lambiccato il cervello, vedendo che le istituzioni pubbliche e le banche, quasi tutte, non si sono neppure degnate di rispondere alla mia richiesta di contributi per il “don Vecchi” di Campalto e vedendo che le sottoscrizioni delle azioni della Fondazione Carpinetum andavano a rilento e risultavano insufficienti a completare ciò che mi mancava per coprire le spese per la costruzione del “don Vecchi” di Campalto, come Cesare ho “gettato il dado” e mi sono deciso per la soluzione estrema: mendicare!

L’idea mia è venuta qualche mese fa quando, essendo andato con i miei anziani in pellegrinaggio al Santuario della Madonna dell’Olmo, ho appreso da un confratello laico che i Cappuccini mantenevano la mensa dei poveri andando alla cerca, come i vecchi frati di un tempo. In verità avevano adottato qualche aggiornamento, sostituendo la vecchia e tradizionale bisaccia con l'”Ape”, il motocarro leggero della Fiat a suonare la campanella delle case, con l’uso di un “portafoglio clienti” costruito pian piano nel tempo. Per queste varianti operate dal convento dei “frati mendicanti” mi sono sentito autorizzato anch’io ad apportare qualche variazione alla cerca tradizionale.

Ho scritto una lettera, scegliendo di giocarmi in prima persona, mettendo nel foglio una mia foto, chiedendo l’elemosina mediante il conto corrente accluso alla lettera e prendendo gli indirizzi dei mestrini dall’elenco telefonico.

Ho cominciato il primo giorno con i primi 20 nomi della lettera A, il secondo della B e così via. Perché fosse un vero sacrificio anche per me, ho scelto di fare questa operazione dopo cena, nel tempo che di solito dedicavo alla televisione.

Questa cerca mi ha riportato al tempo in cui, da parroco, ho suonato alla porta per 35 anni ad ognuna delle duemila quattrocento famiglie della parrocchia. Là era più difficile ancora perché, non solo non sapevo chi trovavo, ma vedevo dall’accoglienza anche i sentimenti di chi mi accoglieva: talora cortesia fredda, talora atteggiamento di sopportazione, talvolta perfino la sensazione che mi considerassero lo stregone del villaggio!

Scrivendo ogni sera i 20 indirizzi, spesso il rossore mi sale dal cuore al volto, preoccupato della reazione di chi aprirà la mia lettera.

Spero solo che il Signore mi addebiti a credito anche questo mio sacrificio fatto per chi ha bisogno. Altro che “mania della pietra” o vanagloria!

Maria e Giuseppe quest’anno bussano alle case di Mestre

Quest’anno ho vissuto la letizia e il dramma del Natale di Cristo con un paio di mesi di anticipo sulla data del 25 dicembre, fissata dalla tradizione. Un comune amico mi chiese di ascoltare un cristiano del Congo che da dieci anni vive a Mestre e lavora a Padova.

L’ho incontrato al “don Vecchi” nel tardo pomeriggio quando la vita sociale, nella grande hall del Centro, si spegne perché i residenti si ritirano nei loro appartamenti per la cena che gli anziani consumano assai di buonora.

Il giovane congolese portò con sé la sua bimba di tre anni, una bimba bellissima, due occhi luminosi, un volto armonioso color ebano, capelli crespi e più neri ancora, un fare da donnina, pudica, riservata, innocente.

Questo signore mi parlò della sua condizione angosciosa, per non dire tragica, perché la moglie aspetta a giorni un secondo figlio; aveva ottenuto una stanza dalla parrocchia per un mese finché non avesse trovato un alloggio. Aveva bussato a tantissime porte ottenendo un diniego dopo l’altro, mentre il mese stava per scadere e il nuovo bimbo per arrivare. Mentre mi parlava alle sue parole si sovrapponevano nel mio animo le rime della nota filastrocca del brano che noi vecchi abbiamo imparato a scuola e, il bussare inutile a tutte le porte di Maria e Giuseppe mentre il campanile suonava inesorabile il susseguirsi delle ore.

Non ricordo il nome delle locande alle quali il povero Giuseppe, sempre più angosciato, chiese alloggio, mentre s’avvicinava quello che doveva essere il lieto evento.

Quello poi che mi colpì di più fu la fede linda ed assoluta di quel cristiano in nero: «So di certo che il Padre ci vuol bene e mi aiuterà!»

Per tutta la notte m’è parso di sentire i lugubri rintocchi che si sperdevano inutilmente per l’aria, sopra una città diffidente e preconcetta. Quanto avrei desiderato che il bimbo nero nascesse in uno dei 250 alloggi del “don Vecchi”, però i regolamenti, le convenienze si opponevano. Quanto non ho desiderato avere il cuore grande di don Benzi, di don Gelmini o di don Mazzi che credo abbiano il coraggio di non subire regole o Consigli di Amministrazione quando si tratta dell’uomo povero e derelitto che soffre ed attende!

All’alba di una notte insonne mi sono attaccato al telefono, avendo intravisto di lontano una pallida speranza. Poggiandomi su questa speranza sogno che quest’anno il Gesù nero, di questi fratelli che vengono da lontano, possa nascere in una casa ospitale.

Un dialogo difficile

Una concittadina del rione don Sturzo ha telefonato al “don Vecchi” per denunciare che un extracomunitario aveva buttato via i tortellini che gli erano stati appena donati e poi aveva finito per rompere un vetro della pensilina dell’autobus che era già stato sfondato da chissà chi!

Non avendomi trovato, mi ha ritelefonato il giorno dopo per ripetermi, con dovizie di particolari, il misfatto a cui aveva assistito. La voce era abbastanza calma e gentile, ma il rifiuto verso questa gente irriconoscente, incivile e maleducata era quanto mai fermo e deciso.

Io ebbi un bel dirle che fra centinaia di persone che vengono ogni giorno al “don Vecchi” si trova certamente anche la persona poco corretta, che la povertà non è sinonimo di “santità”, che i paesi di provenienza, le consuetudini, la vita emarginata a cui sono costretti a vivere non li aiutano ad assumere i migliori comportamenti del paese che li ospita, ammesso e non concesso che da noi non ci siano mascalzoni di ogni specie: drogati, bulli, sfaticati ed imbroglioni.

Non riuscii però a far minimamente breccia nella sua esecrazione, cortese a parole, ma tagliente nella sostanza. Ingranai quindi la seconda marcia, dicendole che l’integrazione è un problema che riguarda tutti, che i poveri nel mondo sono prodotti soprattutto da noi occidentali, che noi cristiani abbiamo un dovere particolare nel comprendere, aiutare e perdonare.

M’accorsi però che non incidevo niente di niente, perché probabilmente in una certa fascia del nostro quartiere s’è formata la mentalità che non siamo la periferia ma “i Parioli” della città, per cui i poveri, i diseredati, gli stranieri, sono come la spazzatura del meridione, che non deve notarsi per le nostre strade.

Ci siamo lasciati civilmente, lei però è rimasta nelle sue posizioni ed io pure!

Don Gianni Fazzini, simbolo di un’utopia irrinunciabile

La nostra diocesi ha incaricato don Gianni Fazzini a promuovere la cultura della sobrietà, del risparmio, ma soprattutto del rifiuto dello sperpero, del consumismo esasperato e del recupero della sovrapproduzione. Il prete scelto per questo compito penso, per quanto mi è dato di conoscere, che sia la persona più adatta a promuovere questa autentica ed “impossibile” rivoluzione comportamentale.

Don Gianni, che non è più un adolescente, ho la sensazione che abbia raggiunto la pensione come prete operaio lavavetri, mi è parso che in tutte le sue imprese pastorali sia stato e sia ancora un gran sognatore, impegnato in missioni quanto mai difficili, anzi umanamente impossibili.

Guai a noi però se non ci fossero questi sognatori che perseguono con entusiasmo e generosità queste utopie! Il mondo senza gente del genere, sarebbe quanto mai statico, egoista ed indifferente ad ogni miglioramento nello stile di vita.

Mi rendo conto però che egli sia una voce nel deserto; predicare la sobrietà nei comportamenti quotidiani, quando la macchina poderosa dell’economia “costringe”, con un martellamento incessante, a consumare e convince l’opinione pubblica ad avere dei bisogni impellenti ed assoluti, quando in realtà sono assolutamente fasulli e nocivi sia per l’individuo che per la collettività.

Mi rendo conto che il confronto, tra questa voce “profetica” e il Golia tronfio e possente, può incorniciarsi solamente nel quadro dell’utopia, però sono egualmente convinto che è una fortuna per la Chiesa e la società, avere dentro di sé questo sognatore. Non sono molti nella Chiesa questi “preti folli”, ma ringrazio Dio che almeno ce ne sia qualcuno in ogni settore della vita pastorale anche se, per i più, essi sono solamente degli illusi.

A proposito del mio pensiero sugli zingari

La gente che legge volentieri “L’incontro” e ne condivide le idee, me lo comunica personalmente e fortunatamente per me e per la mia sensibilità, essa è numerosa. Mentre chi dissente dalle mie valutazioni, solitamente me lo scrive.

Io so di essere un uomo passionale, un combattente all’arma bianca, per difendere ciò in cui credo e per oppormi a ciò che ritengo nocivo ai valori che mi sono cari e ritengo importanti per me e per il mondo in cui vivo.

Non ho mai amato la diplomazia, le mezze misure, i silenzi di comodo per il quieto vivere, per non espormi o per essere preoccupato d’aver contro qualcuno o l’opinione corrente. Ho sempre ritenuto questo comportamento ignavo e meschino, pur sapendo che comportandomi diversamente posso scontentare qualcuno, crearmi grane, farmi dei nemici e sentirmi isolato e talvolta perfino emarginato. Però ho sempre pagato il conto della mia franchezza e della mia libertà di pensiero, non riuscendo a capire che chi la pensa diversamente non possa dire la sua, ben s’intende creandosi anche gli strumenti per passare le sue tesi.

Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera astiosa ed irridente, per non dire strafottente, circa il mio pensiero sugli zingari, da parte di una persona talmente preconcetta da non aver neppure compreso che cosa ne penso sull’argomento. Gli ho risposto a giro di posta perché mi sfidava, se proprio volevo servire i poveri, di impegnarmi a favore degli zingari. Pur non condividendo la scelta comunale di aprire un nuovo ghetto, gli zingari li sto aiutando fornendo loro cibo, vestiti e quant’altro, opponendomi, come posso, alle loro ruberie ed insistendo presso l’opinione pubblica perché essi siano trattati come tutti i cittadini sia nei diritti che nei doveri.