Verso nuove forme di distribuzione de “L’Incontro”

In quest’ultimo tempo, prendendo spunto dalle insorgenti difficoltà di piazzare “L’incontro” nelle bacheche delle chiese della città – difficoltà dovute a motivi inconfessati, ma che di certo si rifanno ad una malcelata gelosia – stiamo mettendo a punto un progetto mirato a creare stazioni differenti per la distribuzione del periodico.

Le parrocchie spesso s’accorgono che mentre “L’incontro”, nonostante se ne aumenti costantemente la tiratura, continua letteralmente a “sparire” dai tavoli posti in fondo alle varie chiese, altri periodici non hanno lo stesso successo.

A qualcuno forse è parso che la concorrenza de “L’incontro” determini questo deludente fenomeno. Noi, evidentemente, siamo di diverso parere, ma da un lato per non creare “guerre di religione” – cosa quanto mai lontana dalle nostre logiche – e dall’altro lato per essere maggiormente coerenti con le nostre convinzioni, pensiamo di assumere “in toto” la dottrina di Paolo nei riguardi degli altri apostoli: “Voi curate pure le pecore d’Israele, mentre noi scegliamo di evangelizzare i gentili”. Traducendo in chiaro: lasciamo pure che i parroci continuino ad occuparsi dell’ormai piccola minoranza dei fedeli praticanti, mentre noi de “L’incontro” punteremo sempre più a rivolgerci ai cosiddetti “lontani”, ossia ai battezzati che, per i motivi più diversi, frequentano purtroppo poco le parrocchie.

Abbiamo affidato ad un giovane manager il compito di portare avanti il progetto e perciò d’ora in poi tenteremo di diffondere il periodico soprattutto nelle banche, nei bar, nelle pasticcerie, negli ipermercati, negli ospedali, negli ambulatori, ossia nei moderni “templi” frequentati dall’uomo di oggi.

Partendo da questa dottrina inviteremo sempre più frequentemente e con più insistenza i nostri affezionati lettori, che contiamo oggi sui dieci-quindicimila, a recapitare “L’incontro” nei negozi che essi frequentano, nei condomini o comunque ove vivono la loro vita.

Ci auguriamo che questa filosofia ci renda più facile il rapporto con le parrocchie, ma soprattutto che ci leggano quelli che non hanno dimestichezza con “la buona stampa”.

Cesarino Gardellin, un uomo che merita la stima di tutti!

Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata di un mio vecchio amico che mi ricordava che era tempo di cominciare a darsi da fare per ottenere il cinque per mille.

La voce di Cesarino era affannata e discontinua; purtroppo uno dei morbi, oggi tanto diffusi, ha fiaccato la forte tempra di questo combattente indomito su tutti i fronti. Però, pur attraverso quella povera voce incerta e stonata, m’è giunto il messaggio di un uomo che “ha dato tutto di sé” per gli altri e continua a farlo come gli è ancora possibile.

Cesarino è stato un bell’uomo, ricco di fascino e di una sottile ironia – o forse sarebbe meglio definirlo “humour” – per cui rendeva interessante ogni suo intervento. Parlava bene e scriveva ancor meglio. I libri sulla “sua guerra”, gli articoli sulla stampa cittadina e soprattutto sui periodici della nostra parrocchia, erano sempre brillanti, soffusi di sentimento e pieni di battute frizzanti, per cui si lasciava leggere con vero gusto.

Ma il capolavoro di Cesarino è stato il suo impegno per creare la cultura della donazione degli organi. Egli ha condotto avanti questa campagna assieme al professor Rama, al dottor Zambon, ad una schiera numerosissima di collaboratori ed aderenti che si lasciavano trascinare dall’entusiasmo e dalla generosità di questo concittadino sempre schierato a favore del prossimo.

Le iniziative di questo apripista della donazione sono state infinite e sempre positive: conferenze nelle scuole, la giornata del donatore, le targhe da apporre sulle tombe dei donatori, convegni, articoli e dibattiti, il periodico stampato in venti-trentamila copie.

Ora uno va in ospedale e riceve il trapianto della cornea come sia la cosa più scontata e tranquilla, ma pochi sanno quanto sia costata un tempo, in lotte e sacrifici, la legge che la supporta.

Cesarino è ora quasi invalido, non esce più di casa, non scrive, parla poco e male, comunque è rimasto un combattente indomito, tanto da ricordare al suo vecchio parroco, acciaccato pure lui, di non perdere l’occasione del cinque per mille.

Cesarino Gardellin non merita una rotonda o una strada a suo nome, ma l’ammirazione, la stima e l’affetto dell’intera città.

Il Consiglio di amministrazione della Fondazione Carpinetum, un esempio per tutti

A settembre terminerà il suo compito il Consiglio di amministrazione che in questi ultimi cinque anni ha diretto i centri “don Vecchi”.

Il Consiglio della Fondazione Carpinetum è composto da cinque membri, tre di elezione da parte della parrocchia di Carpenedo e due da parte del Patriarcato. Per un gesto squisito di gentilezza sia la parrocchia che la diocesi hanno permesso che fossi io a designarli. Ho chiesto a persone capaci, oneste e generose di aiutarmi in questa fase d’inizio un po’ incerta e difficile della Fondazione appena costituita. La risposta è giunta pronta e generosa, nonostante ognuna di loro avesse impegni pressanti a livello professionale.

Il Consiglio ha lavorato non bene ma benissimo, mai un diverbio, mai un contrasto; ognuno, seppure di età e di impegno civile diverso, ha dato il meglio di sé con generosità, discrezione e saggezza.

La consapevolezza di adempiere un servizio verso persone anziane, bisognose ed indifese, ha prevalso in qualsiasi problema da affrontare. In cinque anni si è aperto il Centro di Marghera con i suoi 57 alloggi e la sua direzione quanto mai valida ed efficiente, si sono acquisiti diecimila metri quadri di terreno a Campalto e, prima della fine del mandato, saranno inaugurati altri 64 alloggi con una direzione già pronta a prendere le redini.

Nel contempo questo Consiglio s’è adoperato a sviluppare “il grande polo” di solidarietà cresciuto all’ombra della sede del “don Vecchi” di Carpenedo e che attualmente rappresenta il più consistente, il più moderno ed efficiente centro di solidarietà operante a Mestre e nel Patriarcato.

Ancora suddetto Consiglio ha già messo le premesse per una esperienza pilota, assolutamente innovativa nei riguardi degli anziani in perdita di autonomia.

Credo che se al Parlamento e al Governo si lavorasse in maniera così responsabile e disinteressata, le cose nel nostro Paese andrebbero infinitamente meglio. E allora “se non adesso quando?”. Credo che lo slogan delle donne potrebbe essere adoperato meglio, partendo da queste premesse e indirizzato a questi ideali.

La visita del Papa a Venezia

Il fatto che il Papa venga a Venezia mi fa molto felice, come credo che faccia felici tutti coloro che credono, per fede, che egli è il successore degli apostoli. L’apparato ecclesiastico sta facendo grandi preparativi per accoglierlo come si conviene. A questa gioia delle genti venete per la venuta del vicario di Cristo, secondo me si aggiunge anche molta “tenerezza” (mi si perdoni il termine che non vuol essere minimamente irrispettoso, ma vuole esprimere tutta la mia comprensione nel vederlo così fragile, indifeso e smarrito).

Il Papa, mi pare, abbia un paio di anni più di me e perciò posso ben comprendere il costo “delle chiavi così pesanti” e la fatica di tenere il timone della barca di Pietro in un mare per nulla tranquillo.

Qualche giorno fa leggevo, negli Atti degli Apostoli, l’attesa trepida con cui la prima comunità cristiana di Roma aspettò il vecchio apostolo Giovanni e l’emozione profonda con cui ha ascoltato la sua parola: “Figlioli, vogliatevi bene!” e poi ancora “Amatevi gli uni gli altri!” Spero che le nostre comunità e chi le guida non facciano di questo evento un qualcosa di portentoso, un qualcosa da cui possa derivare un non so qual miracolo di rinnovamento. Le parole che mi attendo dalle labbra e dal cuore di Papa Benedetto sono queste antiche e stupende parole che sono sempre nuove e sempre belle perché sono la vera ricchezza della nostra Chiesa.

Anche noi del “don Vecchi” abbiamo dato con prontezza e con letizia il nostro piccolo contributo per la festa della venuta del Papa tra noi, ma soprattutto gli doneremo idealmente i nuovi alloggi per gli anziani poveri della nostra città. Siamo certi, che lo venga a sapere o meno, che questo sarà il dono più gradito ed apprezzato dal Santo Padre, dono che ricompenserà la sua fatica e che farà felice il suo cuore di padre.

Ancora una volta grazie ai cittadini che mi aiutano a costruire il Don Vecchi 4!

Una ragazza spigliata ed intelligente poco tempo fa mi ha fatto pervenire un’offerta per il centro “don Vecchi” di Campalto, con una richiesta spiritosa ed un po’ sbarazzina: “Voglio sottoscrivere dieci B.T.P.”. Poi ha aggiunto una spiegazione, intuendo che per un vecchio come me, forse sarebbe stato difficile comprendere la battuta (Buoni Tesoro Paradiso). Questa ragazza ha allegato alla richiesta 500 euro, pari a quelle che io, in maniera più datata, avevo denominato “azioni” della Fondazione Carpinetum per finanziare i nuovi 64 alloggi per anziani poveri, in costruzione a Campalto.

La “trovata”, dal sapore goliardico, è nata dal desiderio di onorare la memoria della madre, morta un anno fa. Ogni settimana concittadini di tutte le estrazioni stanno rispondendo al nostro appello e stanno finanziando la struttura che fa onore alla nostra città, offrendo ad un numero consistente di anziani una dimora confortevole e sicura. Questa risposta della città mi conforta e mi commuove, facendomi ancora una volta capire che mentre i cittadini, fortunatamente, mantengono, nonostante tutto, un cuore ed una coscienza, le banche e gli enti pubblici, se mai le avessero avute in passato, ora probabilmente le hanno perdute totalmente.

Una volta ancora ringrazio i cittadini per la loro fiducia e la loro generosità perché, sebbene facciano i loro “interessi”, investendo in titoli assai redditizi in terra e perfino in Cielo, mi aiutano a credere nell’uomo e a proseguire nello sforzo di impegnare ogni residua risorsa della mia vita per costruire una città solidale.

Una generosità che commuove e costruisce

Mestre conosce la mia trovata di munirmi di una bisaccia da cerca per trovare il denaro per finanziare il “don Vecchi” di Campalto. Non tutti però sanno che avevo in canna più di una cartuccia e nel momento della grande paura ho cominciato a premere il grilletto in tutte le direzioni.

Una delle tante trovate, che poi era una specie di uovo di Colombo, e non una gran scoperta, fu quella di accludere all’interno de “L’incontro” il bollettino di conto corrente postale. All’inizio dello scorso dicembre, stimando che il Natale vicino e la tredicesima potessero intenerire il cuore dei miei concittadini, ho inserito ben cinquemila bollettini nel numero de “L’incontro” della prima settimana di dicembre. Feci stampare in copertina la mia foto per personalizzare la richiesta di aiuto e poi, in prima di copertina, scrissi una lettera aperta intingendo la penna ora nel cuore ed ora nella preoccupazione di un vecchio prete preoccupato di far fallimento.

Non è che subito siano piovute le risposte come una pioggia torrenziale d’estate, però cominciò una pioggerella continua di risposte e la somma finale degli euro cominciò a crescere, seppur lentamente, ma in continuità. Ho cominciato a prender nota e a segnalare la sottoscrizione dei B.T.P. (Buoni Tesoro Paradiso), come ebbe a denominarle una cara figliola di un mio amico, per inviare via Internet gli accrediti in Cielo.

Questa pioggerella quotidiana mi rende lieto perché dietro ad ogni nome posso sognare il volto buono e caro di una persona amica, perché sono certo che il Signore terrà conto nel Giudizio Finale di questa generosità e perciò i miei concittadini si troveranno un bel gruzzoletto per la fine della vita ed infine perché posso onorare gli impegni presi con l’Eurocostruzione.

Potrei anche aggiungere che tali offerte assicurano il pane quotidiano per un anno intero ai cinquanta operai del cantiere del “don Vecchi 4°” e in questi tempi ciò non è proprio poco!

Un pranzo di lavoro poco soddisfacente

Qualche giorno fa ho partecipato per la prima volta ad un pranzo di lavoro a cui mi ha invitato il Patriarca.

Premetto che non sono particolarmente entusiasta della soluzione dei pranzi di lavoro per trattare un qualsiasi problema. Chi prende la parola fatica a parlare perché i destinatari del suo discorso sono, naturalmente, più o meno intenti a mangiare, e chi ascolta, invece, mangia mal volentieri, preoccupato di non far rumore, di perdere le parole, e quando gli verrebbe da intervenire è nel bel mezzo del piatto di pasta! Comunque il pranzo di lavoro è andato avanti, seppur con qualche sussulto e qualche pausa per l’andirivieni della cameriera, abbastanza disinvolta, spicciativa e poco interessata al discorso.

L’architetto Giovanni Zanetti, ha trattato l’argomento della cittadella della solidarietà un po’ girando alla larga ed un po’ con un linguaggio troppo tecnico e ha informato di poter ottenere trentamila metri di terreno a titolo gratuito, in una zona a suo parere ben servita dai mezzi pubblici. Il Patriarca è intervenuto motivando la scelta come logica conclusione della sua “campagna” sul gratuito svolta durante la sua visita pastorale.

Gli interventi circa l’opportunità di dar vita a questa “cittadella della solidarietà” sono stati più smorzati e più soffici di quelli manifestati sullo stesso argomento durante una precedente cena di lavoro alla quale non partecipava il Patriarca; di certo però non ho avvertito troppo entusiasmo e troppa passione; forse ciò è dovuto al fatto che, per non so quale motivo, in questi giorni ho avuto un calo preoccupante di udito. M’è parso che con quella “brigata” non si andrà troppo lontano.

Un mio vecchio amico prete diceva spesso che lui era per la democrazia, però guidata da un forte “leader” – che, tradotto, significava che c’era bisogno di uno che ascolti pure, ma poi decida lui! Io invece penso che sia assolutamente necessario un manager che, dopo aver ascoltato, proceda mettendo in riga tutti, compresi quelli che han deciso! Per la “cittadella” siamo ancora un po’ lontani da questo; spero che non si indìca quindi una “merenda di lavoro” per proseguire il discorso!

Da una sincera collaborazione fra persone prima che politici nasce qualcosa di importante!

Nota della redazione: come sempre, questo appunto di don Armando scritto a penna e trasformato in articolo per “L’Incontro” e post per il blog, risale ad alcune settimane fa.

Oggi è stata per me veramente una splendida giornata, ma soprattutto per gli anziani poveri in perdita di autonomia. Quando ho cominciato ad occuparmi della terza età, avevo intuito che tra l’autosufficienza, che fortunatamente è presente anche in persone notevolmente anziane, e la non autosufficienza c’è un’ampia zona grigia in cui una persona non è né questo né quello, ossia non è da ricovero, però non può neanche bastare completamente a se stessa.

I responsabili del settore della Regione finora non avevano mai messo a punto dei provvedimenti per tutelare la dignità della stagione del tardo autunno delle persone anziane con pochi mezzi economici. In un incontro fortuito con Gennaro Marotta, consigliere regionale dell’Italia dei Valori, ritornando a Mestre da un dibattito tenuto presso la sede dell’emittente “Antenna Veneta”, avevo conversato con questo politico sul problema grave che affligge il “don Vecchi”, ossia sugli anziani in perdita di autonomia che non vorrebbero abbandonare il loro domicilio presso il Centro e nello stesso tempo hanno infinite difficoltà di ordine economico e di accettazione da parte delle Case di Riposo.

Il signor Marotta, con squisita disponibilità e cortesia, ci ha portato al “don Vecchi” l’assessore alle politiche sociali della Regione, il quale ha scoperto, con favore e con entusiasmo, che la soluzione prospettata dal Centro corrispondeva esattamente al suo sogno di dare una risposta valida ed umana ai nostri concittadini che vengono a trovarsi in questa zona di nessuno rappresentata dalla parziale perdita di autonomia.

E’ stato facile mettere le basi perché, con una collaborazione tra la Fondazione e la Regione, il “don Vecchi” diventi il progetto pilota che permetta la sperimentazione necessaria per mettere a punto le leggi relative.

Sono stato felice non solamente per questo accordo, per la sinergia tra pubblico e privato sociale, ma anche che persone espresse da realtà pur diverse abbiano aperto un dialogo sereno e collaborativo su un problema concreto, lasciando da parte scelte di ordine ideologico o religioso. Di tutto questo sono infinitamente grato a Gennaro Marotta dell’Italia dei Valori e all’assessore Remo Sernagiotto dell’Udc.

L’accattonaggio

Nota della redazione: come sempre, questo appunto di don Armando scritto a penna e trasformato in articolo per “L’Incontro” e post per il blog, risale ad alcune settimane fa.

Questa mattina la mia amica de “La nuova Venezia”, una giovane giornalista che segue con passione le vicende del “don Vecchi” di Campalto, mi ha telefonato chiedendomi che cosa ne pensavo in merito all’accattonaggio.

La notizia che un prete di un paesotto della marca trevigiana aveva dal pulpito messo in guardia i suoi parrocchiani a diffidare degli accattoni e di non prestarsi a dare l’elemosina ai mestieranti della carità, aveva suggerito a questa giovane giornalista, sempre a caccia di notizie, di scrivere un pezzo per il giornale con cui collabora, sull’argomento.

Domani mattina sono certo che avrò una foto nella pagina cittadina con, molto probabilmente, l’affermazione che anch’io sono contrario all’accattonaggio e che diffido i concittadini dal far l’elemosina.

Io, in verità, affronto il problema in maniera più articolata: è giusto, per me, che i preti proibiscano agli accattoni piagnucolosi di stendere la mano alla porta della chiesa, a patto che la parrocchia relativa sia veramente attrezzata a soccorrere i poveri e, al momento presente, credo che quasi nessuna parrocchia della città abbia messo in essere un impianto serio ed efficiente per soccorrere chi ha bisogno. Il prete in questione ha affermato che la Caritas è deputata ad aiutare seriamente i poveri. Io però non conosco parrocchia della nostra città e, meno che meno dell’interland, che si sia munita di strutture atte a dare un aiuto serio.

Sono pure decisamente convinto che le singole parrocchie, anche le più sensibili a questo problema – e sono pochissime, meno forse delle dita di una mano – potranno mai essere in grado di dare una risposta adeguata a chi è nel bisogno e credo che neppure le Caritas, così come sono attualmente impostate, siano in grado di farlo. Per questo sogno la “Cittadella della solidarietà” come risposta seria e globale al bisogno dei cittadini in difficoltà. Spero che il mio sogno non sia una illusione!

Sognate con me!

Credo che non ringrazierò mai sufficientemente il Signore per avermi dato lo splendido dono di sognare ad occhi aperti. Il sognare in modo nuovo però, che non si riduce ad un’utopia lontana ed irraggiungibile, ma come gradini successivi che mi portino più avanti, più in alto e più vicino ad un “mondo nuovo”. Qualche giorno fa ho letto che don Verzè, il fondatore del grande ospedale-università di Milano, il San Raffaele, sta sognando, a più di novant’anni, di sconfiggere il tumore. Allora perché io, che ne ho solamente 82, non posso sognare un qualcosa alla grande?

Voglio confidare agli amici i miei sogni-nella speranza che pure loro non si rassegnino a non guardare più in là del proprio naso. Sognare costa poco, ma dona molto, offre nuove prospettive, scatena risorse interiori, mette in moto sinergie e talvolta, se ti va bene, può offrirti anche qualche realizzazione che gratifica lo spirito.

Comincio col più piccolo: l’Agape. Ogni quindici giorni vorrei, con i volontari della cucina del “Seniorestaurant” del “don Vecchi”, offrire un “pranzetto” cordiale a quaranta, cinquanta anziani della città che vivono soli. Un pranzetto che parte dall’antipasto e termina col dolce, in un ambiente caldo e cordiale. Non è molto, ma se ogni parrocchia ne organizzasse uno, più di mille anziani potrebbero pranzare assieme al costo di una “pipa di tabacco”!

Secondo sogno – che già ha messo radici e sta crescendo decisamente, tanto che col prossimo settembre potrà “camminare con i suoi piedi” – il “don Vecchi 4 di Campalto”: 64 nuovi alloggi per anziani poveri.

Qualche ostacolo, qualche bastone fra le ruote, qualche preoccupazione economica, ma ormai pare tutto in via di superamento, e soprattutto quanta gioia poter pensare che un’altra settantina di anziani trascorrerà la vecchiaia senza timore di sfratto e senza dover chiedere l’elemosina a nessuno.

Terzo sogno: la cittadella della solidarietà. Un ostello con duecento stanze, un ristorante con trecento coperti, un'”Ikea” per i mobili, un “Coin” per i vestiti, un ipermercato per i generi alimentari, un poliambulatorio, un centro di ascolto collegato con tutti i servizi in atto in città, un complesso-docce, un salone di parrucchiere per uomo e donna, un ufficio legale, una banca per miniprestiti, ecc.

Per ora ci sono le idee, ma non è impossibile, prima o poi, mettono le ali e comincino a volare.

Cerco l’aiuto solo di chi crede alla solidarietà!

A me capita di sbottare talvolta e forse troppo spesso e troppo violentemente; la pazienza, la ponderazione e la moderazione non sono il mio forte!

Ho scritto e riscritto su “L’incontro”, il periodico che accoglie tutti i miei sfoghi, le mie angosce e i miei pensieri, che alcuni mesi fa me la sono vista veramente brutta quando la Fondazione Carive, che di solito mi aveva generosamente aiutato, a firma del presidente Segre mi ha detto, quasi cinicamente, che da essa non dovevo aspettarmi neppure un soldo; così aveva comunicato la Banca Antoniana presso cui la Fondazione movimenta ogni anno molto denaro. La Regione mi ha risposto dopo quattro mesi che non spetta ad essa erogare denaro per gli alloggi protetti. il Comune, la Cassa di Risparmio: silenzio assoluto. Mentre il Banco di san Marco ha stanziato per il “don Vecchi” di Campalto la bella somma di mille euro.

In questa situazione ho avuto paura! Come san Pietro ho dubitato ed ho cominciato ad affondare. Fortunatamente sono intervenuti i cittadini e la Provvidenza, motivo per cui non sono “annegato”, anzi vedo già la Terra Promessa.

Ma il motivo che mi ha mandato in bestia sono state alcune voci arrivatemi, che dicevano che i confratelli – non tutti per fortuna, perché don Liviero, il parroco di viale san Marco, don Bonini del Duomo, don Cicutto ed altri non è stato così anzi mi hanno aiutato, – mi criticavano perché non avrei dovuto mettermi nei guai perché non tocca ai preti pensare ai poveri, ma al Comune e allo Stato.

Poi ci fu qualche altro che mi fece capire che non è opportuno chiedere sempre, quasi dicendomi la frase fatidica di Berlusconi: “Non si deve mettere le mani nelle tasche dei cittadini!”. Non tutti la pensano così, ne fa fede la lista di offerte che pubblico ogni settimana. Tuttavia questo mi ha fatto scrivere quello che ribadisco: “Non voglio assolutamente i soldi di chi non ha fiducia in me, di chi non ritiene opportuno aiutare i vecchi in povertà, di chi è convinto che la Chiesa debba occuparsi solamente delle anime e del Paradiso, di chi è convinto che le cose debbano cadere dal cielo!

So di non avere la fede e l’umiltà del Cottolengo, di san Vincenzo de Paoli, dell’Abbé Pierre o di Teresa di Calcutta, ecc…, però lasciatemi dire che chi crede che sia giusto pensare solamente a se stessi e ai propri famigliari, i suoi soldi se li tenga, io e chi la pensa come me ci faremo aiutare da chi crede comunque alla solidarietà!

L’organigramma del Duomo di San Lorenzo, un’iniziativa da elogiare!

All’inizio dell’anno pastorale 2010-2011, che nelle parrocchie si apre verso settembre-ottobre, la parrocchia del duomo di Mestre, San Lorenzo, che attualmente è guidata da mons. Fausto Bonini, ha pubblicato il suo organigramma con tutte le articolazioni, gli appuntamenti e le iniziative messe in programma per il nuovo anno di attività.

Non credo certamente che don Fausto, che è un prete intelligente, preparato e di grande iniziativa, abbia imparato da me, comunque anch’io avevo intuito la necessità di pubblicare all’inizio di ogni anno pastorale qualcosa del genere, ossia un organigramma ed un calendario di iniziative pastorali da attuarsi durante l’anno. Mi è sembrato che non solo fosse opportuno che la comunità cristiana desse un’immagine ordinata e seria di sé, ma che pure fosse quanto mai opportuno, anzi necessario, che i fedeli avessero punti di riferimento precisi nei riguardi dei responsabili e delle varie iniziative.

L’organigramma di Carpenedo occupava normalmente quattro-cinque facciate della rivista mensile “Carpinetum”. L’attuale patriarca, venendo a Venezia, deve essere stato favorevolmente impressionato dall’articolazione e dall’organizzazione della mia parrocchia, tanto che ad un paio di mesi dalla sua entrata volle rendersi conto, mediante una “visita privata”, del funzionamento di questa parrocchia organizzata fin nei minimi particolari, come “un’azienda” pure se “sui generis”.

L’organigramma-calendario di San Lorenzo però, è di gran lunga migliore di quello di Carpenedo di cinque anni fa; lo è per completezza e precisione di dati, per le immagini degli operatori, per l’eleganza dell’opuscolo di ben quaranta pagine stampate a colori da una tipografia industriale, per l’enorme ricchezza di informazioni, ma soprattutto perché dà la sensazione che la parrocchia si occupi di “tutto l’uomo”, dall’infanzia alla vecchiaia, dalla catechesi alla cultura, dai sacramenti alle attività sportive, dal canto alla ricerca, dalla mistica al tempo libero, dai mass-media più moderni alle residenze per studenti, dal gioco alla recitazione.

Quello che ha attratto la mia attenzione, e che soprattutto ha destato nel mio animo felice stupore ed ammirazione, è la visione globale dell’uomo e quindi della relativa pastorale.

Lo scorso anno scrissi a don Fausto per complimentarmi, quest’anno non l’ho fatto per non ripetermi. Dall’esame attento ed entusiasta dell’opuscolo, che offre l’immagine della parrocchia di San Lorenzo, mi è sorto solamente un sentimento amaro e triste: “Purtroppo San Lorenzo è la mosca bianca”, aldilà dei suoi confini pare che abitino solamente i “barbari”!

Grazie a chi ci aiuta!

La scorsa settimana ho sentito il dovere e il bisogno di rassicurare gli amici, i lettori de “L’incontro” e i concittadini, che i tempi della “grande paura” quasi certamente sono passati e che intravedo già una luce in fondo al tunnel.

Credo di non essere per nulla un temerario o uno sprovveduto. Quando siamo partiti col “don Vecchi” di Campalto avevamo in cassa quasi i due terzi della somma necessaria e avevamo già approntato “il paracadute” con l’apertura di un conto corrente ipotecario presso la Banca Prossima, con una garanzia di due milioni, in modo da pagare solamente lo 0,60% su quello che avremmo prelevato e comunque restituibile in dieci anni.

Pensavo che i contributi degli enti pubblici, quali il Comune, la Provincia, la Regione, la Fondazione della Cassa di Risparmio e le banche avrebbero fatto il resto, perché sono, o dovrebbero essere le realtà più sensibili alle soluzioni sociali più valide e più economiche.

Come riserva, da mestrino di adozione, contavo anche sulla fiducia che i concittadini mi hanno sempre dimostrato e, da prete poi, per dovere e soprattutto per esperienza, sapevo che potevo contare sulla Divina Provvidenza.

In realtà le certezze di ordine costituzionale sono venute totalmente meno, così che ho dovuto aggrapparmi disperatamente alla città e al buon Dio. Città e buon Dio non solo non mi hanno abbandonato, ma stanno aiutandomi con una generosità che mai avrei potuto sperare. I cittadini molto probabilmente non hanno creduto opportuno che uno dei loro preti, che per più di mezzo secolo aveva cresciuto i loro ragazzi, insegnato nelle scuole cittadine, accompagnato i loro morti al camposanto e benedetto le loro nozze e sorretto i vecchi, se ne andasse con la bisaccia da frate da cerca a chiedere l’elemosina; e la Provvidenza, ritenendo valida la causa, ha provveduto brillantemente e con abbondanza, mediante un’apertura di credito senza interessi e senza dovere di restituzione.

Le cose stanno andando così tanto bene che, ancora una volta, mi tormenta l’animo il dolce rimprovero di Cristo: «Uomo di poca fede!»

Chissà che d’ora in poi non riesca a comprendere che il buon Dio è da un’eternità che ci pensa e riesce a far funzionare il mondo anche senza di me e senza l’aiuto degli enti pubblici!

Spero che qualcuno curi l’”Angelo”!

Sono arrivato a Mestre nel pomeriggio di una fredda giornata di febbraio del 1956. Monsignor Da Villa, l’epico cappellano militare dei nostri soldati del fronte libico, mi aveva notato durante uno dei miei interventi liberi e appassionati, ad un incontro di preti e pensò che quel giovane prete irruente potesse andar bene per la gioventù di San Lorenzo, ove lui era parroco.

Quindi da più di mezzo secolo sono partecipe delle vicende del “borgo” che per tanti anni visse, quasi in torpore, ai margini della “capitale” e che dopo la guerra, quasi per incanto, si scoprì città: povera, poco importante, ma città!

Devo confessare che mi sono sempre lasciato coinvolgere dalle vicende di Mestre, mai sono stato alla finestra a guardare, ma sempre mi sono buttato nella mischia degli eventi. L’esser stato poi accanto e l’aver strettamente collaborato con don Vecchi, che tenne a battesimo la “nuova Mestre”, ha fatto si che io senta Mestre come la mia città e che l’ami profondamente.

Non so quanti decenni servano a Mestre per arrivare alla pienezza di vita cittadina come le consorelle: Padova, Vicenza e Treviso, ma sono convinto che perlomeno ora lo stia tentando.

Il nuovo ospedale credo che sia un tassello significativo di questa crescita. Sono orgoglioso della “torre maya”, della splendida collinetta trapuntata di cipressi, del laghetto e dello splendido giardino pensile, meno entusiasta delle vicende gestionali che la stampa denuncia un giorno si e un giorno no.

Il mio amore però mi rende esigente, tanto da non essere capace di temperare il mio sdegno quando mi accorgo che questa splendida impresa corre il rischio di fallire e di diventare una patacca. Mi reco due volte la settimana al “pronto soccorso” che in realtà è pochissimo “pronto” e forse altrettanto poco “soccorso”.

Ho letto e riletto che ogni anno ottantamila persone vi accedono, che c’è gente che vi si reca per un foruncolo o uno starnuto. Sta di fatto però che suonano come una beffa le corse a sirene spiegate delle ambulanze e poi le attese interminabili nelle affollate sale di attesa. Se la cosa si fosse verificata nei primi mesi, pazienza; ma ora pare sia un male endemico e che quindi ci sia assoluta necessità di un farmaco o di un intervento chirurgico d’urgenza, ma risolutivo!

Mestre di fiori all’occhiello non ne ha troppi, io mi sto dando da fare perché il “don Vecchi” resti tale, però spero che ci sia chi faccia altrettanto per il nostro “Angelo”!

Se la Cittadella della Solidarietà è impantanata in pastoie burocratiche, io guardo oltre!

La vita vissuta in équipe, m’è sempre stata molto stretta. Capisco sempre di più d’essere una persona solitaria e profondamente individualista.

Qualche mese fa m’è stato chiesto di “cedere” alla diocesi il progetto della “cittadella della solidarietà”. Ne fui molto felice perché “mi si cavava una castagna dal fuoco” in un tempo che di problemi ne ho fin troppi. Poi ritenevo veramente bello che l’intera Chiesa veneziana prendesse seriamente il discorso di Gesù “Ama il prossimo come te stesso”, discorso ribadito con forza e con concretezza da san Giacomo. Mi affascinava che l’intera Chiesa veneziana si impegnasse globalmente su un progetto che avrebbe testimoniato la sua coerenza al Vangelo.

L’iter intrapreso mi è sembrato subito un difficile percorso di guerra che soldati poco intraprendenti ed audaci avrebbero avuto infinite difficoltà e pretesti per affrontare e risolvere. Infatti stanno passando giorni, settimane e mesi e il progetto rimane solamente una timida bozza di progetto, mentre paesetti come Mirano stanno già costruendo “il villaggio solidale”!

Ancora una volta mi si affaccia la tentazione di abbandonare il progetto della città solidale alla burocrazia della curia e dar vita ad un braccio d’azienda al posto della possibile e futura “cittadella” per risolvere il problema dei magazzini San Martino, San Giuseppe e di tutti i santi della carità.

Mi si regalano trentamila metri di terreno e diecimila di spazio coperto da tetto. Io credo che bisogna cogliere l’opportunità al volo e lasciando il progetto della “cittadella” alla diocesi, noi invece costruiremo “L’Ikea” solidale dei mobili usati e “i grandi magazzini Coin” degli indumenti d’epoca.

Non sarà la Chiesa di Venezia a farlo, comunque sarà un suo vecchio prete in pensione!