L’esperienza dello spreco

Lo studio teorico dei problemi dell’uomo e della società è certamente importante, però finché uno non ci si cala dentro e non ne fa diretta esperienza, difficilmente ne diventa veramente consapevole.

Il volume che contiene la “dottrina” di uno degli ordini religiosi più recenti, quello dei “Piccoli fratelli di Gesù”, fondato da Charles De Foucauld, ha come titolo “Come loro”. Il testo, che può essere considerato “la Regola” o “la Magna carta” di questo ordine, prescrive a questi religiosi del nostro tempo di condividere le condizioni esistenziali degli ultimi della nostra società, vivendo come loro, nelle stesse abitazioni, con le stesse condizioni di vita. Soltanto la condivisione reale permette una conoscenza vera dei loro problemi e rende possibile la solidarietà per la quale può passare il messaggio evangelico.

Anche recentemente mi è capitato di affermare che altro è parlare dei poveri, pregare e operare a loro favore, e altro è vederli nella sofferenza della loro condizione e condividere con loro i disagi che la povertà comporta.

Io ormai da molti anni seguo le notizie riportate dai giornali circa le migliaia di tonnellate di generi alimentari e di frutta e verdura che vanno sprecate ogni giorno e buttate nella spazzatura, mentre potrebbero sfamare un numero consistente di poveri. Vedere con i propri occhi gli alimenti che solo un ipermercato o un semplice negozio destina alla spazzatura ogni giorno, è un qualcosa che turba in maniera profonda, qualcosa che mette veramente i brividi e fa nascere un senso di indignazione verso la nostra società dell’opulenza, del consumo e dello spreco.

Grazie alla mediazione di un giovane assessore del Comune di Venezia siamo riusciti a farci dare ogni giorno i generi alimentari che l’ipermercato Despar della nostra città non può più mettere in commercio per i motivi più disparati, ma che sono assolutamente mangiabili senza ombra di pericolo.

Mai avrei immaginato che un solo ipermercato fosse costretto per legge a buttar via ogni giorno tanto ben di Dio!

Circa un mese fa una signora è venuta a conoscenza che nelle pasticcerie ogni sera le paste con la crema devono essere buttate perché perdono un minimo della loro freschezza e quindi non sono più proponibili alla difficile e viziata clientela. Da allora, tramite l’intervento di questa cliente, i proprietari di due pasticcerie della città donano ai nostri Centri queste “bontà” che altrimenti andrebbero perdute. Ebbene, a queste due pasticcerie se ne sono aggiunte altre due. Penso che i cinquecento residenti dei Centri don Vecchi nella loro vita mai abbiano mangiato così tante leccornie.

Se più gente si impegnasse per i fratelli in difficoltà e ne condividesse il disagio, credo che potremmo fare ancora miracoli e operare per cambiare questa nostra società semplicemente assurda.

17.01.2014

Declino inarrestabile

In questi giorni “Il Gazzettino” è ritornato più volte sul discorso dello stadio perché il russo che si è offerto di costruire un nuovo stadio in quel di Tessera s’è spazientito per l’indecisione e la lentezza del Comune di Venezia ed ha minacciato che se non si arriverà all’autorizzazione entro tempi strettissimi, ritirerà definitivamente la sua offerta.

Questo stadio è una vecchia storia. I due stadi esistenti, il “Penzo” di Venezia e il “Baracca” di Mestre, sono piccoli, fatiscenti ed inadeguati, pari neppure a quelli di Preganziol o di Campagna Lupia. E’ vero che le squadre di calcio di Venezia-Mestre sono ben lontane dall’essere squadre meritevoli di un’opera moderna, però la popolazione sportiva delle due città da almeno mezzo secolo reclama uno stadio adeguato.

Ricordo una scenetta spassosa alla quale ho assistito almeno cinquant’anni fa durante un incontro su questo argomento al Laurentianum di Mestre. Uno dei miei giovani scout, che ora è in pensione ormai da quasi dieci anni e che da sempre ha praticato l’atletica leggera, durante l’incontro alzò la mano per chiedere la parola; poi, adottando lo stile degli imbonitori da fiera di paese che reclamizzano gli articoli da vendere, cominciò il suo intervento al ribasso: «Non potete farci uno stadio da centomila, fatecelo pure da ottanta. Non è possibile da ottanta? Scendiamo a cinquanta… e via di seguito finché si ridusse a chiedere uno stadio da mille persone, purché lo si facesse.

E’ passato mezzo secolo. Massimo Di Tonno, che fu il piacevole protagonista di questa scenetta spassosa, ormai non è più giovane e penso che sia più preoccupato delle case di riposo che dello stadio, ma il nostro Comune lumaca, ancora una volta corre il rischio di perdere anche l’ultima occasione dopo aver perso quella della torre Lumière, del carcere e di non so quante altre opportunità.

Sono arrivato alla conclusione che il declino di Venezia, cominciato con la scoperta dell’America – scoperta che ha cambiato le rotte del commercio mondiale – si sta concludendo ai nostri giorni con il degrado della città, con l’acqua alta, l’illusione di essere ancora la “regina dei mari” e l’inefficienza dei nostri amministratori.

“Povera Venezia, si bella e perduta!”. Ormai sul ponte sventola da decenni la “bandiera bianca” della resa senza neppure l’onore delle armi!

14.01.2014

L’avallo di Papa Francesco

Un paio di mesi fa ho dedicato una pagina del mio diario al pensiero religioso di padre Ernesto Balducci. Questo sacerdote, appartenente all’ordine dei Padri Scolopi, fiorentino di nascita e morto in un incidente automobilistico una ventina di anni fa, fu quanto mai noto al tempo della ricostruzione perché nel dopoguerra fondò una bellissima rivista di ispirazione cristiana; “Testimonianze”, mensile che ho seguito con tanta ammirazione per moltissimi anni e che poi ho lasciato perché mi è parso che la linea editoriale si fosse spostata eccessivamente a sinistra a livello politico e fosse un po’ troppo di fronda a livello ecclesiale.

Ritrovai padre Balducci un paio di anni fa leggendo un ottimo volume di don Piazza sulla vita e sul pensiero del sacerdote friulano, parroco, se non per punizione, ma di certo confinato, in una minuscola parrocchia dal suo vescovo perché “non facesse troppi danni” a livello di pensiero. Don Piazza è un grande ammiratore di padre Balducci, tanto da dedicargli una sua struttura di accoglienza per i profughi del mondo.

Infine, tre o quattro mesi fa, qualcuno mi regalò un volume quanto mai arduo da capire, dello stesso padre scolopio, “L’uomo planetario” nel quale, tra l’altro, questo intellettuale sosteneva la tesi che il meticciato dei popoli avrebbe finito di essere tale anche a livello religioso. Questo avrebbe portato ad un ecumenismo reale che avrebbe dato vita ad un denominatore comune tra le religioni spingendole ad operare per la pace e il benessere dell’uomo.

La tesi mi affascinava, ma l’ho presentata con le pinze, temendo che avesse qualcosa di ereticale, perché ammetteva un pluralismo religioso impegnato soprattutto a cercare il Regno dei Cieli quaggiù, pur non escludendo quello dell’aldilà. Dentro di me ho sempre pensato che il buon Dio gradisse di più che noi, suoi figli, ci aiutassimo ad andar d’accordo e a vivere una vita possibilmente più felice, piuttosto che fossimo troppo impegnati in riti misteriosi che abbondano di acqua santa e di nuvole di incenso, ma soprattutto che noi perdessimo troppo tempo in contese dottrinali, peggio ancora in “guerre sante”.

Confermo che ero molto preoccupato di non andar troppo fuori dal seminato. Però il volume che sto leggendo “Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, dialogo tra credenti”, va molto oltre, tanto da farmi sentire un vetero cattolico, conservatore, quanto mai retrogrado e superato dalle posizioni del Santo Padre.

Man mano che procedo a leggere i discorsi del Papa, tanto più mi sento innamorato di questa dottrina fresca, limpida ed innovativa. Cosicché, alla proposta timida di Enrico, mio amico e collaboratore, di dar vita a qualcosa che faccia cassa di risonanza alla rivoluzione di Papa Francesco, ho aderito immediatamente e con entusiasmo. Così è nato il piccolo nuovo settimanale “Il messaggio di Papa Francesco”

13.01.2014

Il parroco del domani

Ieri ho incontrato mia sorella Lucia che vive in stretto contatto con mio fratello don Roberto, parroco a Chirignago e che perciò partecipa più da vicino alle difficoltà di sempre di ogni parroco, alle quale se ne aggiunge qualcuna in più per i parroci dei nostri giorni. Lucia mi ha riferito una “frase storica” del nostro Patriarca: “Un prete per campanile!”

Quello del Patriarca non è un nuovo slogan a livello pastorale, ma una dura decisione data dalla carenza di preti.

Credo che don Roberto senta certamente più di me questo annuncio, perché ha attualmente un cappellano a mezzo servizio, ma presto teme di non avere più neanche quello.

La notizia, che mi giunge nuova solamente nella sua formulazione da slogan, “un prete per campanile”, mi ha fatto riflettere su questa questione che non mi è per nulla nuova. Presto non saranno più possibili neppure le soluzioni tampone delle “unità pastorali”, ossia l’aggregazione di più comunità parrocchiali con, alla guida, un solo prete quando esse sono piccole, o con una équipe di sacerdoti quando ci si riferisce a parrocchie più consistenti.

Queste soluzioni tampone, sono pur opportune ma non risolutive. Si pensa quindi con più frequenza e più determinazione a dare più responsabilità ai laici, al sacerdozio di preti sposati (il primo passettino a questo proposito lo si è fatto con l’introduzione dei diaconi che però, attualmente, svolgono compiti ancora marginali) e soprattutto al sacerdozio esteso alle donne.

In questa prospettiva in veloce evoluzione mi pare di scorgere anche qualcosa di provvidenziale. E di questo credo di avvertire già l’inizio, ossia il liberare il sacerdote sempre più velocemente e radicalmente da ogni compito organizzativo, per offrirgli la possibilità di assumere sempre più il ruolo di profeta, da un lato facendogli celebrare i divini misteri e dall’altro riservandogli il compito di chi annuncia la proposta a livello evangelico, lasciando invece ai rappresentanti della comunità le altre incombenze di ordine organizzativo e di gestione. Se al prete si tolgono gli infiniti incarichi che oggi gravano sulle sue spalle, “un prete per campanile” sarebbe già quasi di troppo!

Questi orientamenti, che qualcuno potrebbe pensare innovativi e forse rivoluzionari, non sono più tali perché non si tratta che di ritornare alle origini quando nelle prime comunità cristiane c’era chi provvedeva alla gestione della carità, che è il più importante impegno della parrocchia. Ma anche, ritornando indietro soltanto di cent’anni, c’erano le fabbricerie che avevano in mano la gestione della parrocchia.

Ho l’impressione che più si libera il sacerdote dalle pastoie burocratiche, più lo si aiuta ad assumere il ruolo dell’annunciatore, di chi propone i valori più alti, lasciando ad altri il compito della gestione pratica, che spesso rende odiosa la figura del sacerdote.

18.01.2014

La dottoressa Corsi

Attendevo da un paio di settimane con trepidazione questa telefonata, e purtroppo ora mi è giunta: la dottoressa Francesca Corsi, funzionario di alto livello del Comune di Venezia, è morta.

A motivo dei Centri don Vecchi in questi ultimi vent’anni il rapporto con questa donna è stato frequente, stretto e quanto mai collaborativo. Ho sognato e mi sono battuto con fatica e molta determinazione per la soluzione che col tempo è stata identificata nel Centro don Vecchi a favore degli anziani, ma ero sprovvisto di esperienza e conoscenza degli ingranaggi degli enti pubblici, mentre lei, che ha speso una vita all’interno di queste realtà, intelligente e determinata com’era, ha condiviso con me e mi ha offerto frequentemente soluzioni determinanti a livello legale e burocratico che da solo non sarei mai stato in grado di risolvere.

La dottoressa Corsi in questi ultimi vent’anni, all’interno dell’assessorato alle politiche sociali del Comune di Venezia, ha ricoperto ruoli di alto livello nel settore che riguarda gli anziani e i disabili, io l’ho conosciuta sui banchi della scuola quando insegnavo alle magistrali e lei era ancora una ragazzina.

Nacque, fin da allora, un rapporto di simpatia e di condivisione. Forse sono stato un docente anomalo, perché ho sempre tentato di passare valori piuttosto che aride nozioni dottrinali. Onestamente penso che i miei alunni abbiano colto e condiviso il messaggio di solidarietà in cui ho sempre creduto e che rappresenta il cuore del messaggio evangelico.

Francesca, da quanto ho potuto riscontrare, fu una delle alunne che recepì in maniera più seria e sostanziale questa proposta e l’attuò in maniera del tutto personale attraverso un suo itinerario spesso sofferto, ma sempre coerente.

Sulla testimonianza umana e sociale della dottoressa Corsi spero di ritornare con più calma e serenità. Ora la notizia della sua scomparsa mi turba troppo, anche perché sento rimorso per non averle detto più spesso e più apertamente il mio affetto, la mia ammirazione e la mia riconoscenza. Un sentimento di pudore e di rispetto reciproco ha sempre caratterizzato il nostro rapporto, tanto che io stupidamente le ho sempre dato del lei, nonostante le volessi tanto bene e condividessi tanto a fondo il suo modo di operare e la sua reale dedizione al prossimo, dedizione che superava in maniera abissale il suo dovere professionale.

Chi mi ha annunciato la morte della dottoressa Corsi, mi ha riferito che lei ha chiesto ad un suo collega a cui era legata da sentimenti di stima e di condivisione, che fossi io a celebrare il suo funerale. Questo mi assicura che l’intesa fu vera e profonda, nonostante il diaframma di un pudore che, soprattutto da parte mia, ha impedito un rapporto più caldo ed affettuoso.

Ora la piango, ma sono certo che la comunione di ideali con questa bella creatura mi aiuterà nel mio impegno a favore degli anziani e che assieme potremo fare ancora qualcosa di buono per i fratelli più fragili.

17.01.2014

Un vecchio problema irrisolto

Qualche giorno fa, come avviene di frequente, un’impresa di pompe funebri mi ha fatto prelevare da parte di alcuni dipendenti per andare nelle sale mortuarie dell’Ospedale dell’Angelo, a dare la benedizione ad un concittadino defunto, prima che il legno coprisse per sempre il suo volto. E’ questo un servizio ormai poco gradito da parte dei miei colleghi perché dicono di non avere tempo, mentre io – un po’ perché sono ancora un prete vecchio stampo ed un po’ perché so che molti concittadini lo gradiscono – lo faccio volentieri.

In macchina con me c’erano tre necrefori, mentre uno aspettava all'”Angelo”. Attualmente le norme entrate in vigore il novembre scorso, prevedono che ad ogni funerale siano presenti quattro addetti con una preparazione specifica. Quasi tutte le imprese si sono adeguate a questa norma.

Mentre eravamo in macchina, uno di questi, che aveva in famiglia una qualche difficoltà, mi chiese se i sacerdoti usano ancora visitare e benedire le famiglie. Come sempre, da cosa nasce cosa, risultò che nessuno dei tre, abitanti in parrocchie diverse, aveva mai visto un prete a casa loro, pur abitandovi da molti anni.

Ora i preti son pochi ed ogni parrocchia quasi sempre ha soltanto il parroco, quindi una visita programmata a tutte le famiglie risulta obiettivamente difficile, a parte che con qualche sacrificio io sono riuscito, per ben 35 anni di seguito, a visitare tutte le mie 2400 famiglie. So che qualche parroco lo fa ancora, ma credo che in ogni caso sia assolutamente necessario che almeno nell’arco di due o tre anni il parroco incontri tutte “le sue pecore”. Questo da un lato perché non rimanga in parrocchia un “illustre sconosciuto” e dall’altro perché, lasciandosi assorbire totalmente dal piccolo gruppetto dei “soliti devoti”, non arrischi di immaginare che tutti la pensino come loro, mentre le cose stanno ben diversamente. Se poi ogni parrocchia mandasse in ogni casa un pur modesto mensile informativo e formativo – anche questa una cosa possibile – vi sarebbe almeno un dialogo in qualche modo aperto ed una qualche presenza nel territorio.

Io non sono più aggiornato sulle strategie degli uffici di curia e dei vari consigli vicariali, presbiteriali o pastorali, e dei progetti relativi, però ritengo che questa presenza e questo minimo di dialogo sia assolutamente indispensabile, altrimenti lo “Stato d’anime”, se qualche parrocchia ce l’ha ancora, invece delle quattro, cinquemila “anime”, lo si può ridurre a tre, quattrocento “parrocchiani”.

Perché dico queste cose? Si domanderà qualcuno. Perché i vecchi devono almeno essere la coscienza critica della comunità; anche questo è un servizio ed un atto d’amore per i colleghi e per le comunità relative.

04.01.2014

Autonomia solidale

La cautela non è mai troppa in qualsiasi occasione e di qualsiasi cosa si stia parlando. Quando si è costruita la famosa “Torre Maya” che doveva diventare finalmente il nuovo ospedale – che poi con mia sorpresa si chiamò “L’Ospedale dell’Angelo” – scoprii che nel mondo imprenditoriale e dell’economia, fra i tanti modi per finanziare un’opera, c’è anche quello della “finanza di progetto”.

In realtà, quando si parla di questo tipo di contratto, lo si definisce con due parole inglesi, che per me che ho studiato solamente un po’ di francese durante la guerra, suonano come qualcosa di misterioso e di sorprendente. Comunque si tratta di una soluzione che permette di costruire un’opera grandiosa a buon mercato.

Il direttore della Ulss di allora, il dottor Antonio Padoan, presentò questo marchingegno finanziario come qualcosa di estremamente conveniente e risolutivo, anzi come qualcosa di prodigioso. Ora però che i cittadini hanno “licenziato” Galan, che era “la spalla” dell’ideatore dell'”Angelo”, sostituendolo con il governatore Zaia e che i rapporti tra Forza Italia e la Lega non sono idilliaci come allora, pare non solo che la soluzione di “finanza di progetto” non sia più per nulla conveniente, ma che sia perfino svantaggiosa e che l’aver costruito un’opera bella sia contro gli interessi della nostra società. Ho sentito almeno un paio di volte Zaia fare affermazioni del genere nei riguardi del nuovo ospedale.

La politica del nuovo governatore del Veneto pare più pragmatica, cosa comprensibile in un momento di grave crisi economica. Mi spiace però che il rifiuto del tipo particolare di finanziamento col quale s’è costruito l'”Angelo” finisca per stroncare anche l’architettura dell’unica opera di pregio che dall’ottocento in poi s’è costruita a Mestre.

Che l'”Angelo” sia costato tanto; che si sarebbe risparmiato facendo un debito con le banche, non discuto; però che si rifiuti l’unica struttura bella esistente a Mestre come una disavventura, mi dispiace davvero. Se dovessi accompagnare qualcuno che volesse visitare la nostra città, non saprei proprio dove portarlo se non a vedere la “Torre Maya” dell’Ospedale dell’Angelo. Col suo bel giardino pensile tra le dolci e leggiadre collinette trapunte di cipressi e i suoi due laghetti, è veramente bella.

Caro Zaia, lei avrà tutte le buone ragioni di questo mondo per risparmiare, però lasci stare questa unica “perla” tra le tante brutture e volgarità di Mestre, anche se fosse stata costruita da un dissennato sperperatore di pubblico denaro!

26.12.2013

I rifiuti d’uomo

Ci risiamo! Ancora una volta pare che nessuno voglia i rifiuti vicino a casa sua!

Quella dei rifiuti è diventata nel nostro Paese una telenovela o – per adoperare un’immagine propria dei vecchi tempi della mia infanzia – la “fiaba del sior Intento”.

Ricordo che quando ero bambino chiedevo a mio padre, che era bravo a raccontare favole, di raccontarmene una e lui non aveva né tempo né voglia di farlo. Allora mi diceva: «Ti racconto la favola del sior Intento, che dura poco tempo; vuoi che te la racconti o vuoi che te la dica?». Sia che gli rispondessi di raccontarmela, o che gli dicessi dimmela, lui ripeteva monotono: «Questa è la favola…» terminando con il medesimo finale.

Quella dei rifiuti è diventata una questione nazionale, in cui brilla in negativo, una volta ancora, in particolare Palermo, ma soprattutto Napoli e dintorni. Ora poi è spuntata, sempre nel meridione, la vicenda della “Terra dei fuochi” nella quale sono finiti i peggiori residuati delle fabbriche del nord con la complicità delle amministrazioni e degli abitanti del sud. Anche questa gente, dopo aver intascato alla chetichella i soldi, vuole liberarsi, a spese degli altri, di questi incomodi rifiuti.

Questa tragica vicenda, in cui si incrociano l’avidità, la spregiudicatezza e l’egoismo del nord, con la passività e la connivenza del sud, si ripete, purtroppo, anche a “casa nostra” per quanto riguarda “i rifiuti d’uomo”. Quando ero a Mestre la gente di via Querini non voleva i poveri di Ca’ Letizia o quelli della mensa dei frati. Quando si è parlato della “cittadella della solidarietà”, prima in viale don Sturzo, poi a Favaro, si sono rifiutati i poveri. Ora che la Curia col Comune ha pensato ad una ventina di posti letto a Marghera per chi dorme all’aperto, giunge lo stesso rifiuto.

E’ veramente tragico che un mondo che, per il suo egoismo, produce come non mai rifiuti industriali ma soprattutto “rifiuti umani”, non voglia farsi carico delle conseguenze del proprio egoismo e della propria meschinità!

18.12.2013

Il messaggio di Papa Francesco

Ho detto e scritto più volte che i discorsi di Papa Francesco mi fanno tanto felice perché sono brevi, comprensibili, incidenti e soprattutto liberatori, perché danno una lettura della vita tanto positiva e sono pregni di una fiducia totale nella paternità e nella comprensione del Signore nei nostri riguardi.

Per carità! Anche gli altri Papi che hanno preceduto Papa Francesco han detto cose belle e sagge, ma per trovare la “perla preziosa” bisognava passare al crivello una montagna di parole e di concetti, mentre il Papa attuale pare che abbia in mano un cesto di fiori di ogni specie, uno più bello dell’altro, ed ogni volta che si affaccia al balcone della basilica di San Pietro te ne offra uno con dolcezza e accompagnato dal sorriso e dal suo affetto paterno.

“L’Osservatore Romano”, il giornale della Santa sede, questi messaggi li riporta integralmente, “L’Avvenire” li riassume, i settimanali e i mensili cattolici ne danno notizia e la televisione riporta spesso le battute più felici, però penso che la gran massa dei nostri concittadini li ignorino e non riescano a coglierne la verità profumata di calda umanità. E’ anche vero che la mimica, la voce, lo sguardo e gli ammiccamenti del Pontefice li arricchiscono e li rendono ancor più gradevoli, comunque sono belli ed incoraggianti anche leggendone solamente il testo. E’ un vero peccato che i nostri concittadini non ne possano trarre profitto.

L’idea di offrirli ad un pubblico più vasto è venuta ad Enrico Carnio, mio caro amico e collaboratore liturgico, che normalmente legge tutto, o quasi, quello che il Papa dice. Un giorno, parlando di questo argomento, mi fece la proposta: “Perché non li riassumiamo e li offriamo ai fedeli della nostra città?”. L’idea mi parve brillante e quanto mai opportuna.

Tradurre però questa intuizione in realtà si è dimostrato molto più difficile di quanto pensassimo. Il lavoro di riassumerli, inserirli in computer, impaginarli, come distribuirli e soprattutto il costo, si dimostrarono ostacoli assai consistenti.

Trovammo disponibile un collega di lavoro del mio amico, che è stato uno dei ragazzini di quando ero a San Lorenzo, ed un grafico de “L’Incontro” – però impegnato fin sopra i capelli – che si è entusiasmato all’idea.

Finora abbiamo approntato bozze, progetti sperimentali, però non abbiamo ancora scoperto la strada giusta; speriamo tuttavia che prima o poi riusciremo ad imboccarla

Confesso però che provo un po’ di tristezza che il mondo cattolico della nostra città sia così inerte, apatico, mentre con un pizzico di buona volontà potremmo portare in ogni casa il volto e la parola di questo Papa che, ogni giorno di più, si dimostra un dono tanto prezioso da farci dire che il buon Dio non poteva donarci di meglio.

Comunque spero che ce la faremo!

17.12.2013

L’Avapo

La giovane e intraprendente presidente dell’Avapo, dottoressa Stefania Bullo, anche quest’anno ha avuto l’amabile gentilezza di invitarmi alla cena che ogni anno organizza presso il Seniorestaurant del “don Vecchi” per i volontari della sua associazione. Io sono abitualmente – e per di più per natura – schivo, motivo per cui mi costa sempre aderire a questi inviti, però, avendo una grande stima e ammirazione per questa cara gente che segue gli ammalati di tumore nella fase terminale, ho aderito ben volentieri.

La serata è stata veramente piacevole; per me è una vera gioia incontrare persone che credono alla solidarietà e che, per di più, condividono la mia visione della vita e dei miei ideali. Alla cena, fornita dal catering “Serenissima Ristorazione” e servita dalle care signore che operano al “don Vecchi”, hanno partecipato un centinaio di volontari. E’ stato un incontro all’insegna della sobrietà, scelta valida per ogni tempo, ma soprattutto in questo momento di crisi e soprattutto destinata a persone che han scelto di dedicare il loro tempo libero ai concittadini che vivono la fase finale della loro esistenza. La sobrietà poi ben si coniuga anche con la signorilità per persone che cenano assieme soprattutto per dialogare e rafforzare i legami di una reciproca conoscenza ed amicizia.

La dottoressa Stefania Bullo, presidente dell’Avapo da più di un decennio, ha introdotto la serata conviviale informando i suoi volontari soprattutto sulle iniziative in atto, ed in particolare sulla collaborazione che il mondo dello sport sta offrendo con tanta disponibilità. Mentre parlava questa cara ragazza, che sta dedicando tutto il suo tempo e soprattutto il meglio delle sue energie per l’affermarsi del nobile progetto che l’Avapo chiama “L’ospedale a domicilio”, d’istinto mi veniva da confrontare l’affermarsi di questa associazione con lo stile, i progetti e gli sviluppi di quella alla quale sto dedicando l’ultima stagione della mia vita. Sarebbe ingiusto se pensassi che al “don Vecchi” non abbiamo dei collaboratori intelligenti e generosi, però ho la sensazione che noi abbiamo sviluppato poco il rapporto con i gruppi sociali che a Mestre si muovono in altri settori della solidarietà, o perlomeno della vita associativa e del volontariato.

I Centri don Vecchi crescono, sono efficienti e quanto mai operativi, però forse hanno bisogno di un maggior dialogo ed integrazione con le forze migliori della nostra città. Mi auguro tanto che ci si possa in futuro aprire maggiormente al dialogo e alla collaborazione con chi a Mestre sta portando la primavera della solidarietà.

La serata quindi non è stata solamente piacevole per aver avuto modo di incontrare tanti concittadini buoni e generosi, ma anche stimolante per la nostra Fondazione per quanto riguarda il suo rapporto col mondo esterno ad essa.

13.12.2013

La Despar

Nota della Redazione: l’accordo poi si è fatto e anzi in questi giorni s’è fatto il bis con la catena Cadoro.

E’ da tanto che non mi succede di aspettare con tanta trepidazione un incontro con i responsabili di una grandissima catena di supermercati di generi alimentari. Domani alle 12 i dirigenti della Despar mi hanno fissato un appuntamento presso il nuovissimo ipermercato che questa società ha appena aperto in via Paccagnella accanto all’Auchan.

Questo incontro ha radici – almeno per me che sono solito vivere di fretta – abbastanza lontane ed è nato dal conoscere la drammatica situazione sia di tantissimi concittadini di Mestre che di extracomunitari che sono partiti dai loro Paesi lontani sperando di incontrare da noi la Terra promessa o, forse più banalmente, l’America.

In questi giorni la stampa ci informa che la caduta anticipata della neve sui nostri monti ha fatto aprire in anticipo le piste e già una folla si sta precipitando a sciare. Le vetrine dei negozi, e soprattutto i banchi degli ipermercati, sono pieni di ogni ben di Dio. Per la città sfrecciano bellissime automobili di ogni marca. Le donne si sono adeguate alla nuova moda che me le fa sembrare “le gru” dalle gambe lunghe e sottili di Chichibio del Decamerone di Boccaccio.

Eppure, tra tanta opulenza, tanto lusso e tanto sperpero, c’è una frangia numerosa di persone che vive nell’angoscia e non sa più come tirare avanti. Al “don Vecchi” a me capita ogni giorno di vedere lo spettacolo esattamente opposto all’opulenza, ossia quello della miseria. Mentre l’Epulone della parabola evangelica gozzoviglia e veste di porpora, sui gradini della sua porta di casa Lazzaro aspetta le briciole che cadono dalla sua tavola. Ogni giorno mi capita di vedere la processione di uomini e donne di tutte le età che scendono nell’interrato del “don Vecchi” per risalire con la borsa o il sacchetto pieni di quello che i nostri magnifici volontari riescono con tanta fatica a reperire. Ogni settimana ben tremila poveri s’accontentano delle briciole del lusso e dello sperpero di chi ha soldi. Come vorrei che tanti potessero vedere quei volti tristi, mesti e rassegnati! Ora poi anche l’Europa dei ricchi ha chiuso la borsa e ha deciso di pensare solamente ai più ricchi, riducendo di due terzi gli aiuti.

Domani finalmente saprò se dopo cinque mesi di incontri e di solleciti la Despar ci concederà i generi alimentari non più commerciabili dei suoi ipermercati. Ho profonda riconoscenza verso i responsabili della Despar, perché mi par d’aver capito che questa operazione – che per i non addetti ai lavori può sembrare semplice – comporta invece difficoltà di organizzazione aziendale e sono cosciente che neanche per loro la cosa è stata facile.

Spero quindi di poter avere, prima di Natale, generi alimentari della Despar e che la sua scelta rompa finalmente il muro di gomma e di indifferenza che ha fatto dire al dirigente di un ipermercato cittadino che preferisce i soldi dei clienti alla richiesta del Papa di pensare ai fratelli in difficoltà.

06.12.2013

Don Fausto

Tutte le settimane un mio collaboratore mi porta “La Borromea”, il primo “bollettino settimanale”, in ordine di tempo, che è sorto a Mestre. La storia del periodico l’ho raccontata altre volte, però la ripeto per giustificare il mio particolare interesse per questo settimanale.

Mezzo secolo fa monsignor Vecchi, di cui ero cappellano, mi portò in Francia, Paese che allora era all’avanguardia da un punto di vista pastorale, per aggiornare la nostra attività parrocchiale su quel modello. Scoprimmo in una chiesa un “rudimentale” bollettino, ed appena tornati a casa fondammo “La Borromea”, in ricordo della campana donata alla parrocchia di San Lorenzo da parte di san Carlo Borromeo che, di ritorno da Roma, sostò nella villa di via Carducci, villa che oggi ospita la biblioteca civica.

Al mio interesse per questo motivo s’aggiunge il fatto che della “Borromea” sia oggi responsabile don Fausto Bonini, che io conobbi ragazzino quando, ben sessant’anni fa, fui assegnato alla parrocchia dei Gesuati ove don Fausto abitava con la sua famiglia. In verità leggo ogni settimana questo bollettino parrocchiale perché è un foglio eccellente sotto ogni punto di vista. Don Fausto, già direttore di “Gente Veneta”, è uno dei sacerdoti più preparati in fatto di giornalismo. Seguo poi questo “bollettino” perché posso seguire un tipo di impegno pastorale che io reputo assolutamente all’avanguardia nella nostra città.

Le iniziative pastorali di questo parroco, pur arrivato in tarda età alla parrocchia, dimostrano un intuito piuttosto raro di come oggi deve orientarsi una comunità cristiana che intende dialogare in maniera vera con i fedeli e la città.

Oggi la copertina di questo numero della “Borromea” riporta una bella foto di don Fausto e una sua triste lettera alla parrocchia e a Mestre. Il parroco del duomo informa che a metà maggio, avendo compiuto settantacinque anni, ha dato le dimissioni, che il Patriarca le ha accettate e che l’ha pregato di continuare per ora a svolgere l’attività pastorale con la delega di “amministratore parrocchiale”, un incarico che sa “di parroco azzoppato”, ossia con poteri limitati.

Don Fausto ha accettato di proseguire il suo compito con parole nobili e piene di amore verso la Chiesa veneziana che ha servito per più di cinquant’anni.

Confesso che ho letto La Borromea con tanta amarezza. La Chiesa mestrina perde uno dei suoi pochi leader che ha dimostrato di guardare al futuro e di saper dialogare non solamente con i fedeli del nostro tempo, ma pure con la città.

La Chiesa veneziana, mi pare che anche in passato non abbia mai conferito compiti sostanziali di guida al parroco del duomo di Mestre; sono state, a mio modesto parere, nomine piuttosto formali che reali. Ora non ci sono neppure quelle.

E’ vero che in linea d’aria Venezia è a un tiro di schioppo, in realtà però c’è di mezzo la laguna che per Mestre è poco meno dell’Oceano Pacifico.

25.11.2013

Il viale

Molti anni fa mi capitò tra le mani un saggio di un certo architetto Artico, persona che credo di non aver mai incontrato. Lo studio verteva sulla scelta del tracciato di viale Garibaldi; mi sembrò una specie di studio di fattibilità. Ricordo che quando lo lessi, una quindicina di anni fa, la cosa mi incuriosì alquanto perché si diceva che i progettisti che studiarono e decisero questo tracciato del viale che, partendo dalla torre, congiunge Mestre a Carpenedo, si ispirarono al viale più celebre di Versailles, la notissima residenza reale. Se fosse stato così, mi pare che le ambizioni dei mestrini fossero più che mai esagerate e che il risultato sia stato quanto mai modesto. Capisco invece un po’ di più la direzione di viale Garibaldi che secondo i costruttori doveva manifestare la tensione verso Treviso.

Non è da dimenticare che, almeno a livello religioso, la prima periferia di Mestre è costituita dalla comunità di Carpenedo, che fino al 1926 fu l’ultima propaggine, a livello religioso, della diocesi trevigiana. Quando dovettero adeguarsi alle scelte del duce, che desiderava far combaciare le diocesi con le province, ci fu una qualche resistenza da parte dei sacerdoti che avevano studiato tutti nel seminario di Treviso e perciò erano più legati a quella città che a Venezia.

Comunque, dei sogni eccessivamente ambiziosi di questi progettisti, di bello non ci sono che i tigli che ingentiliscono le case senza pretese architettoniche che fiancheggiano il viale e che a primavera offrono un profumo delicato all’unica passeggiata possibile per i mestrini. Ora però anche i tigli, spogli delle loro chiome e del loro fogliame, offrono uno spettacolo triste e malinconico, di una città che nonostante i recenti tentativi di nobilitarla con qualche ritocco parziale di arredo urbano, rimane ben povera, stretta tra l’elegante ed operosa capitale della Marca e Venezia, la morente capitale della Serenissima.

Un tempo Mestre aveva almeno il vanto di un polo industriale di prim’ordine, ora ha perduto anche questa ricchezza, perché le sue fabbriche sono quasi tutte chiuse e ridotte a macerie in una città post industriale che vive di espedienti, condannata ad un grigiore civile e commerciale e a rimanere periferia di tutto quello che esiste di più nobile e di bello.

A livello religioso, una quarantina di anni fa sembrò che la nostra Chiesa avvertisse un sussulto di vita e di autonomia, ora pare che anche da questo lato segua la sorte di questa città destinata a rimanere periferia.

24.11.2013

Non è proibito sognare

Ringrazio il Signore perché, nonostante la mia tarda età, sento ancora il bisogno di sognare e di perseguire qualche altro progetto. Ricordo bene un’affermazione del mio vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli, il quale confidava a noi seminaristi che quando aveva un progetto da realizzare ne parlava a destra e a manca, da mattina alla sera, perché era convinto che prima o poi si sarebbe imbattuto in qualcuno che gli avrebbe dato una mano per realizzarlo.

E ricordo pure monsignor Vecchi, mio parroco a San Lorenzo, che affermava che una iniziativa o una struttura non sorgono mai dal nulla per generazione spontanea, ma hanno bisogno di un’opinione pubblica, o meglio di una cultura che maturi e sensibilizzi la gente a questo problema, perché quando c’è questo supporto di ordine sociale, prima o poi qualche iniziativa troverà modo di essere realizzata.

Io, per un sogno o un progetto che coltivo ormai da qualche anno, sono allo stadio di creare opinione pubblica favorevole. Perciò mi sto dando da fare per costruire questa sensibilità perché esso abbia una qualche probabilità di vedere la luce. Ecco il progetto. A Mestre funzionano tre mense dei poveri: Ca’ Letizia della San Vincenzo, la mensa dei Cappuccini e quella dei Padri Somaschi ad Altobello. Tutte e tre funzionano bene e svolgono un servizio di alto livello sociale per la povera gente. Forse in questo momento, in cui morde più duramente la crisi, sono insufficienti; inoltre esse servono il centro di Mestre e la parte sud, mentre la parte nord della città non ha questo presidio sociale. Il mio sogno non è solo quello di servire questa parte del nostro territorio con un’altra mensa, ma pure di offrire un servizio un po’ diverso da quelli che hanno le attuali in funzione.

Io sognerei di puntare su un “ristorante” oppure su una tavola calda di carattere popolare, sempre con la dottrina di offrire un servizio a pagamento, però alla portata delle persone meno abbienti. Penso ad una struttura nella quale, convenzionandosi con uno dei tanti catering esistenti e coinvolgendolo in questa opera umanitaria, il pranzo o la cena sia preparata da questa organizzazione gastronomica al massimo per tre euro al pasto, mentre il servizio sia svolto da volontari.

Sogno inoltre che questo “ristorante” dal volto pulito e signorile non sia destinato solamente o principalmente ai mendicanti, ma che vi possano accedere singole persone o famiglie che devono lottare per arrivare alla fine del mese. Come mi piacerebbe che un operaio con moglie e con uno o due bambini, e con uno stipendio di 1200 euro al mese potesse dire ai suoi cari: «Questa sera vi porto a cena fuori!».

Per la realizzazione di questo sogno ho, come vedete, il progetto, ho individuato un terreno in cui possa sorgere ed ho perfino messo da parte qualche soldarello. Manca ancora qualcosa ed è per questo che ne parlo.

01.09.2013

Delusione!

Oggi l’amministratore dei Centri don Vecchi mi ha informato che due giorni fa sono stati accreditati sul conto corrente della Fondazione Carpinetum ventiduemila euro provenienti dal cinque per mille. Sono rimasto di stucco essendomi impegnato fino all’ultimo sangue per conquistarmeli, tanto che nel piano di finanziamento del nuovo Centro per gli anziani in perdita di autonomia avevo assicurato all’amministrazione che potevano contare sull’entrata di almeno centomila euro.

Per tutto il 2012 e 2013, ogni settimana, ho fatto un inserto su “L’Incontro”, il nostro settimanale, per invitare accoratamente i lettori a destinare il cinque per mille alla Fondazione perché in questo momento ho particolarmente bisogno di liquidità. Affermai ogni volta che il pensare ai nostri anziani meno abbienti è un sacro dovere e soprattutto insistei che i cittadini possono verificare ogni giorno e senza fatica come vengono impegnate le loro elargizioni. Sarei tentato di dire, se non suonasse a vanteria, che nella nostra città non si possono trovare delle strutture d’ordine solidale così signorili, così attente alla dignità dell’uomo e soprattutto con rette così basse come quelle praticate al “don Vecchi”. Potremmo sfidare tranquillamente chiunque a dimostrarci che nell’Italia settentrionale riescono a trovare strutture simili alle nostre con rette inferiori.

Tante volte ho ribadito tutto questo ai lettori de “L’Incontro”, che pare siano ventimila; ora mi ha amareggiato il fatto che questa mole di lettori ci abbia voltato le spalle ed abbia preferito altre realtà, pur benefiche, però non al livello delle nostre.

L’amministratore mi ha riferito che quella cifra del cinque per mille riguardava probabilmente il 2011, quando la nostra richiesta non era stata tanto accorata e tanto assillante, quanto invece quella che ho fatto nel 2012 e nell’anno corrente; questo mi ha rappacificato un po’.

Temo che i mestrini non si siano ancora bene accorti che i Centri don Vecchi sono uno splendido fiore all’occhiello della nostra città e che per ottenere questi risultati bisogna che tutti concorrano con la destinazione del cinque per mille, perché questa soluzione la possono fare senza che nessuno “metta le mani nelle loro tasche!”.

22.08.2013