Un libro che mi ha fatto conoscere meglio don Milani

Un altro dei miei amici mi ha regalato ultimamente forse l’ultimo volume su don Milani. Il fatto che sia stato pubblicato dalla Feltrinelli, l’editrice che non amoreggia punto col mondo clericale, mi ha messo subito curiosità sul suo contenuto.

Il volume, sulla cui copertina c’è una foto assai sgranata di don Lorenzo Milani, porta il nome dell’autrice di un bianco sporco, impresso sul rosso della tonaca del prete fiorentino e, con lo stesso carattere, ma di un bianco latte, il titolo molto emblematico: “Non so se don Lorenzo”. Nell’ultima di copertina c’è la spiegazione, un poco ipocrita e falsa, del titolo misterioso: “Se mi domando cosa avrebbe detto don Lorenzo da vivo leggendo queste pagine, mi viene subito voglia di strapparle”.

Adele Corradi, l’autrice, non so per quale motivo ha incontrato don Milani. E’ rimasta soggiogata dalla sua personalità, gli volle profondamente bene e rimase con lui tutto il tempo che aveva libero dal suo insegnamento di professoressa nella scuola di Stato.

Questa insegnante ha uno strano modo di narrare i suoi rapporti col priore di Barbiana, nella sua quotidianità e a fronte degli eventi che contrassegnarono la sua breve esistenza. Questa donna racconta in brevi capitoletti, in maniera assai leggera, da creatura che amava e stimava in maniera assoluta questo prete “messo in esilio” dal suo vescovo perché scomodo ed originale.

Il modo di raccontare è tipicamente femminile, tutto preoccupato di annotare situazioni, reazioni, prese di posizione, tanto da sembrare minuzioso e quasi pettegolo. Il volume facile a leggersi, anche perché non affronta problematiche difficili inerenti alla personalità di don Milani, mi è tornato utile perché nel mio animo ha smitizzato questa persona che ormai nell’opinione pubblica è diventato tanto emblematica, poco umana e al di fuori dalla normalità.

Il don Milani domestico, quello di tutti i giorni, che deve affrontare beghe, piccole gelosie, momenti di sconforto o di rabbia, stanchezza e sconforto, è ben diverso dalla figura quasi epica in cui l’opinione pubblica l’ha collocato.

La lettura mi ha offerto un volto più umano e fuori dal mito che in pochi anni ne ha fatto un eroe ed una bandiera.

Confesso che questa lettura mi ha anche aiutato ad accettarmi, con tutte le mie debolezze e i miei limiti, le mie cadute di tono e a capire che vale la pena di perseguire un’utopia, degli ideali, senza diventare o pretendere di essere personaggi leggendari, invincibile e senza debolezze e miserie. Il dovere della coerenza e della testimonianza non esige eroismo e santità su tutti i versanti.

Spero che chi mi sta accanto riesca ad accettarmi come questa donna ha accettato, ammirato ed amato, il don Milani feriale.

Nomine in Curia

Credo che tutti noi preti della Chiesa veneziana in questi ultimi tempi abbiano seguito, più per curiosità che per vero interesse, la nomina dei diretti collaboratori del nostro Patriarca.

Ricordo che quando è arrivato il patriarca Scola, si diceva che avrebbe “messo finalmente in riga” il clero veneziano, clero che si è sempre ritenuto indipendente ed individualista.

Io a quel tempo ero un po’ preoccupato perché, come sempre non troppo amante dei convegni e dei pontificali, ogni volta che avevo qualche pretesto, li disertavo bellamente. Ho continuato come sempre e non è successo nulla, non sono diventato monsignore, ma neanche ho ricevuto provvedimenti particolari. Il nostro clero, che non credo sia peggiore di quello delle diocesi vicine, forse più disciplinato ed ossequiente, è sempre rimasto uguale a se stesso nonostante che sulla cattedra di san Marco si siano avvicendati vescovi tanto diversi. Ricordo i cardinali Piazza, Agostini, Roncalli, Urbani, Luciani, Cè, Scola, ma credo che il nostro clero, tutto sommato, libero e fedele, non abbia cambiato più di tanto. Monsignor Agostini, forse più degli altri, ha tentato di ridurre ad una disciplina più rigida, ma credo con scarsi risultati.

Ora mi hanno riferito delle nomine, pur provvisorie. Pare che il Patriarca abbia riconfermato i vecchi “ministri”, eccetto il suo vice, ripescato dal clero in pensione nella figura di monsignor Ronzini, mio cappellano nei tempi difficili della contestazione del sessantotto.

Per me il ricordo di quei tempi, a tutti i livelli, non è tra i più felici della mia vita. Entrato in parrocchia nel tempo della più radicale contestazione, con la nomina di conservatore, come sempre ho tirato diritto e non ho fatto nulla per scrollarmelo di dosso, rimanendo fedele alle mie convinzioni, però mi sono trovato terribilmente solo.

Anche i collaboratori più diretti, che essendo giovani subivano più di me le mode di pensiero allora in voga, hanno trovato giusto non darmi un appoggio completo. La nomina di mons. Ranzini a “vicario ad omnia”, ossia delegato a rappresentare il superiore in ogni questione, mi ha fatto riemergere il ricordo di quei tempi difficili nei quali ho sofferto, ho lottato, sono stato preoccupato di sbagliare, ma sono sempre stato fedele alla mia coscienza, perché l’ho sempre ritenuta “la mia padrona di casa”.

La storia mi ha dato totalmente ragione riconfermandomi che bisogna diffidare delle mode e fidarsi invece dei propri convincimenti profondi.

Ora sono vecchio, ma voglio continuare nella direzione di tutta la mia vita, perché, come il padre dei Maccabei non vorrei, nella mia canizie, dar scandalo discostandomi da ciò che mi detta la mia coscienza.

Collaboratori “speciali”

Indro Montanelli ha scritto che un giornalista non può dirsi tale se, almeno una volta, non sia stato denunciato in tribunale per un suo qualche scritto.

Io non sono un vero giornalista per mancanza di preparazione e per mancanza di genio, non lo sono neanche perché, secondo il canone di Montanelli, non sono mai stato portato in tribunale a motivo di qualche mio scritto. Però devo ammettere che poco ci è mancato.

Ricordo la minaccia di un ammiraglio di marina in pensione, presidente della Croce Rossa, che mi ha minacciato di denuncia perché in un mio racconto natalizio, che aveva come schema di fondo la famosa poesia della nostra infanzia in cui si ritmavano col battere delle ore dell’orologio del campanile di Betlemme, i rifiuti di dare alloggio a Giuseppe e Maria partoriente.
Evitai la denuncia pubblicando una rettifica.

La cosa si è ripetuta quattro, cinque volte durante il mio mezzo secolo di interventi sulle pagine di diversi periodici; ora era il mondo civile, ora l’ecclesiastico, che si sentivano pizzicati. L’ultima mia avventura in questo settore è stata quella delle assistenti sociali.

Qualche giorno fa, pensando a questo incidente di percorso, mi è venuto da pensare che proprio queste professioniste dell’assistenza sociale dovrebbero darmi un pubblico riconoscimento piuttosto che una rampogna, perché mi ritengo e sono un loro benefattore. Infatti una settimana si e un’altra si, mi capita di incontrare ai magazzini del “don Vecchi” qualche personaggio particolare, un volontario che mi aspetterei di incontrare piuttosto a Ca’ Letizia, all’asilo notturno o alla mensa dei frati, piuttosto che da noi.

Quando chiedo da dove viene questo volontario “fuori serie”, puntualmente mi si risponde: «Ce l’hanno mandato le assistenti sociali del Comune o del tribunale per il reinserimento sociale o per scontare una pena alternativa». Ai magazzini credo che almeno una decina di questi personaggi si alternino. Le nostre associazioni di volontariato sono diventate ormai il “rifugium peccatorum” di questi concittadini in disagio.

Credo che quelle assistenti sociali abbiano capito che da noi non si dice di no e quindi le aiutiamo a sbrigare il loro compito e a rendersi meritevoli verso i loro superiori.

La cosa in verità non mi dispiace perché anche questa è carità. Ho la sensazione che i nostri “collaboratori speciali” si trovino bene e possano anche beneficiare di ciò di cui si occupano.

Il primo germoglio di “Aquileia due”

Don Gianni, “nipote” in linea di successione nella parrocchia di Carpenedo, qualche giorno fa mi informò che per San Marco sarebbe andato a Villa Flangini ad Asolo per discutere con i collaboratori della parrocchia sugli indirizzi pastorali da intraprendere.

La cosa mi fece molto piacere perché don Gianni mi ha anche detto che sarebbe salito alla splendida villa asolana con una sessantina di collaboratori. Il fatto che una comunità cristiana, e per di più la comunità in cui ho fatto il parroco per 35 anni, facesse cose del genere, mi ha fatto quanto mai felice.

In queste ultime settimane s’è fatto un gran parlare di “Aquileia due”, ossia del convegno delle chiese del Triveneto che si sono riunite in quell’antica sede vescovile per rilanciare il messaggio cristiano e per attuare la tanto invocata rievangelizzazione delle nostre genti.

Io ho letto gli interventi, le analisi, le indicazioni, ma appartenendo alla categoria dei san Tommaso moderni, non credo se non metto il dito sulle iniziative concrete. Penso che don Gianni della parrocchia di Carpenedo, che porta sessanta collaboratori a discutere, a pregare e a stare insieme per dare risposte alle attese della gente di oggi, sia il primo germoglio che mi è dato di scorgere di questo tanto conclamato convegno.

La notizia del giovane parroco da un lato mi ha fatto sognare che la villa riprenda la funzione per cui ho tanto lavorato e sacrificato e non continui nella sua amara decadenza; dall’altro lato mi ha fatto rivivere un’esperienza stupenda ed esaltante di mezzo secolo fa. Ogni anno infatti, con monsignor Vecchi, salivamo ad Asolo, nella villa dei Coin, per programmare l’attività parrocchiale. Erano due giorni di discussioni appassionate che non potevano non portare frutti significativi.

Una volta acquistata l’ex villa Rossi, restaurata e ribattezzata in “Villa Flangini”, perché antica dimora del Patriarca veneziano cardinal Luigi Flangini, con don Adriano, don Gino e don Marino, in quella villa abbiamo continuato nella ricerca di un aggiornamento pastorale, assolutamente necessario se si vuole che la parrocchia cammini con i tempi.

La crescita e il rilancio cristiano è fortunatamente ancora possibile, ma a prezzo che si voglia lavorare, sudare e sacrificarsi per la “causa”.

Un funerale valdese

Qualche giorno fa mi è giunta una richiesta insolita da parte di una impresa di pompe funebri del Cavallino. Mi si chiedeva la chiesa per un servizio funebre, dicendo però che i famigliari del defunto, che apparteneva ad una chiesa protestante, avevano un loro sacerdote. Acconsentii volentieri, pensando che oggi non ci siano remore di sorta, in un tempo in cui le Chiese di matrice cristiana si rifanno allo splendido principio dell’ecumenismo.

Di primo acchito, in rapporto a questa insolita richiesta, mi tornò a memoria il clima bellicoso tra “protestanti” e “papisti” nella vecchia Inghilterra, di cui avevo appreso l’animosità dalle lontane letture dell’autore inglese Bruce Marshall.

Ricordo il clima rovente descritto da questo autore, il quale forse aveva aggiunto, in proposito, colore nei romanzi “Il miracolo di padre Malachia” o in quello, ancora più avvincente, “Ad ogni uomo un soldo”. Non son passati che cinquant’anni, ne è “corsa, fortunatamente, di acqua sotto i ponti!”.

Qualche minuto prima delle undici, ora fissata per il funerale, mi si presentò una giovane signora, che io pensai fosse la moglie o la figlia del morto, che mi disse, in maniera spigliata e disinvolta: “Sono la pastora della Chiesa valdese che officerà il servizio funebre”.

Avevo deciso di rimanere in chiesa per cortesia, ma anche con un pizzico di curiosità nei riguardi della “concorrenza”. Il fatto che fosse “pastora” e per di più valdese, mi incuriosì ulteriormente. I “fratelli valdesi” sono i più critici nei riguardi della Chiesa cattolica e i più spinti nella riforma religiosa.

La pastora si tolse la giacca ed indossò una tonaca nera molto abbondante, con due corti nastri bianchi che scendevano dal collo. Il rito fu molto semplice: il saluto, una breve lettura ed un sermone – che non ho sentito bene perché sono anche sordo – che comunque credo non si sia allontanato di molto dalle solite prediche che pure io faccio. I fedeli non erano moltissimi, come sempre, e non molto partecipi, pure come sempre.

Avevo appena letto una riflessione del prete friulano che auspicava il sacerdozio anche per le donne e la presa di posizione del Papa che, qualche giorno fa, ha chiuso definitivamente a questo riguardo. Io mi astengo da giudizi e da auspici, ma ritengo che, prima o poi, ci arriveremo anche noi. Forse però sono cose da Concilio Vaticano Terzo.

Inspiegabili vergognosi ritardi per via Orlanda

Un giorno si e un altro si telefono all’architetto Zanetti, il tecnico che ha progettato il “don Vecchi” di Campalto, per sentire se sono arrivati i permessi per mettere in sicurezza l’entrata e l’uscita in via Orlanda per gli anziani del “don Vecchi 4”. Da sei mesi gli ottanta anziani che vi abitano rischiano la vita per il traffico forsennato di via Orlanda, checché oggi ne dicano i vari comitati di Campalto, che stranamente non vogliono più la via Orlanda bis perché sono tanto preoccupati che lo Stato spenda soldi.

E’ la prima volta nella mia vita che incontro degli italiani preoccupati che lo Stato non sperperi, tanto che sarei tentato di informare questi concittadini così zelanti, che io conosco ben altri motivi ed enti che sperperano inutilmente denaro pubblico, non lo faccio solamente perché non vorrei incorrere nello sdegno di altre categorie, oltre quella benemerita delle assistenti sociali.

L’avvocato Bergamo, assessore alla viabilità del Comune di Venezia, mi ha scritto anche oggi che ogni giorno sollecita l’Anas a dare i permessi prescritti. La cosa mi pare inverosimile perché il giorno dopo che abbiamo scoperto la scritta “Centro don Vecchi” è piombato un agente dell’Anas a intimarci di coprirla immediatamente, altrimenti ci avrebbe dato la multa. L’Anas quindi pare vada a corrente alterna.

Sono andato personalmente dall’assessore Bergamo e dal direttore dell’Anas, ambedue con estrema cortesia mi hanno dichiarato la loro disponibilità a fare quanto possibile per un intervento tampone che in qualche modo avrebbe messo in maggior sicurezza l’entrata e l’uscita in via Orlanda degli anziani del “don Vecchi”, ma chiedendo, con molta franchezza, che la Fondazione si assumesse il peso maggiore del costo, dato che ambedue gli enti non avevano assolutamente disponibilità finanziarie. Per la pista ciclopedonale che, sola, permetterà ai residenti di non rimanere rinchiusi in una prigione dorata – ma sempre di prigione si tratta – hanno rimandato la soluzione a tempi migliori.

Pur con amarezza, abbiamo accettato questa soluzione, ma passano settimane senza che nulla avvenga. Sapendo che dei vecchi mettono a repentaglio la loro vita, mi sto lambiccando il cervello su che cosa possa determinare questa lentezza burocratica, perché immagino si tratterà di mettere un timbro, di riempire un modulo o qualcosa del genere, cosa di due minuti al massimo.

Ho confidato all’architetto Zanetti che ero intenzionato a fare un esposto al Procuratore della Repubblica. Lui mi trattiene, forse perché con quella gente deve trattare ogni giorno.

Oggi il presidente Napolitano è preoccupato di salvarci dall’antipolitica, ma come si fa a non essere schifati di fronte a cose del genere?

“ladri da don Vecchi”

La notizia del furto della cassaforte del “don Vecchi” ha avuto una certa eco in città. Quella di questi “fratelli ladri” è stata veramente una vigliaccata che dovrebbe farli arrossire di fronte ai “colleghi” più seri.

Vive a Venezia il mitico cappellano degli alpini che partecipò alla tragica ritirata dell’Armir in Russia, don Gastone Barrecchia. Tornato fortunosamente a casa dal dramma della ritirata del Don, scosso nello spirito, questo giovane prete che s’era salvato solamente perché i suoi soldati l’amavano profondamente e l’avevano aiutato a rimanere aggrappato alla coda di un asino, ricevette dai superiori due compiti che essi ritenevano leggeri: fare il cappellano nelle carceri di Santa Maria Maggiore ed insegnare mistica a noi giovani chierici del seminario. Due compiti assai diversi ma che don Gastone, ora centenario, intelligente com’era e com’è, ha svolto egregiamente.

So che i carcerati gli vollero bene, noi seminaristi altrettanto, perché furbescamente lo facevamo slittare facilmente dall’insegnamento barboso, per lui e per noi, della mistica, ad intrattenerci, in maniera veramente interessante, sulla sua avventura nelle steppe innevate della Russia e sulla sua vita tra i galeotti.

Don Gastone ci raccontava che in carcere l’insulto peggiore e più infamante che un carcerato potesse fare ad un altro, era quello di apostrofarlo “ladro da chiesa!”. Il ladro da chiesa era l’ultima categoria, la più scadente nella categoria dei ladri. I carcerati di Santa Maria Maggiore forse non sapevano che rubare al “don Vecchi” è ancora più facile che rubare in chiesa e quindi più infamante.

Detto questo, mi piace spiegare agli amici che, tutto sommato, ci abbiamo anche “guadagnato” dal furto. Un signore di animo nobile e generoso, saputa la cosa, ci ha donato il giorno dopo un assegno di diecimila euro. Ora cinquemila ce li rimborsa l’assicurazione ed altri diecimila ce li ha donati il benefattore e quindi abbiamo non solo recuperato, ma guadagnato!

Avvertiamo quindi il “ladro da don Vecchi” che possiamo perdonargli più facilmente, e perciò dovrà regolarsi non più con noi, ma con nostro Signore.

Dato che ne abbiamo l’opportunità, lo informiamo che ora abbiamo deciso di non tener più soldi in casa, e quindi, se vorrà continuare a tentare di rubare al “don Vecchi”, dovrà accontentarsi di vecchie signore dagli ottanta in su. Non so se ne vale proprio la pena?

Il tempo che dedichiamo a Dio

Quest’anno, in occasione della Pasqua, ho compreso, più lucidamente di sempre, che non si può ridurre il mistero della Resurrezione ad un giorno di festa particolare o ad una celebrazione eucaristica più solenne del solito, ma è necessario che il Risorto diventi una verità che canta nel cuore e che aiuta ad affrontare gli ostacoli, a portare le croci e che dà speranza e convinzione di poter giungere alla Terra promessa.

Quindi mi preoccupa assai il pensiero di una certa parte della comunità dei credenti che relega il rapporto con Dio in un certo cassetto, in determinati riti, o in momenti particolari della giornata, della settimana o della vita. Credo che una religiosità di questo tipo doni poco allo spirito, mentre penso che la fede debba offrirmi la sensazione di essere immerso nella primavera e non ridursi alla sola possibilità di cogliere un fiore, a un amore che si limita ad una parola o ad un gesto; deve offrire qualcosa, una realtà che fa cantare il cuore sia nel riposo che nella fatica, sia nella gioia che nel dolore.

Detto questo però, devo affermare che sono pur necessari dei momenti particolari in cui alimentare questa atmosfera della comunione con Dio. Sarebbe riduttivo pensare che l’amore si possa limitare ad un bacio o ad una carezza, perché è estremamente difficile che possa vivere e sussistere l’amore senza gesti e senza parole d’amore.

Quando ero bambino mi pare di ricordare che nel mio paese vigeva la consuetudine che i fidanzati potessero andare dalla fidanzata il mercoledì e il sabato e a quei tempi, non c’era il telefono o il cellulare che potesse mantenere vivo il rapporto. Non vorrei che qualcuno potesse illudersi che il momento per alimentare la fede possa ridursi alla mezz’ora di messa alla domenica o ad un paio di minuti per la preghiera la sera.

Tanto tempo fa mi capitò di leggere un libro intitolato “Un minuto per Dio”. Un sacerdote raccolse in un volume i pensieri religiosi che era stato chiamato ad offrire ai radioascoltatori durante una rubrica trasmessa di primo mattino, della durata di un minuto, che appunto portava questo titolo: “Un minuto per Dio”. Ricordo che nella prefazione questo prete faceva una considerazione alquanto amara: «Che cos’è un minuto da donare al Signore mentre Lui ce ne dona ogni giorno puntualmente e sempre ben 1440?» e poi soggiungeva, più amaramente ancora: «Spesso neghiamo al nostro Creatore e Signore anche quel misero minuto!».

San Benedetto da Norcia, uomo saggio e santo e grande pastore di anime, nella sua regola ha diviso la giornata in tre parti: otto ore per il lavoro, otto per il riposo e otto per la preghiera. Forse noi, gente del nostro tempo, siamo nevrastenici e irrequieti, bisognosi spesso dello psicologo, talvolta dello psichiatra, perché non sappiamo più gestire il nostro tempo e dosare i tempi necessari per dare le risposte adeguate ai vari bisogni della nostra vita.

Il posto dove possiamo incontrare Dio

Mentre prendo la penna in mano per dar vita alle mie esperienze di vecchio prete innamorato della sua città, della sua Chiesa e soprattutto della vita, ho ancora tutto l’animo colmo del mistero pasquale.

Quest’anno, leggendo le varie versioni degli incontri col Risorto raccontati dai diversi evangelisti, dopo un “antico disagio” che continuo a provare di fronte ad un “Mistero” che rimane mistero, cerco di cogliere quelle “porzioni” di verità che mi aiutano a collocarmi positivamente nei riguardi della Rivelazione.

Ora, ad esempio, mi sono riconfermato nell’idea che la fede nella Resurrezione non nasce da una scoperta individuale, ma è il frutto degli apporti di tanti contributi da parte dei singoli discepoli di Gesù e che anche oggi soltanto confrontandoci e mettendo assieme le esperienze spirituali di ciascuno, la comunità può cogliere il manifestarsi di Dio sul nostro cammino.

Quest’anno ho “scoperto” pure che il Risorto si manifesta sempre in momenti e in luoghi profani, ossia nello scorrere del quotidiano, nel tessuto della normalità. Non avevo mai precedentemente osservato che Gesù si fa incontrare da Maria di Magdala in cimitero, dai discepoli di Emmaus per strada, dagli apostoli, prima nella sala delle loro riunioni e quindi nel lago durante la pesca o durante la merenda in spiaggia. Il Risorto si manifesta nella vita ordinaria piuttosto che nei luoghi e nei tempi dedicati in maniera specifica a Dio, quasi a dirci che il Signore non si lascia imprigionare nella cattedrale, nel rito e nell’esperienza pregressa.

Terzo elemento su cui ha riflettuto il mio spirito durante questo tempo pasquale è che il Cristo risorto è ben lontano e diverso dall’iconografia religiosa, pur elaborato dai sommi maestri, perché il Gesù indossa, dopo la morte, “vesti” concrete e sempre esigenti la fede: penso a Cristo scambiato con l’ortolano o col viandante, o con uno sconosciuto che parla dal bagnasciuga del lago. Mi viene da pensare quasi che piuttosto di un’immagine sfolgorante di luce, Egli preferisca presentarsi nei panni di persone oneste e disponibili al dialogo e alla solidarietà.

Queste riflessioni di un vecchio prete non pretendono affatto di offrire pagine nuove di teologia, ma soltanto la sensazione che l’incontro con Dio avvenga attraverso la cronaca quotidiana piuttosto che da un certo misticismo o da uno studio che non è alla portata di tutti.

La mia Pasqua mi ha offerto quindi risposte che mi appagano e mi convincono dell’amabilità del mio Dio che ama manifestarsi nel modo in cui io riesco a riconoscerlo.

Un bellissimo gesto del nuovo Patriarca

Papa Giovanni è stato una figura tanto straordinaria che ben presto la leggenda si è impossessata della sua vita. Tra la biblioteca di volumi che sono stati scritti su questo Papa, contadino saggio e buono, m’è capitato di leggere, ormai tanti anni fa, un volumetto piacevolissimo dal titolo “I fioretti di Papa Giovanni XXIII”. I racconti erano scritti un po’ con lo stile con cui si raccontano le favole, o meglio ancora nello stile dei “Fioretti di san Francesco”: racconti, avvenimenti, fatti della vita di questo santo Papa che ebbe la felice espressione di dire alla folla dei romani che lo stavano ad ascoltare in piazza San Pietro: «Andando a casa fate una carezza ai vostri bambini e dite loro “questa è la carezza del Papa”». Già questo episodio potrebbe aprire il volume dei fioretti. Tanto che giornali e televisione, soprattutto ogni tanto, ci fanno rivedere il Papa al balcone e sentire quelle care e dolci parole.

Porto un bel ricordo di quel volume anche se i racconti erano tanto ingenui e forse profumati da un po’ di fantasia. Da tanto tempo ho confidato che mi piacciono questi racconti che mettono in luce gli aspetti belli ed innocenti della vita, tanto che quando ero parroco ho tenuto per molto tempo una rubrica dal titolo “I fioretti del 2000”, che ho poi raccolti in un volume.

In questa ottica una carissima amica, sorella di un prete che ho ammirato quanto mai per il suo zelo e la sua santità, morto una quindicina di anni fa mentre era parroco a Caorle, m’ha raccontato un episodio sul nuovo Patriarca, quanto mai edificante, episodio che mi ha dato lo spunto per un’altra rubrica se lui vorrà offrirmi materia per il proseguo del volume.

Vengo al fioretto. Il nostro nuovo Patriarca, a differenza dei precedenti, ha fatto l’ingresso in diocesi in due tempi: il primo avendo molti incontri a Mestre, visitando la casa di riposo di Zelarino, la mensa dei poveri di Ca’ Letizia, chiese, conventi ed altro ancora; la seconda a Venezia, anche qua a tappe. Tanto che m’è spuntato un pensiero malevolo nei riguardi dei colleghi che gli hanno organizzato un’entrata così massacrante, quasi volessero farlo fuori già dal primo incontro.

Ebbene, a Villa Visinoni a Zelarino, il Patriarca volle incontrare alcuni preti vecchi ed acciaccati. Tra questi v’era don Antonio Moro, mio conterraneo, che è stato docente in molte cattedre e, contemporaneamente, parroco a San Lorenzo Giustiniani. Il nuovo Vescovo, avendo saputo tutto questo e dovendo andare anche in quella parrocchia nel suo pellegrinaggio verso Venezia, non essendo previsto l’accompagnamento del parroco ormai in pensione, si inginocchiò, gli infilò le scarpe, allacciò i legacci e poi lo portò con sé nella vecchia parrocchia.

In seguito a questo “fioretto” io adesso ho con me due foto del Patriarca: una con gli stivaloni infangati alle Cinque Terre, ed una con il grembiule mentre serve a Ca’ Letizia. Queste due immagini mi potrebbero fornire materiale per altri due “fioretti”. Spero che il Patriarca prosegua su questa strada non solamente per il volume ipotizzato, ma anche perché finalmente darebbe un volto “da Ultima Cena” alla Chiesa Veneziana che tutti potremmo ammirare “in grembiule” al servizio degli ultimi.

Il naufragio della nostra classe politica

Mi piaceva quando Papa Roncalli, da studioso della storia, non solo della Chiesa, ma anche dell’umanità, ci faceva delle considerazioni ricche di sano realismo, ma anche di ottimismo, a proposito del domani. Mi confortava come egli leggesse i tempi come una tensione ascensionale e come interpretasse come passaggi obbligati, ma anche favorevoli, le anse cupe e buie degli avvenimenti. Papa Roncalli, che conosceva bene l’uomo, rimaneva tutto sommato, ottimista, perché interpretava in positivo anche le pagine deludenti della vita.

Questi pensieri mi sono di conforto in questi tempi in cui pare che la classe politica, che tutto sommato è l’espressione più significativa ed appariscente della società contemporanea, stia letteralmente naufragando sotto una frana di melma.

Da Tangentopoli in poi c’è stato un crollo continuo dei bastioni della politica. La malattia del malaffare, dell’imbroglio, dell’approfittarsi del bene pubblico è come una pestilenza latente, ma che in maniera subdola sta minando valori e persone che esprimono a livello politico il nostro Paese.

Cominciarono i cosiddetti “cattolici” della democrazia cristiana. Li ho ancora presenti sotto le accuse incalzanti dei pubblici ministeri; poi toccò ai socialisti il cui leader, Craxi, si salvò dalla galera soltanto perché fuggì all’estero.

A quei tempi pareva che i fascisti, che non erano al potere, rimanessero puliti, ma non appena ci arrivarono con Fini ci rimisero subito la faccia. I comunisti da sempre hanno ricevuto fiumi di denaro dal monopolio delle società che commerciavano con l’Europa dell’Est. Il “centralismo democratico” salvò loro la faccia, tanto che Bersani, fino a qualche mese fa, arrivò a parlare della superiorità morale del partito democratico sugli altri schieramenti politici, sennonché le ruberie del suo segretario a Milano tolsero la maschera formale anche a questo partito.

Rimaneva in piedi solamente “La Lega”, che non cessava di insultare “Roma ladrona”, sentendosi vessillifera del “candore e della verginità” del nord del Paese e della Padania in particolare. Ma in questi ultimi giorni è caduto anche l’ultimo bastione dell'”impero” dei partiti con l’incalzare degli scandali e dei pubblici ministeri.

La caduta di “Sebastopoli” ha segnato la fine di un’era. Avevo già sentito parlare della fame dei leghisti di occupare tutte le poltrone che si rendevano disponibili, a dir loro per instaurare una sana amministrazione, ma non credevo proprio che anche questo movimento fosse caduto tanto in basso.

Ed ora? Speriamo che si mandino a casa tre quarti di Parlamento e Senato, almeno saranno in meno a rubare!

Il pensiero di Teilhard de Chardin

A Natale e a Pasqua “don Loris”, il notissimo segretario di Papa Roncalli, ora arcivescovo pressoché centenario che vive a Sotto il Monte, mi manda gli auguri accompagnati da opuscoli nei quali egli pubblica memorie, scorci di scritti inediti di Papa Giovanni XXIII.

I legami tra me e “don Loris” non sono molto consistenti. Egli mi conobbe, appunto quando era segretario dell’allora cardinal Roncalli, che mi ha ordinato prete e che è stato il mio vescovo per i primissimi anni del mio sacerdozio; io invece perché egli era un brillante commentatore del Vangelo dai microfoni della RAI. Ambedue leggevamo l'”Adesso” di don Mazzolari.

In seguito lui fu alla ribalta della notorietà come collaboratore fidato del Papa e poi come colui che ne ha tenuta viva la memoria con validissime pubblicazioni, la principale delle quali “Il giornale dell’anima”.

Tutto questo non parrebbe giustificare queste attenzioni di un uomo di quella levatura verso un povero prete che di carriera “ecclesiastica” ne ha fatta veramente poca e che non è solito adulare qualsiasi tipo di autorità.

Ho l’impressione che qualcuno gli mandi “L’incontro” e questo incuriosisca il vecchio direttore del periodico “La settimana religiosa” della diocesi di Venezia.

Per Pasqua “don Loris” mi ha mandato un opuscolo che raccoglie alcune considerazioni del grandissimo “Teilhard de Chardin”, un pensatore contemporaneo che io reputo, a livello teologico, alla pari di San Tommaso d’Aquino, il padre della filosofia cristiana.

Di questo gesuita francese io avevo letto uno splendido volume che raccoglieva le sue lettere, spedite durante il tempo in cui faceva le sue ricerche da paleontologo nella steppa della Cina. In quelle lettere traspariva ricchezza di pensieri, capacità di sintesi, poesia e scienza, ma soprattutto capacità di una lettura profonda dell’orientamento della storia dell’umanità che si avvia verso il sublime e l’Assoluto. Erano, tutto sommato, lettere di abbastanza facile comprensione, piacevoli e veramente belle sotto ogni punto di vista. Invece l’opuscolo mandatomi da don Loris, in occasione della Pasqua, contiene il cuore del pensiero di questo intellettuale. La lettura mi è risultata veramente difficile. Non sono riuscito a capire questa sintesi ardita sul domani della Chiesa e del messaggio cristiano, non ho compreso come egli pensi che il cristiano di oggi possa contribuire a costruire il futuro dell’umanità.

Una cosa invece ho capito bene e ho condiviso: egli dice che la Chiesa e i cristiani sono ancora reticenti ad accettare l’evolversi dell’umanità: non basta la ricerca, il dialogo col mondo moderno, c’è invece bisogno di un’accettazione piena, ricca di fiducia verso una realtà tanto complessa, ma che comunque si muove verso questa “pienezza”, la partecipazione del mistero di Dio. Se la Chiesa non si apre a questo abbraccio totale arrischia di finire su un’ansa della storia, su un binario morto.

Questo pensiero mi è di molto aiuto nello spingermi ad amare di più il mondo attuale ed avere più fiducia nell’evolversi del pensiero umano che, nonostante tutto, è l’unico percorso che porta a partecipare alla vita di Dio.

Che emozione assistere alla “semina” del villaggio solidale degli Arzeroni!

Io sono nato in campagna e quindi porto con me tante immagini e tanti ricordi della mia terra, immagini che ormai sono parte integrante della mia persona e della mia cultura. Uno dei ricordi più “sacri” che in certi momenti mi affiorano, è quello dei contadini che con un gesto calmo e pacato spargevano la semente tra le zolle che l’aratro aveva appena preparato per la semina. Sembrava che la mia gente con coraggio, speranza e fiducia affidasse al campo quel “tesoro” che gelosamente aveva tenuto in serbo nel granaio per tutto l’inverno; in quella semente era riposto il pane per la nidiata numerosa di figli.

Qualche settimana fa, in un momento particolarmente importante, per associazione di idee, ho avuto la sensazione che un gruppetto di amici sensibili ai bisogni delle persone in difficoltà, abbia compiuto lo stesso gesto sacro della semina affidando alla Divina Provvidenza e alla generosità dei mestrini un progetto veramente coraggioso che dovrebbe essere realizzato in parte presto e in parte nel prossimo futuro.

Io non sono più presidente della Fondazione dei Centri don Vecchi; guida questa istituzione il giovane ed intraprendente nuovo parroco di Carpendo con la collaborazione di altri quattro membri del Consiglio, ma questa cara persona, con un gesto di squisita cortesia, mi invita, quasi in qualità di “padre nobile” alle sedute del Consiglio, pur non avendo in quell’organismo alcuna responsabilità.

Ebbene, in una delle recenti sedute ho assistito con profonda emozione interiore alla semina del “villaggio solidale degli Arzeroni”. Avendo il Comune assegnato alla Fondazione quasi trentamila metri quadri di superficie, essa ha deciso di progettare, per ora, e di realizzare, per stralci, questo “villaggio solidale” che si articolerebbe in questo modo:

1) Un “Centro don Vecchi” di 120 alloggi per anziani in perdita di autonomia;

2) “Il Samaritano”, una struttura comprendente una ventina di stanze per i famigliari provenienti da paesi lontani, venuti ad assistere i loro congiunti negli ospedali di Mestre e per gli ammalati dimessi dagli ospedali e bisognosi di cure;

3) Una struttura di una quindicina di alloggi in cui accettare per 3, 4 anni, a prezzi di favore, padri divorziati che vengono a trovarsi in condizioni pressoché disperate per lo sfascio della propria famiglia, affinché possano superare l’emergenza ed accogliere i figli nel tempo loro assegnato;

4) Una casa con una decina di alloggi per preti anziani ed in cattive condizioni di salute;

5) Una struttura di una quindicina di appartamenti da assegnare per 3, 4 anni a giovani sposi in difficoltà, perché possano procurarsi poi un alloggio adeguato;

6) Una decina di alloggi per disabili che scelgano di puntare all’indipendenza abitativa;

7) Un ostello di almeno 50 stanze per operai, studenti, impiegati e persone che si trovano in difficoltà di alloggio per un’accoglienza provvisoria.

Di fronte ad una scelta così coraggiosa e cristiana ho provato la sensazione di chi semina con coraggio e si fida finalmente di Dio e degli uomini di buona volontà.

A qualcuno tutto questo potrà sembrare un azzardo ed un’utopia, interpretando il termine in maniera impropria; a me è parso un seme che (se il Comune farà la sua parte e i concittadini la loro) consentirà a Mestre di presentarsi finalmente al Paese come una città di uomini veri e di cristiani da Vangelo!

L’emancipazione delle donne e il rispetto dovrebbero andare di pari passo

Io sono ben felice che il processo di emancipazione della donna continui e che le donne recuperino finalmente quell’enorme gap che si è accumulato durante millenni di storia umana. Ritengo inoltre che sia doveroso nella società ma, soprattutto, nella Chiesa, portare avanti questo processo fino a quella parità effettiva di diritti e doveri dalla quale, penso, siamo ancora ben lontani.

Questa emancipazione però, credo che ponga non solamente problemi nuovi nel rapporto col mondo maschile, ma anche e soprattutto all’interno del mondo delle donne. Questa non è certamente una scoperta di oggi (non si sta risolvendo ad esempio la difficoltà di rapporto tra nuore e suocere nemmeno con l’emancipazione, anzi!).

Le donne hanno immense potenzialità e grandi virtù ma, avendo qualche limite, non vanno esenti neppure loro da qualche difetto.

Un tempo mi ero chiesto come l’Islam abbia risolto il problema della poligamia, ossia il rapporto tra le donne, mogli dello stesso uomo. In verità credo di aver scoperto un’amara verità dalla lettura di due romanzi, uno di tanto tempo fa in cui si parlava del rapporto tra una moglie anziana ed una giovane, ed uno recente, “Mille splendidi soli” di Khaled Hosseini, il famoso autore de “Il cacciatore di aquiloni”, che parla della odierna condizione delle donne in Afghanistan, ed ho compreso che per quel mondo la donna è poco più di un animale e il marito spesso è solamente un maschio che usa, a tutti i livelli, le povere femmine.

Ma in un Paese evoluto come il nostro non so proprio, quando l’emancipazione sarà ancora più matura, come andranno i rapporti tra le donne, specie quelle in carriera.

Seguo da qualche tempo le mosse e le prese di posizione delle due pasionarie del momento, la Camusso, capo della CIGL, e la Marcegaglia, capo degli industriali. Certo si trovano a difendere interessi contrapposti, ma la litigiosità congenita tra donne credo che aggravi di molto la possibilità di trovare una intesa o perlomeno un compromesso.

Lo scontro in atto per ora mi ha rasserenato solamente sulla validità delle soluzioni portate avanti dal presidente Mario Monti. Se sono scontente ambedue mi fa pensare che Monti abbia scoperto quel giusto “mezzo” che è sempre la soluzione di ogni intesa. Per ora spero che non solo proceda l’emancipazione delle donne, ma di pari passo proceda la volontà di trattarsi meglio, perché non vorrei mai che a livello nazionale, o peggio ancora mondiale, si perpetuasse la “guerra tra nuore e suocere”!

Guardare alla primavera della Chiesa per creare le Comunità di domani!

Nella prima metà del mese di aprile il tempo è stato piuttosto imbronciato, il cielo è stato cupo, alcuni giorni sembrò che l’inverno si prendesse perfino una rivincita tanto la temperatura s’era abbassata. Un vento sferzante e freddo dal nord ci ha costretto a riaccendere il riscaldamento, poi talvolta qualche piovasco irruento e talaltra una pioggia uggiosa e continua ha creato un’atmosfera triste e malinconica.

Oggi però il sole s’è presa la rivincita e la primavera è apparsa in tutta la sua bellezza, non c’è un ramo che non abbia foglie di un verde leggero e non c’è zolla di prato che non sia fiorita. La primavera trionfa e mette serenità e letizia nel cuore.

Nel mio animo c’era stato quasi un momento di stizza perché avrei desiderato che la Pasqua avesse avuto questa cornice luminosa e trionfale e che per la Resurrezione di Cristo anche la natura e il tempo si fossero vestiti a festa ed avessero offerto una degna ed adeguata atmosfera al mistero del Risorto, evento che è tutto pregno di speranza, di bene e di gioia per la vita che sconfigge la morte.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere una pagina degli Atti degli Apostoli che descrive la comunità dei cristiani della Chiesa agli albori dell’era cristiana. Il racconto che descrive la vita dei discepoli di Gesù sembra “l’inno alla gioia” di Beethoven, tanto si avverte una profonda comunione fra i membri della Chiesa nascente che cresce beata e serena e nello stesso tempo, a livello economico, c’è notizia di totale condivisione dei beni.

Questa lettura mi dava veramente l’impressione di una Chiesa primaverile che bella e felice cammina verso il domani. Una volta ancora mi sono sentito riconfermato in quella convinzione che accompagna ormai il mio spirito: che solamente la solidarietà, sia a livello dello spirito che a quello economico, esprime al meglio le comunità che si rifanno al messaggio evangelico.

Credo che anche nel nostro tempo i cristiani debbano puntare a costruire comunità ricche di entusiasmo, di altruismo, convinte di avere il Signore dalla loro parte e perciò, anche se vivono in un mondo grigio e senza fede, possono essere il faro che indica la rotta su cui puntare, per i fratelli che navigano nella nebbia di una vita insignificante.