La Messa festiva al don Vecchi di Campalto

Nota della Redazione: questo articolo è stato scritto diverse settimane fa. Da allora la situazione, almeno per quanto riguarda via Orlanda, si è sbloccata perché finalmente l’Anas ci ha dato il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso e l’uscita del centro don Vecchi di Campalto su via Orlanda. Al più presto inizieremo i lavori che saranno a carico quasi totalmente della Fondazione Carpinetum.

Ci pareva di aver finalmente risolto il problema della messa festiva per i residenti del Centro don Vecchi di Campalto, ma ora il problema è tornato in alto mare.

Tutti ormai sanno che il Centro don Vecchi di Campalto conta 64 appartamentini; essendo però alcuni destinati a coppie, i residenti risultano 70. La parrocchia di Campalto dista solamente settecento metri però via Orlanda, che è l’unica strada che porta in chiesa, è una “strada proibita” perché senza margini e con un traffico intenso e veloce, tanto che si contano, in questi ultimi anni, più di una decina di incidenti con dieci morti. L’unico modo per recarsi in centro per partecipare al precetto festivo è l’autobus, ma anche questo mezzo è assai pericoloso perché esige l’attraversamento di questa “strada maledetta”.

Tutti conoscono le vicende veramente tragicomiche per ottenere la messa in sicurezza, almeno per quanto riguarda l’autobus. Da quasi nove mesi stiamo aspettando il permesso dal Comune e dall’Anas e, al momento in cui sto scrivendo queste note, non è ancora arrivato.

Per grazia di Dio ci è arrivato dal cielo don Valentino, un prete anziano con tanti problemi ed ha cominciato a celebrare ogni domenica, tanto che s’era formata una piccola assemblea liturgica alla quale partecipava un terzo dei residenti. Purtroppo vecchiaia e malanni hanno costretto don Valentino in ospedale ed ora pare che debba andare al Nazaret.

Enrico, il diacono “ad honorem”, ha quindi ricominciato a celebrare la “messa secca” con la liturgia della parola e le preghiere, come avviene nelle comunità sperdute nelle savane africane.

I nostri vecchi pare però che non gradiscano simili surrogati al sacrificio di Cristo e disertano bellamente questi incontri religiosi, mentre sembra che la nuova comunità raccogliticcia avrebbe bisogno di prediche abbondanti!

Ora non ci resta che pregare perché il Signore mandi un nuovo operaio nella sua messe.

Un vecchio sogno per i giovani

L’approccio col diario di don Didimo Mantiero “Il volto più vero” mi ha fatto emergere un ricordo che credevo ormai sepolto da moltissimi anni e che era riemerso una decina di anni fa per ricadere poi quasi subito nella fossa del passato.

Il discorso, almeno per me, è quanto mai interessante e potrebbe perfino offrire a qualche responsabile della diocesi un’idea per realizzare qualcosa che fosse una risposta ad un problema pastorale non solo non risolto, ma che va aggravandosi di anno in anno.

Monsignor Vecchi aveva l’umiltà, e soprattutto l’intelligenza, di accertarsi su tutto quello che facevano gli altri e desiderava verificare sul campo ogni iniziativa per controllare direttamente sia la validità, sia i tentativi per risolvere i problemi.

Molte delle realizzazioni nate nella parrocchia del Duomo di Mestre una quarantina di anni fa, molte iniziative, ebbero come matrici queste ricerche e queste prese di visione delle esperienze esistenti in altre comunità. Così è stato per il settimanale della parrocchia, per Ca’ Letizia a riguardo dei poveri, per il Rifugio san Lorenzo, per l’attività estiva dei giovani e ragazzi, o la radio locale e per tante altre iniziative.

Si diceva in quegli anni che a Bassano avevano realizzato “Il Comune dei giovani” con tanto di sindaco ed assessori eletti dai giovani. Andammo a vedere e scoprimmo una struttura enorme e poliedrica. C’era dentro di tutto: sport, cultura, ricerca religiosa, musica, divertimento, veramente un mondo dedicato ai giovani.

Capimmo fin da allora che i nostri patronati erano asfittici e non avrebbero mai potuto essere un centro di vero coagulo per la gioventù perché le parrocchie che li promuovevano erano troppo piccole e non avrebbero mai avuto la forza di sostenere un centro così complesso ed articolato.

Cominciammo a progettare, ma io fui trasferito e monsignore aveva bisogno di una spalla ideale ed operativa che gli venne a mancare. La cosa morì lì.

Una decina di anni fa proposi il progetto ai confratelli del mio vicariato, constatando che i relativi patronati erano morti o moribondi. La cosa non andò avanti perché qualcuno che apparentemente appoggiò il progetto aveva altri sogni personali ed altri non amavano imbarcarsi in un’avventura che richiedeva coraggio, soldi e personale e soprattutto appoggio forte da parte del “governo centrale”.

Ora, leggendo il “diario” del prete vicentino, pubblicato solamente da poche settimane, vengo a scoprire che l’ideatore e il realizzatore di questo progetto innovativo è stato proprio lui, don Didimo Mantiero, il sacerdote che papa Ratzinger ha definito “uno dei più grandi parroci del nostro tempo”. I profeti parlano anche da morti.

Don Didimo Mantiero

Avevo letto sul quotidiano “L’avvenire” la presentazione del un diario di un prete vicentino, nato nel 1912, che dopo essere passato per alcune piccole parrocchie della diocesi di Vicenza, terminò la sua vita come parroco a Bassano del Grappa. Leggendo la critica rimasi immediatamente incuriosito, sia perché il discorso sui diari dei preti, scritti a scopo pastorale, mi interessano perché ho modo di confrontarmi su una materia che mi impegna ogni settimana, sia perché nella presentazione si parla di un prete e di uno scritto che ha come punto di riferimento e di confronto le opere di due scrittori importanti, Bernanos, col suo “Diario di un curato di campagna” e Guareschi col suo “Mondo piccolo”, che racconta la vicenda di don Camillo, il parroco di Brescello.

Secondo motivo a suscitare il mio interesse sono le parole con le quali il Papa attuale Ratzinger, definisce don Didimo Mantiero, il protagonista di questo diario, affermando che egli è una delle figure più belle di parroco del nostro tempo e quelle di monsignor Giussani, il notissimo educatore di giovani, fondatore di “Comunione e liberazione”, che definisce questo umile parroco come un grande pedagogo del nostro tempo, che sorretto da una fede forte e generosa, affronta il difficile compito di educare la gioventù attuale.

Partendo da queste premesse avevo deciso di comperarmi il volume, sennonché un caro amico mi ha preceduto donandomelo, avendo intuito che ne sarei stato interessato.

Ho cominciato a sfogliarlo e sono stato così preso da questa figura pressoché indefinita di sacerdote, che ho avuto subito la tentazione di sospendere le letture in cui ero impegnato per leggere il racconto pulito, limpido, immediato e profumato di apparente ingenuità, ma anche di un sano realismo e di fede forte che anima il racconto di questo prete della pedemontana.

Per mettere a fuoco il “diario” e il suo autore, ne riporto una mezza paginetta, certo che presenterà in modo più autentico questo prete vero e fedele discepolo di Gesù a mia edificazione e a quella dei miei amici.

Mi misi in testa che proprio io, pretino da pochi mesi, dovevo avvicinare e convertire quella specie di bestione che era stato e continuava a essere lo spauracchio dei frati e dei preti.
Fatti i miei piani, da bravo sacerdote, li manifestai al Signore Gesù.
Andavo a trovarLo nelle ore in cui la chiesa era deserta e mi prendevo la confidenza di salire i gradini dell’altare.
Toccavo con riverenza, ma con la semplicità del fanciullo, il rosso conopeo, lo baciavo, quasi fosse stato, quello, un lembo della veste del Signore. Poi con l’indice della mano destra davo leggeri e confidenziali colpettini alla porta del tabernacolo, non so se per chiedere permesso o se per «svegliare» il Signore in riposo, e Gli parlavo così:
«Gesù, stammi a sentire. C’è un grosso affare in vista.
C’è l’anima di quel grosso peccatore da convertire: Vuoi, Signore, che facciamo l’affare? A cose fatte, io Ti lascerò l’anima del signor X e Tu mi lascerai la soddisfazione di avertela portata.

Eppure un prete così candido ha convertito una città e messo in piedi una struttura veramente grandiosa.

Due “prediche” importanti

Qualche settimana fa ho letto la pagina del Vangelo della quindicesima domenica per la mia amata comunità che sarebbe venuta a prendere luce e coraggio dall’incontro settimanale con nostro Signore.

Il Vangelo riportava il messaggio di Gesù ai suoi discepoli a cui aveva dato il compito di continuare l’annuncio di salvezza che Egli aveva iniziato durante i tre brevi anni di ministero pastorale della sua vita pubblica.

Il brano precisava con dovizia di particolari lo stile e le modalità che essi dovevano adottare: «Andate, non portatevi né pane, né denaro, né niente altro. Combattete il male, invitate la gente alla conversione». Così disse Gesù e aggiunse: «Se non vi ascoltano, scuotete la polvere dalle vostre calzature e proseguite«.

Mentre me ne stavo di fronte al foglio bianco per gli appunti, mi sono subito detto: “Questo discorso riguarda me, non i miei fedeli!” Poi compresi che era doveroso che io dicessi anche a loro quali siano i preti da ascoltare: quelli che vivono poveramente, che fanno discorsi semplici e da Vangelo, ossia che invitano alla conversione, combattono la cattiveria e stanno accanto a chi soffre.

Mi ricordai subito di san Paolo che ha detto: «Io non ho niente altro da annunciarvi se non Gesù che è vissuto e morto per la nostra salvezza». Ho l’impressione che noi preti dobbiamo recuperare la povertà di vita e di linguaggio. Ciò che è diverso (una vita brillante con vestiti firmati, automobili costose, vacanze frequenti o discorsi elucubrati ed arzigogolati) non ha nulla a che fare con Gesù e il suo messaggio.

A riprova di questo devo confessare che mi mettono in crisi positiva e mi fanno del bene solo coloro che vivono con questo stile evangelico, mentre i discorsi teologici complessi, fatti da personaggi cattedratici, non solo non mi toccano, anzi spesso destano nel mio animo una reazione contraria.

Ho sempre presente due “predicatori” e le relative “prediche” che non dimenticherò mai.

La prima: una sera stavo per mettermi a cena, quando due giovani fiorentini del “Cammino neocatecumenale” con i loro zainetti sulle spalle, chiesero di parlarmi e poi mi dissero: «Padre, siamo qui a ripeterle che Dio è misericordioso e che ha mandato suo figlio Gesù a salvarci!».

La seconda: due piccole sorelle di Gesù che condividevano, vivendo in una roulotte, la vita degli zingari, mi chiesero di aiutarle a trovare un lavoro per mantenersi, ma un lavoro umile come lavar le scale, perché avevano scelto di vivere come i più poveri.

Di tutte le “prediche” che ho ascoltato nella mia lunga vita, queste due sono quelle che ricordo di più e che mi hanno fatto più bene. Ho capito bene che Gesù una volta ancora ha ragione.

La lode a Dio dei giorni nostri è ben espressa dalla solidarietà

Dopo vent’anni di impegno per elaborare la dottrina che l’anziano ha diritto ad avere un alloggio tutto suo, che possa decidere liberamente sul tipo di vita che vuole condurre e che possa avere i mezzi economici sufficienti per gestire, senza mendicare dagli altri, la propria casa, mi pare di riscontrare che un po’ alla volta la città stia recependo questa dottrina e stia facendosi carico di questa esperienza pilota.

Imputo questo splendido e difficile risultato al fatto che le strutture dei quattro Centri don Vecchi presenti nel territorio danno credito e prova concreta a questa nuova filosofia nei riguardi della terza e quarta età.

Secondo elemento determinante credo provenga dal fatto che i giornali e le televisioni locali hanno costantemente informato positivamente sull’evolversi ed affermarsi di questa esperienza. “L’incontro” poi si è fatto carico e ragion d’essere della proposta portata avanti dalla Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi, esperienza innovativa e, per molti versi, pilota a livello nazionale.

L’informazione incalzante ha creato una nuova cultura ed una nuova coscienza riguardo la possibilità di offrire un vespero più dignitoso e gradito ai nostri vecchi.

Pensavo con soddisfazione a tutto questo quando, qualche tempo fa, sono stato invitato ad una conferenza stampa in Comune per lanciare l’iniziativa di donare ai Centri don Vecchi una vettura attrezzata per favorire il trasporto nei luoghi di cura ai nostri anziani.

Tutti i giornalisti, ma pure i rappresentanti politici, mostravano non solamente conoscenza, ma pure condivisione degli obiettivi portati avanti dalla Fondazione che gestisce i vari Centri esistenti in città.

Questa sensazione aveva cominciato ad affermarsi nel mio animo avendo constatato che la città manifestava conoscenza e consenso con una “pioggerella” lieve, ma consistente, di donazioni fatte nelle occasioni più disparate della vita dei concittadini.

Alla “pioggerella” ultimamente si sono aggiunte le eredità e le donazioni di notevole consistenza, tanto che hanno incoraggiato la Fondazione ad elaborare progetti veramente consistenti.

A me, prete, il fatto che la solidarietà abbia trovato uno sbocco così promettente, ha fatto sentire che “Il Regno” si sta affermando in maniera solida, anche se i riti sono spesso disertati, conscio dell’antica sentenza “Ubi caritas, ibi Deus”: dove cresce la solidarietà è sempre presente Dio! Oggi la lode a Dio è ben espressa dalla condivisione e dalla solidarietà.

I frutti della semina

E’ faticoso dissodare la terra, specie quando è arida, ma con la costanza, la convinzione ch’essa ha in sé i semi che possono sbocciare, e soprattutto con la fatica, prima o poi si raccolgono i frutti.

Tante volte ho confidato ai miei amici che per me la rivoluzione che rinnova il mondo e la stessa Chiesa è la rivoluzione che si rifà alla dottrina della solidarietà. Per raggiungere questo obiettivo ho speso il meglio del mio tempo e delle mie risorse e non me ne pento.

Pian piano anche a Mestre, la nostra città senza radici e con nessuna o poca tradizione, mi pare si possano cogliere dei germogli che stanno sbocciando rigogliosi, nati da semi sparsi con tanta fatica.

Tante volte m’ero lagnato perché, a differenza di altre città, facevo fatica a cogliere nella nostra dei cittadini, con risorse economiche più o meno consistenti, cittadini benestanti che si facessero avanti con gesti generosi per permettere la nascita di strutture che dessero risposte ai bisogni della gente in difficoltà.

La gente umile e senza mezzi non ha mai fatto mancare una pioggerella di offerte minute con le quali si sono fatti autentici miracoli. Basti pensare che in questi ultimi anni, con l'”offerta della vedova” sono stati costruiti a Mestre ben 315 appartamenti in strutture appositamente pensate per la terza età. Però sembrava che la classe benestante, arricchita da poco tempo, rimanesse indifferente e solo preoccupata di custodire gelosamente quanto aveva accumulato. Oggi invece posso affermare, con soddisfazione, che la semina fiduciosa sta dando frutti ed anche frutti generosi ed abbondanti, anche da parte di chi ha possibilità più o meno rilevanti.

In quest’ultimo mese un signore m’ha portato una quarantina di milioni di vecchie lire, motivando la sua offerta col riferirmi una usanza tedesca. Mi diceva questo signore che l’abito con il quale i tedeschi seppelliscono i loro morti è, per tradizione, senza tasche. Evidentemente perché né tedeschi, né cittadini di qualsiasi altra nazione possono portare con sé nulla di quanto posseggono.

Io spero che a questo motivo aggiungano quello indicato da Gesù: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Chissà che per il primo o il secondo motivo la gente sia sempre più generosa verso i fratelli in difficoltà!

Alcuni preti non vanno in vacanza

La mia rassegna stampa è molto veloce e sempre mattutina. Ogni giorno, d’estate e d’inverno, mi alzo alle 5,30, riordino la mia persona e la mia stanza, poi mi dedico alle pratiche di pietà: breviario, meditazione e lettura spirituale.

Ora sto leggendo la vita dell’Abbé Pierre, un vero “mostro” di impegno solidale in tutti i settori della vita. Io ritenevo che quest’uomo fosse diventato famoso per aver “inventato” la raccolta degli stracci per rendere autonomi i barbomi e per redimerli ad una vita sociale degna di questo nome. Apprendo invece che ha lottato per tutte le cause che interessano gli “ultimi” della società.

Alle 7 suor Teresa mi offre lo yogurt e una tazza di caffelatte. Alle 7,30 parto per aprire la “cattedrale dei cipressi”. La mezz’ora tra le sette e le sette e mezza mi serve per la colazione e per la lettura del quotidiano. Scorro velocemente i titoli e leggo si e no un paio di articoli.

Questa mattina il Gazzettino riportava una inchiesta che mi rabbuiò alquanto: pare che nel Nordest stia calando il consenso verso il Sommo Pontefice, la Chiesa fa fatica a dialogare con la gioventù, l’opinione pubblica avrebbe meno fiducia nell’istituzione religiosa, perché la vorrebbe più reattiva e più carismatica.

Non serviva che me lo dicesse l’inchiesta del Gazzettino, perché, pur vivendo ai margini della nostra società, ho modo di accorgermi di questa pesantezza, di questo fiato grosso, di questa carenza di iniziativa. Io colgo soprattutto i fenomeni più visibili e che certamente non sono determinanti.

Proprio ieri un mio collaboratore mi suggeriva di diminuire le copie de “L’incontro” perché nel periodo delle ferie tutte le chiese aprono tardi sia al mattino che al pomeriggio ed alcune poi aprono solamente alcune ore del mattino e della sera. Certamente questi segnali non sono incoraggianti, anche se sono a conoscenza che vi sono preti e parrocchie che stanno dandosi da fare per il grest, per i campi estivi, ossia sono impegnati nella “pastorale estiva”.

Purtroppo i sindacati, anche se non si sono infiltrati nel clero, hanno fatto i loro danni col promuovere i “diritti dei lavoratori ecclesiali”: orari, ferie e quant’altro. Mi pare che i protestanti ci siano arrivati prima nel fare del sacerdote un impiegato della parrocchia piuttosto che un profeta, però ho la sensazione che anche noi subiamo questa tentazione.

Tuttavia, sempre in un bollettino parrocchiale, ho letto questo trafiletto che è stato un vero antidoto e un motivo di speranza sul domani della Chiesa. Un fedele domanda al suo parroco come sta passando le sue vacanze. Risposta:

Bella domanda, anzi, domanda impropria.

Sono appena tornato dal campeggio e subito qualcuno mi ha chiesto se mi sono riposato, disteso, divertito ecc. Vorrei che a questa domanda rispondessero i cuochi che sono lì a far da mangiare per una sessantina di famelici ragazzi, e vorrei che fossero loro non solo perché abbiamo condiviso la fatica dalle 6 del mattino alla 22 della sera, ma anche perché mentre i ragazzi ed i giovani hanno gli occhi foderati di prosciutto e non s’accorgono se non dei propri bisogni, loro che sono adulti vedono e capiscono.

No, caro Massimo, niente vacanze per un prete. Semmai il lavoro cambia ma rimane sempre tanto tantissimo.

Dunque a parte la settimana in campeggio, i dodici giorni al campo scout e un’altra settimana per il campo mobile, il tempo che passo in parrocchia lo dedico agli impegni “urgenti” (soprattutto funerali, ma anche qualche matrimonio); al “custodire” Chiesa, canonica, centro; a visitare ammalati L’unica “vacanza” è che alla sera non ci sono tutte quelle riunioni che ci sono durante l’anno, e questo per me è già un sogno. Al mattino non mi pesa alzarmi presto (al campeggio ho sempre sentito i rintocchi delle campane che lungo la valle segnavano le 5 del mattino), ma alla sera non riesco a tenere gli occhi aperti e appena posso mi ritiro in tenda e prendo sonno nel giro di un minuto. E così faccio anche a casa. Sai una cosa?

Siccome in tutti questi anni non ho mai fatto ferie e da tantissimo non mi prendo una giornata di libertà, se dovessi mettere insieme tutte le ferie saltate e tutte le giornate di riposo rinunciate, potrei starmene senza far niente per … cinque o sei anni.

Un bel po’ di pausa, no?

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Penso che se tutti i preti si comportassero così, le inchieste ci riferirebbero risultati ben differenti.

Un grande gesto di solidarietà!

“L’incontro” non dispone, purtroppo, di molte firme di giornalisti famosi, comunque può contare su un certo numero di collaboratori che sono soliti “far centro” sulla coscienza e sulla sensibilità dei suoi numerosi lettori, tanto che il periodico non solo non perde copie, come ormai avviene inesorabilmente per le testate dei periodici italiani, ma riceve spessissimo complimenti dai lettori più disparati.

Il periodico è la risultante di un mosaico di tessere tanto diverse di forma e di colore, ma sempre vivaci e capaci di attrarre l’attenzione dei nostri concittadini.

Federica Causin adopera tinte delicate e dolcissime, Adriana Cercato colloca tessere il cui colore va a cercarlo nell’alto dei cieli, Laura Novello adopera tessere che sembrano palline multicolori in mano ad un giocoliere, Giusto Cavinato si impegna con tasselli dai toni caldi e familiari, Mariuccia Pinelli si rifornisce nel mondo dei sogni e trasforma la vita in poesia, Luciana Mazzer invece intesse i suoi scritti di tessere vitree sempre rosse e taglienti che pizzicano i politici con le mani nel sacco e bollano di meschinità il loro mondo fatuo e furbastro. Qualche settimana fa ha dipinto di sarcasmo l’iniziativa di un consigliere della Regione Veneto che ha proposto ai suoi colleghi che portano a casa non meno di diecimila euro mensili, di offrirne mille per i terremotati. Con fine sarcasmo ha sottolineato come essi, ad uno ad uno, si siano defilati di fronte ad una proposta che di certo non li avrebbe spolpati.

Sono rimasto amareggiato, deluso e schifato di fronte a tanta meschinità. Sennonché, proprio in questi giorni, ho avuto modo di imbattermi in una scelta quanto mai nobile e diametralmente opposta che mi ha risollevato lo spirito e che ritengo giusto additare all’ammirazione della città. I cento volontari dell’associazione di volontariato “Vestire gli ignudi”, che opera al “don Vecchi”, hanno offerto esattamente mille e più euri ciascuno a favore della nuova struttura per gli anziani poveri della nostra città che stanno perdendo autonomia. Donne, uomini, pensionati, anziani e meno anziani, hanno messo assieme centoventimila euro e li hanno versati sull’unghia alla Fondazione Carpinetum per questa nuova struttura assolutamente innovativa.

Sei mesi di lavoro totalmente gratuito sono diventati il segno della generosità e della dignità di cittadini umili ed ignoti che, senza pensarci un istante, hanno raggiunto due scopi ugualmente solidali: fornire vestiti ai bisognosi e nel contempo offrire il denaro necessario per creare la nuova struttura.

Finché incontrerò gente di questo livello, riuscirò a sopportare anche le chiacchiere al vento di chi dovrebbe essere il segno della solidarietà.

Perché si usano tutte queste parole inglesi?

So di correre il rischio che qualcuno possa accusarmi di una forma, anche se anomala, di nepotismo, però trattandosi di una materia abbastanza marginale alla nostra vita, accetto di correre questo rischio.

Mentre i bollettini parrocchiali delle varie parrocchie me li cerco io o me li faccio prendere da amici e collaboratori, quello della parrocchia di Chirignago, dove è parroco da molti anni mio fratello più giovane, don Roberto, egli mi usa la cortesia di mandarmelo per posta ogni settimana. Come leggo con interesse e curiosità i periodici di quella che un tempo definivo scherzosamente “concorrenza”, leggo ancora con più interesse “Proposta”, che è il bollettino parrocchiale di don Roberto, da un lato perché avverto una certa “responsabilità” (molto relativa veramente) nei riguardi di questo mio fratello più piccolo – infatti ha 20 anni meno di me – ma soprattutto perché la parrocchia di Chirignago è una tra le più efficienti e vive della diocesi e don Roberto è prete impegnato ed ha anche il dono di scrivere in maniera immediata e brillante, tanto che lo si legge assai volentieri.

Qualche settimana fa mi ha incuriosito un trafiletto, firmato da lui, con un titolo per me assai strano. L’ho letto e non solamente mi sono trovato d’accordo, ma esso mi permette di aggiungere che quel modo di scrivere e parlare che lui biasima è per me anche una mancanza di rispetto nei riguardi degli anziani.

Eccovi il trafiletto.

SPENDING REVIEW
Se è stato lui a lanciare questo stupido nome, Monti perde un punto nella mia considerazione. E’ mai possibile che non si possa dire in un corretto e comprensibile italiano “riduzione della spesa?” No, bisogna usare un linguaggio che pochissimi capiscono e meno ancora sanno dire o scrivere.
Io, ad esempio, mi trovo sempre in grande difficoltà quando si parla dello stimolatore cardiaco (di cui non so esattamente il nome e se ne sentono di tutti i colori) o quando si deve fare una verifica (cekap?) o si parla di giovani (tinegers?) o se si chiacchiera di un’amicizia particolare (filing?) o delle stupidaggini estive (gossip?). Insomma è un “bordelling”.
Non sappiamo parlare l’italiano, i nostri ragazzi (che hanno cominciato a studiare l’inglese nella materna, ma alla fine del liceo della loro lingua non conoscono né accenti, né doppie, né sintassi) sono degli emeriti somari e noi ci sbizzarriamo con le paroline foreste? Basta, per carità: parliamo come si mangia. Una volta il Patriarca Marco Cè mi propose di andare a Milano a studiare nella scuola per giornalismo. Gli dissi che io ero un povero ignorante e che non avevo una cultura tale da supportare una scuola così prestigiosa. Mi rispose che in certi ambienti “basta conoscere 50 parole” per poter parlare sempre e di tutto. Sarà, ma purché siano in italiano.

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Mio fratello, giustamente, si ribella perché nella patria di Dante si va in prestito di parole dai britannici che Cesare conquistò e civilizzò molti secoli fa, ma vedo che, nonostante il suo rifiuto, perlomeno conosce bene termini che per me, invece, sono peggio dell’arabo.

Ricordo che alle elementari c’era un grosso segno rosso su “lei” e “loro” perché noi avevamo il nostro bel “tu” e “voi” e non era lecito usare quegli “inglesismi”. Capisco che nella società globale sarà inevitabile il meticciato anche delle parole, ma non credo che gli inglesi sentano il bisogno dei nostri termini. Un po’ di patriottismo verbale, dato che almeno questo possiamo permettercelo, non sarebbe male.

Santi di oggi e di ieri

Il vecchio Patriarca, cardinale Roncalli tornava frequentemente a ricordare a noi seminaristi e poi giovani preti, che il nostro tempo era un tempo bello per la fede e che non era vero che il mondo di oggi fosse peggiore e meno credente di quello del passato. Il nostro Patriarca di allora era non solo un uomo di fede solida, ma era pure un prete saggio capace di valutare i veri valori propri di ogni stagione della storia e capace di leggere i segni dei tempi.

L’immenso popolo dei santi per molti è costituito soltanto da personaggi dei secoli passati, mentre sono convinto che oggi nel mondo cristiano e non, ci sono molti più uomini santi, non solo, ma i santi di oggi hanno pur una consistenza ed uno spessore religioso ben più consistente di quelli del passato. Nelle mie letture non faccio che scoprire ogni giorno delle figure così belle, delle personalità di ogni età e di ogni categoria, così ricche di spiritualità e di valori umani, di una taratura religiosa infinitamente superiore a quella di santi che il calendario ci offre ogni giorno.

Al mattino seguo con attenzione un certo monsignor Pellegrino che in un paio di minuti presenta alla Rai “Il santo del giorno”. Lo fa bene, con parole appropriate, cogliendo gli aspetti più comprensibili per gli uomini del nostro tempo, però io preferisco di gran lunga “i santi” che vado scoprendo leggendo i quotidiani e le varie riviste.

In questi giorni, nel breviario, viene narrata la vita e le vicende del pio e santo re David. Tutti ricordiamo la prodezza di Davide, ragazzo dai capelli fulvi e di bell’aspetto che abbatte Golia, guascone superarmato, con un ciottolo di fiume lanciato con la sua fionda. Però, leggendo nel breviario le vicende narrate dalla Bibbia, vieni a sapere che questo “pio e santo re” ne ha fatte di cotte e di crude, tanto che se vivesse ai nostri giorni bisognerebbe demandarlo alla suprema corte dell’Aia per i suoi crimini.

Non vorrei scandalizzare le anime belle, ma a cominciare con la sua non innocente amicizia “particolare” con il giovane figlio di Saul, alla vicenda in cui si narra che uccide i filistei e conta sull’unghia 200 prepuzi per ottenere la figlia di Saul; quando poi si parla della prole, vieni a sapere che dei suoi sette-otto figli, ognuno gli è stato dato da una donna diversa. Non contento di queste, s’innamora della moglie del suo ufficiale Uria e per nascondere la sua marachella lo fa uccidere; e ancora due messaggeri che gli portano notizie che egli “ufficialmente” non gradisce, senza pensarci un istante li fa sgozzare. Per non parlare poi delle sue guerre di aggressione e delle sue pretese che Dio gliele facesse sempre vincere.

Teniamoci la nostra religiosità, i nostri santi e la nostra poca fede, che tutto sommato è tanto più santa e più nobile non solo dei tempi descritti dalla Bibbia, ma anche di quello dei secoli passati più recenti e di “letture spirituali” ne possiamo trovare di edificanti anche sui libri e le riviste di oggi!

Ho finalmente celebrato a sant’Andrea

Qualche giorno fa, dopo infinite peripezie, durate ben sette anni, ho avuto l’opportunità di dir messa in un piccolo borgo ai margini della nostra città. Confesso che ho provato una profonda emozione nel vedere questa chiesetta pulita, ordinata, munita di tutte le suppellettili per la liturgia.

All’ora fissata, verso il tramonto, pian piano sono arrivati una trentina di fedeli, la gran parte donne anziane, ma c’erano pure degli uomini e qualche donna di mezza età.

Mi raccontarono che un tempo il borgo era vivo, si diceva messa ogni domenica, c’era pure la scuola. Poi i giovani cominciarono ad andarsene, i bambini furono dirottati in altre scuole, qualche persona è emigrata in città, tanto che ci sono alcune case chiuse che i proprietari non riescono a vendere..

Salii l’altare. Dapprima ebbi l’impressione di impersonare il protagonista di un romanzo di Gran Green, quando un uomo sconosciuto si presenta a pochi abitanti di un villaggio da cui la persecuzione aveva cacciato il parroco, dicendo: «Sono un prete, posso celebrare?». Poi la mia mente andò al vecchio prete del film di Olmi “Il villaggio di cartone” che si era trovato senza più fedeli, con la chiesa vuota ed inutile. Ma poi capii subito che la situazione non era la stessa, perché nel villaggio di Olmi i fedeli avevano abbandonato, mentre qui tutti avevano desiderato avere un prete tutto per loro.

Cominciai un po’ titubante, sentendomi in una chiesa per me sconosciuta, anche se accogliente, ma poi, quando sentii cantare a voce spiegata i canti della Chiesa, il mio animo si aprì alla fraternità e m’apparve caldo e incoraggiante il volto di don Serafino, il vecchio parroco di quella gente che per molti anni aveva “seminato” a larghe mani la fede. In seminario lo chiamavano “testa di ferro”, tanto era convinto e determinato nella sua fede e nella sua missione.

Un tempo a Mestre non c’era chiesa più affollata, più partecipe alla vita parrocchiale e alla liturgia della Chiesa, non c’era parrocchia in cui tutti i fedeli cantassero con entusiasmo quanto a Sant’Andrea.

Terminata la messa scambiai contento qualche chiacchiera con i fedeli nel sagrato di quella chiesa e di quel borgo un po’ tagliato fuori dal contesto della città.

Me ne tornai felice di aver scoperto della gente con una fede così semplice ma radicata, che con nostalgia e con rimpianto riandava al passato, quando la fede si manifestava in maniera rigogliosa anche nel loro villaggio.

Per me l’unico rimpianto è d’essere ormai tanto vecchio da non sapere per quanto tempo e come potrò aiutare questa cara gente a camminare assieme verso la casa del Signore.

Una predica senza parole

Per me i “I fioretti di san Francesco” conservano una freschezza tale che mi paiono appena usciti dalla penna del Poverello di Assisi. Ogni tanto me li rileggo perché sono un ristoro per la mia anima e mi aiutano a guardare al creato e alle creature con simpatia e tenerezza, perché la poesia di Francesco li sa avvolgere di candore e di semplicità.

Lo spirito dei “fioretti” mi ha pervaso talmente l’animo che spesso mi pare che “il poverello” mi offra tale lettura della vita tradotta in contemporanea. Chi non si ricorda la vicenda della predica di Francesco per le vie di Assisi? “Frate Masseo, preparati che oggi andiamo a predicare”. Per tutta la giornata i due fraticelli umili e compunti camminano con gli occhi bassi per le viuzze del piccolo borgo dell’Umbria verde. Ma sul far del vespero frate Francesco dice al compagno: «Torniamo a casa». «Ma non dovevamo predicare?». E frate Francesco: «E non abbiamo predicato mediante madonna povertà e sorella letizia!?»

Il mondo fortunatamente è del tutto cambiato. Mauro, uno dei vecchi ragazzi di Carpenedo mi disse che aveva sentito che da un grande magazzino di generi alimentari forse avremmo potuto avere i prodotti in scadenza. L’indomani mi accompagnò, attraverso un dedalo di rotonde, svincoli e rotatorie, fino a Pianiga. (da solo in quel labirinto non sarei uscito neanche dopo un secolo) Ci ricevette il capo area, percorremmo un lungo corridoio di uffici, finalmente arrivammo a quello di questo signor Tramontini.

Gli illustrai il “polo caritativo del don Vecchi” e la drammatica situazione di non aver più la possibilità di aiutare la fila sconfinata di richiedenti arrivati dall’Africa e dall’Europa del nord. Ci chiese lo statuto dell’associazione e ci accordammo sulle modalità del ritiro dei “generi alimentari possibilmente consumabili entro una certa data” /ma che in realtà possono durare ancora per mesi).

La sensibilità, la fiducia, l’immediatezza della risposta e la cordialità di quest’uomo, che fino a un minuto prima non sapevo chi fosse e cosa facesse, mi ha allargato il cuore e mi ha riconciliato con tutto il settore del commercio.

Io non so se questo signore vada a messa, se sia credente o meno, però sono sicuro che il Signore l’ha messo sulla mia strada e sono altresì sicuro che “la sua predica” senza parole m’ha fatto altrettanto bene della predica silenziosa di frate Francesco.

“Mestre, terra di missione”

Periodicamente mi reco dal primario Di Pede per il controllo al cuore. Tra le tante magagne ho anche quella del cuore stanco e perciò bisognoso di controlli e di aiuti. Puntualmente questo medico amico ausculta e mi fa l’elettrocardiogramma. Io invece, che mi preoccupo della sorte della Chiesa a cui appartengo, ne verifico la “salute” e le prospettive di vita leggendo i bollettini parrocchiali in genere e, in particolare, quello della mia vecchia parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, della quale sono stato responsabile per ben 35 anni.

Il bollettino diretto dal nuovo parroco, don Gianni, è un periodico veloce, prevalentemente informativo; non trascura però anche qualche proposta religiosa espressa in maniera sommaria senza eccessivi approfondimenti.

Nel numero 2131 dell’8 luglio scorso di “Lettera aperta” ho letto una notiziola che mi ha sorpreso e soprattutto grandemente preoccupato. Riporto esattamente la notizia e di seguito qualche considerazione personale.

BENEDIZIONE DELLE FAMIGLIE
Durante l’ultimo anno pastorale i sacerdoti hanno cercato di visitare le famiglie della parrocchia portando, a chi lo desiderava, la benedizione del Signore. Possiamo dare un primo sintetico bilancio. L’avviso è stato portato a circa 2330 famiglie. Di queste 1120 hanno accolto il sacerdote. Altre 1142 sono state assenti, mentre altre 68 hanno rifiutato l’incontro, quasi sempre senza spiegare la ragione. Fin qui i cenni di statistica. Elementi più completi cercheremo di darli all’inizio del prossimo anno.

Prima reazione che ho provato, leggendo questo scarno trafiletto su argomento quanto mai importante, è stata di sollievo. Per me il “presidio sul territorio” è assolutamente necessario come elemento basilare per ogni soluzione pastorale.

La seconda, circa la reperibilità, mi ha lasciato perplesso. In verità mai io avevo pensato di conteggiare gli assenti e i presenti. Gli assenti di certo non potevo conteggiarli come “rifiuto”, poiché oggi il numero medio per famiglia credo che sia uno e mezzo, perciò è quanto mai facile che in casa non ci sia nessuno per via del lavoro. Comunque, essendo rimasto 35 anni in parrocchia, prima o poi ho avuto modo di incontrarli tutti.

La terza nota mi ha lasciato di stucco: “sessantotto hanno rifiutato l’incontro, quasi sempre senza spiegare la ragione”.

Sette anni fa “i parrocchiani che mi hanno rifiutato più o meno cortesemente” erano non più di quattro o cinque. Di certo oggi la presenza di mussulmani è più numerosa, però settanta rifiuti sono veramente tanti! Mi è venuta in mente la lettera pastorale di quarant’anni fa del cardinal Suard: “Parigi, terra di missione”

Ora il responsabile della Chiesa mestrina può scrivere purtroppo anche lui: “Mestre, terra di missione”. Il guaio però è che l’impianto pastorale non si discosta generalmente di molto da quello dei tempi di Pio X nonostante questa situazione estremamente diversa.

La ricchezza spirituale e la forma

I Papi, lungo i secoli, si sono spesso definiti come “i servi dei servi di Dio”. In verità, quando penso al nostro povero Papa, costretto ogni giorno e per ogni evenienza a leggere i lunghi discorsi preparati dagli uffici di curia in cui ogni volta si tira in ballo, per dritto e per rovescio la storia, la teologia, la Bibbia, costretto a lasciarsi trascinare a destra e sinistra, a sorridere, a benedire, stringere mani e baciare bambini, mi rendo conto fin troppo bene di quanto siano pesanti “le chiavi di Pietro” e di quanto sia faticoso il suo ministero.

Nella sostanza quindi sono fin troppo convinto della estrema fatica di questo servizio pastorale, specie dovendo essere portato aventi in una stagione della vita in cui le forze fisiche e intellettuali vengono meno per tutti.

Io riterrei giusto che entrasse nella prassi della Chiesa che ad una certa età anche i Papi, come i preti ed i vescovi passassero la mano a ministri di Dio più giovani e più forti. Auspicherei inoltre che pure l’immagine esterna del “servitore” all’apice della gerarchia ecclesiastica s’avvicinasse un po’ di più a quella del “servo” che del “regnante”.

E’ sempre ancor vero che non è “la tonaca che fa il monaco”, ma è altrettanto vero che la “tonaca” è ancora un segno del contenuto.

I “sacri palazzi” e “le sacre vesti”, così come gli appellativi, non rappresentano purtroppo in maniera immediata le caratteristiche del “servo” di cui parla il Vangelo. Reputo che il popolo di Dio riesca a cogliere ancora la ricchezza spirituale che per grazia di Dio alberga nel cuore dei Papi del novecento e di questo inizio del terzo millennio.

Noi cristiani di oggi non dobbiamo fortunatamente faticare per cogliere la santità personale, la sacralità del ministero dei nostri Papi, perché la Divina Provvidenza ci ha donati degli splendidi pontefici ricchi di carisma e di virtù, però non guasterebbe un aggiornamento ed una semplificazione anche negli aspetti esteriori troppo legati a gusti, culture e tradizioni ormai totalmente scomparsi nella nostra società, oppure relegati in istituzioni marginali alla vita che vegetano in binari morti e senza domani.

Questo processo di purificazione è certamente in atto e la gente della mia età avverte l’evolversi positivo di questo processo, però sembra ancora lento per essere al passo con la sensibilità dei cristiani del nostro tempo.

Questo discorso, evidentemente, riguarda il vertice come l’ultimo parroco delle periferie perché ormai è nella sensibilità di tutti che la ricchezza spirituale abita nella sostanza piuttosto che nella forma.

Fare rete?

Qualche giorno fa mi ha chiesto di farmi visita un assessore di Musile di Piave, perché era interessato a qualcosa di simile al “don Vecchi” per gli anziani del suo paese.

Mostrai a questo signore, in maniera sommaria, la struttura e gli illustrai brevemente la “dottrina” con cui la gestiamo. Da persona intelligente capì al volo, senza tanti discorsi, come stavano le cose e l’estrema validità di questa esperienza.

Questo signore di professione fa l’agente di commercio, quindi abituato per mestiere ad inquadrare il problema. Di conseguenza andò subito al sodo. Mi fece due ragionamenti che mi hanno fatto riflettere e mi hanno fatto capire come le pubbliche amministrazioni più piccole e meno pletoriche di quelle delle grandi città si siano ormai liberate da qualsiasi pregiudizio ideologico e siano mature per una gestione snella ed economica.

Mi disse: «Vede, padre, i Comuni, se vogliono i soldi, li trovano sempre. Io comincerei domani a progettare una struttura del genere per il mio paese. La difficoltà sta nella gestione. Se la mia amministrazione volesse gestire in proprio una struttura come questa spenderebbe dieci volte tanto quanto vedo che lei spende. Se lei accettasse di farsi carico della gestione, io partirei subito!»

Seconda osservazione, quanto mai intelligente e valida anche per noi.  «Oggi non tutti i Comuni possono realizzare ciascuno strutture rispondenti ai diversificati bisogni della sua popolazione; è necessario agire in rete. Se una serie di Comuni del comprensorio operassero assieme, ognuno dando una risposta che vale per sé, ma che mette a disposizione anche per gli altri, tutte le diverse strutture funzionerebbero e tutti i cittadini in difficoltà, dei singoli Comuni, troverebbero risposta all’interno del circondario senza essere sradicati e senza che le singole strutture diventino asfittiche e “in rosso” con i bilanci».

Buon discorso! Immediatamente pensai se questa dottrina potesse essere applicata al “Villaggio solidale degli Arzeroni”. Se ogni parrocchia si facesse carico di una delle strutture del villaggio, in un paio di anni Mestre avrebbe la possibilità di risposte valide per molteplici bisogni. Il mettere però in rete Comuni e parrocchie non dico che è difficile, ma impossibile!