Perché si usano tutte queste parole inglesi?

So di correre il rischio che qualcuno possa accusarmi di una forma, anche se anomala, di nepotismo, però trattandosi di una materia abbastanza marginale alla nostra vita, accetto di correre questo rischio.

Mentre i bollettini parrocchiali delle varie parrocchie me li cerco io o me li faccio prendere da amici e collaboratori, quello della parrocchia di Chirignago, dove è parroco da molti anni mio fratello più giovane, don Roberto, egli mi usa la cortesia di mandarmelo per posta ogni settimana. Come leggo con interesse e curiosità i periodici di quella che un tempo definivo scherzosamente “concorrenza”, leggo ancora con più interesse “Proposta”, che è il bollettino parrocchiale di don Roberto, da un lato perché avverto una certa “responsabilità” (molto relativa veramente) nei riguardi di questo mio fratello più piccolo – infatti ha 20 anni meno di me – ma soprattutto perché la parrocchia di Chirignago è una tra le più efficienti e vive della diocesi e don Roberto è prete impegnato ed ha anche il dono di scrivere in maniera immediata e brillante, tanto che lo si legge assai volentieri.

Qualche settimana fa mi ha incuriosito un trafiletto, firmato da lui, con un titolo per me assai strano. L’ho letto e non solamente mi sono trovato d’accordo, ma esso mi permette di aggiungere che quel modo di scrivere e parlare che lui biasima è per me anche una mancanza di rispetto nei riguardi degli anziani.

Eccovi il trafiletto.

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Se è stato lui a lanciare questo stupido nome, Monti perde un punto nella mia considerazione. E’ mai possibile che non si possa dire in un corretto e comprensibile italiano “riduzione della spesa?” No, bisogna usare un linguaggio che pochissimi capiscono e meno ancora sanno dire o scrivere.
Io, ad esempio, mi trovo sempre in grande difficoltà quando si parla dello stimolatore cardiaco (di cui non so esattamente il nome e se ne sentono di tutti i colori) o quando si deve fare una verifica (cekap?) o si parla di giovani (tinegers?) o se si chiacchiera di un’amicizia particolare (filing?) o delle stupidaggini estive (gossip?). Insomma è un “bordelling”.
Non sappiamo parlare l’italiano, i nostri ragazzi (che hanno cominciato a studiare l’inglese nella materna, ma alla fine del liceo della loro lingua non conoscono né accenti, né doppie, né sintassi) sono degli emeriti somari e noi ci sbizzarriamo con le paroline foreste? Basta, per carità: parliamo come si mangia. Una volta il Patriarca Marco Cè mi propose di andare a Milano a studiare nella scuola per giornalismo. Gli dissi che io ero un povero ignorante e che non avevo una cultura tale da supportare una scuola così prestigiosa. Mi rispose che in certi ambienti “basta conoscere 50 parole” per poter parlare sempre e di tutto. Sarà, ma purché siano in italiano.

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Mio fratello, giustamente, si ribella perché nella patria di Dante si va in prestito di parole dai britannici che Cesare conquistò e civilizzò molti secoli fa, ma vedo che, nonostante il suo rifiuto, perlomeno conosce bene termini che per me, invece, sono peggio dell’arabo.

Ricordo che alle elementari c’era un grosso segno rosso su “lei” e “loro” perché noi avevamo il nostro bel “tu” e “voi” e non era lecito usare quegli “inglesismi”. Capisco che nella società globale sarà inevitabile il meticciato anche delle parole, ma non credo che gli inglesi sentano il bisogno dei nostri termini. Un po’ di patriottismo verbale, dato che almeno questo possiamo permettercelo, non sarebbe male.

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