Don Gianni a Carpenedo

Mentre ero a tavola mi ha raggiunto la telefonata di un mio caro amico, giornalista al “Gazzettino”: «Don Armando, questa sera sarà formalizzata la nomina di don Gianni a parroco di Carpenedo!»

Per me è stata veramente una bella notizia! Mi spiace per don Gianni, il parroco – diciamo pure – “vulcanico” di San Lorenzo Giustiniani, che in pochi anni ha galvanizzato quella parrocchia quieta e sonnacchiosa, facendone una comunità nuova, rigogliosa e promettente, e che ora dovrà bruscamente abbandonare.

Più volte mi ero recato a vedere come don Gianni aveva trasformato ed abbellito la chiesa e trasformato quel fazzoletto di scoperto adiacente alla canonica in una specie di arca di Noè per i suoi ragazzi. A molti sembrava che quella parrocchia, nata da un dono di Papa Roncalli e dalla furbizia di un proprietario di terra, il quale valorizzò il suo terreno donandone un pezzettino per la chiesa, fosse destinata ad una vita striminzita e senza domani.

A tutti, per molto tempo, parve una parrocchia decentrata e destinata alla solitudine, ma l’arrivo di questo giovane prete, che aveva fatto una splendida esperienza nella comunità di Chirignago, fece il miracolo di “far fiorire il deserto”.

Mi è capitato di vedere il grest, il patronato, le prime comunioni, la canonica sventrata per far sedi per i ragazzi e m’è parso di vedere vita, innovazione, fiducia nel domani ed ho capito che quel giovane prete spilungone e dagli occhi un po’ spiritati, che spesso porta la tonaca e d’inverno il tabarro, aveva anima e coraggio, determinazione e volontà di spendersi. Più di una volta ho avvertito che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Venendo egli a Carpenedo, mi sembrerà che il vecchio cuore della parrocchia che fu mia per tanti anni ricominci a battere a ritmo intenso, quel ritmo che ho avvertito per quasi mezzo secolo. La notizia mi ha rallegrato, ho avuto la sensazione di aver ritrovato la famiglia di un tempo, di cui potrò essere anche un trisavolo che guarda, seduto nella seggiola accanto al fuoco, però compiaciuto e felice di respirare aria di casa.

La notizia poi mi ha fatto riaffiorare il vecchio sogno e il progetto, non totalmente abbandonato, che finalmente Dio e il prossimo possano tenersi per mano e che la comunità parrocchiale possa camminare finalmente in maniera armoniosa in modo che il passo della fede e quello della solidarietà si alternino e procedano in perfetta armonia sorreggendo il corpo di Cristo che finalmente s’offre agli uomini di oggi nel suo vero splendore di figlio di Dio e di figlio dell’uomo.

Il dolce ricordo di una pagina meravigliosa della mia vita di giovane prete…

Qualche giorno fa è venuto a Mestre a visitare sua madre Rachele, che vive con me al “don Vecchi”, un mio nipote che abita a Pisa, ma vi starà ancora per poco tempo perché si trasferirà per lavoro nel Qatar.

Angelo è uno di quei piloti dell’Alitalia che la triste vicenda della compagnia di bandiera ha lasciato a terra. Giovanissimo e brillante comandante, senza appoggi politici, è stato uno di quegli aviatori sacrificati dalla politica dissennata e dall’azione irresponsabile dei sindacati. Oggi non è facile volare, con la crisi di tante compagnie e questo “ragazzo”, che s’è fatto tutto da sé, pur di garantire un avvenire sicuro al suo piccolo, andrà tra gli arabi nel deserto, ove il petrolio offre ancora una speranza di lavoro.

Prima di partire ha voluto che il suo bimbetto e la vecchia nonna potessero riempirsi gli occhi e lo spirito di quelle Dolomiti legate alla sua infanzia.

Suo padre Amedeo, capomastro capace e generoso, aveva restaurato la “vecchia dogana” a Misurina, che con monsignor Vecchi ribattezzammo con disinvoltura “Rifugio San Lorenzo”. Mentre mio nipote mi raccontava, quasi sognante, la sua gita a Misurina, riemergeva nella mia memoria una pagina fantastica delle avventure di giovane prete con i ragazzi di San Lorenzo.

La telefonata del mio parroco, mentre insegnavo alle magistrali: «Vieni, Armando, ho trovato una casa per i nostri ragazzi!».

Girammo una giornata intera per convincere i 12 proprietari a venderci la vecchia casa. Poi il restauro. Mio padre che costruì i tavoli, i letti a castello. Le squadre di ragazzi e ragazze che ogni quindici giorni si avvicendavano. Le messe in quella Valbona che credo sia una dépendance del Paradiso terrestre, i rifugi, le Cime di Lavaredo, i canti del dopo cena. Quanta fatica! Quante avventure, quanta gioia!

Ora non so come sia andata a finire, chi vi abiti; comunque nel mio cuore rimarrà per sempre una pagina meravigliosa della mia vita di giovane prete.

Il piccolo pronipote ascoltava incantato la nostra conversazione che ricordava episodi e sensazioni belle del nostro passato.

Chiesi curioso: «Nella parrocchia dove abiti a Pisa, fate qualcosa del genere?». «Purtroppo no!» Una volta ancora debbo constatare che per molti preti l’educazione alla fede si riduce ad un minuscolo ingranaggio della vita, e non, come lo intendo io, ad un “abbraccio caldo e profondo di Dio” e a tutto quello che interessa l’uomo, il presente, il domani, la terra e il cielo!

L’antica cappella del cimitero di Mestre

Mi sento un po’ come Salomone che riuscì a costruire a Gerusalemme il tempio, la dimora di Dio in terra. David l’aveva sognato, mentre suo figlio ebbe il compito di realizzare il sogno di suo padre per riporre nella “Sancta sanctorum” le tavole della legge e il bastone di Aronne.

Così è avvenuto anche per me. Il tempietto ottocentesco, che per due secoli ha raccolto le preghiere e le lacrime dei mestrini, dopo la costruzione della nuova chiesa prefabbricata, nella quale ora celebriamo le sacre liturgie, arrischiava di rimanere in un inesorabile degrado ed abbandono. Il signor Mario De Faveri, imprenditore illuminato e generoso del contado, ha avuto il coraggio di affrontare la burocrazia sia della Veritas che della Sovrintendenza alle Belle Arti, che finalmente gli hanno “concesso la sospirata grazia” di poter pagare in proprio il restauro della “cappella della Santa Croce”.

Ne è venuto fuori un luogo pulito ed in ordine, che in verità avrebbe potuto anche essere migliore se i “competenti” non avessero messo lingua. Per il resto ci hanno pensato i fedeli, dotando la chiesa di ceriere elettrificate per non sporcare di nuovo il soffitto. Io ho avuto il “coraggio” di rimuovere una vecchia e mastodontica copia della Madonna del Raffaello che però era molto amata, sperando che ora si innamorino della copia della Madonna della Consolazione che ho installato al posto della brutta riproduzione, in modo che, almeno in cimitero, non ci siano conflitti o concorrenze tra Madonne diverse!

Un amico, già prestigioso tecnico di Radiocarpini, ha rinnovato l’impianto fatiscente di amplificazione sonora ed ora sta lavorando ad un collegamento via ponteradio tra la vecchia e la nuova chiesa in maniera che ci sia sintonia di messaggi spirituali in tutto il camposanto.

Ora abbiamo riportato “il Signore” nel tabernacolo e suor Teresa ha provveduto all’arredo sacro e floreale, più ordinato e sobrio di quello di prima.

La “vecchia cappella” è diventata veramente “l’antica cappella” acquistando dignità e sacralità. Il vecchio porticato che rappresenta “le braccia aperte” della Chiesa, sta aspettando l’intervento promesso dalla Veritas per essere un degno prolungamento ideale della “casa del Signore” per accogliere i resti mortali dei figli di Dio.

Devo imparare a lasciarmi trasportare fiducioso dalla misericordia del Signore!

Renzo Tramaglino, il famosissimo personaggio dei “Promessi sposi”, impegolato fino al collo in eventi più grandi di lui, pur essendo un sempliciotto, constatando come lassù ci sia Qualcuno che manovra i fili, non soltanto della grande storia, ma anche di quella piccola intessuta dalle banalità del quotidiano, ha avuto la sapienza di concludere “La c’è la Provvidenza!” quando, attraversato l’Adda, mise piede nel terreno sicuro della Serenissima. Meglio sarebbe dire che la fede di Manzoni sapeva leggere nella trama complicata, e spesso aggrovigliata, degli avvenimenti, che spesso sembrano assurdi, ingiusti e crudeli, una regia saggia e generosa che pian piano sbroglia la matassa ed apre sentieri fin poco prima sconosciuti. Così è capitato anche a me, che sono un povero diavolo indifeso e sempliciotto quanto il promesso sposo di Lucia.

La Regione, ch’era rimasta assolutamente sorda alle richieste d’aiuto, in modo insperato s’è offerta di finanziare un progetto pilota per gli anziani in perdita di autonomia. Nonostante questa Provvidenza mi rimaneva scoperto il tassello essenziale: reperire un terreno per dar vita a questa nuova struttura provvidenziale. Non sapevo più da che parte girarmi, sennonché l’ANAS, improvvisamente ed inaspettatamente, ha comunicato al Comune di Venezia di dover rinunciare alla nuova bretella che doveva costruire parallela a via Orlanda. Tutto questo mi potrebbe rendere fortunatamente disponibile cinquemila metri di proprietà della Fondazione, sui quali possiamo tranquillamente costruire la struttura pilota.

Stesso discorso dicasi per i magazzini della solidarietà. Il Patriarca ha ripreso in mano l’iniziativa e con un colpo di reni ha organizzato una “cordata” di piccoli imprenditori del privato sociale reperendo la somma necessaria per costruire i magazzini.

In una mezza giornata la Provvidenza ha messo assieme una serie di tasselli sufficienti per dar volto al mosaico di queste realtà solidali che fino al giorno prima ritenevo inimmaginabili.

Non ho ancora imparato ad abbandonarmi alla sapienza e all’onnipotenza del buon Dio! Spero che almeno prima di morire imparerò finalmente a rimanere a galla “facendo il morto”, ossia lasciandomi portare dall’onda del mare della misericordia del Signore.

Una nuvola

Leggo sempre con curiosità ed attenzione i periodici delle parrocchie della nostra città. Confesso che io sono esigente e mi aspetterei di più e di meglio, mentre invece molto spesso ho di che rattristarmi.

Al di fuori di cinque o sei “Foglietti parrocchiali” nei quali s’avverte un qualche impegno per curare la forma e i contenuti, per il resto avverto una vera desolazione per la sciatteria nell’impostazione grafica e per il deludente squallore del messaggio e delle riflessioni contenute.

Seguo però con particolare interesse il foglio “Proposta” della parrocchia di San Giorgio di Chirignago nella quale è parroco il mio fratello minore don Roberto.

A don Roberto non mi lega solamente il fatto che è mio fratello più piccolo, ma anche perché nutro una stima grande per la sua opera pastorale intelligente, generosa ed incisiva.

Sono convinto che la sua parrocchia sia una delle migliori del Patriarcato, per il vasto vivaio giovanile, per la partecipazione alla liturgia e per la vivacità pastorale. Don Roberto parla bene e scrive meglio, ha un preriodale vivace, immediato, fresco e scorrevole, credo che lui sia contento del suo foglio “Proposta”, mentre io penso che con le doti che possiede, potrebbe essere anche migliore, comunque è un foglio in cui si avverte un dialogo aperto con la sua comunità e da cui traspare l’intensità delle iniziative pastorali.

In un numero di qualche tempo fa ho però letto un editoriale in cui si avvertiva la sua stanchezza, il suo logorio per un’attività frenetica e soprattutto la sua solitudine ideale, motivo per cui faceva trasparire quasi il desiderio di un trasferimento perché deluso dalla sua gente che a suo parere da per scontato la sua fatica e pretende sempre di più.

E’ un luogo comune che tutti diano per scontato la generosità a cui qualcuno particolarmente convinto ed impegnato, abitua la sua gente, mentre tutto ha un prezzo e talvolta salato.

Spero che quella di mio fratello sia solo una nuvola da stanchezza però da un lato è doveroso che è ben difficile rispondere alle attese al bisogno o ai “grilli” di una decina di migliaia di abitanti, e dall’altro lato sarebbe necessario che il vescovo (che ora non so perché non lo mandino) fosse più paternamente vicino e partecipe alle difficoltà dei suoi preti; cosa che avviene di rado!

°Il virus delle vacanze° non smette di contagiare neanche in tempi di crisi!

I giornali insistono nel ripetere che la crisi crea milioni di nuovi poveri, che la gente non arriva alla fine del mese, che non è ancora passato il tornado della speculazione finanziaria, che l’industria non decolla, che tante imprese chiudono, che ora anche i cittadini che un tempo vivevano in maniera modesta, ma autonoma, sono costretti a ricorrere alle mense popolari.

Altri articoli forniscono a getto continuo statistiche su statistiche che dimostrano il deprezzamento della moneta, la perdita del valore d’acquisto delle paghe degli operai e degli impiegati, ma soprattutto dei pensionati.

Tutto vero, anche al “don Vecchi”, se mi capita di parlare di pensioni, c’è un immediato riscontro delle difficoltà per la modestia delle stesse. Però gli stessi giornali, giorno dopo giorno, ci forniscono il numero dei milioni di automobilisti che si mettono in strada per le vacanze, mostrano spiagge talmente sovraffollate da farti venire un sentimento di compassione per i “condannati” al mare o per chi deve affrontare i lavori forzati per raggiungere la sospirata meta per la villeggiatura.

Anche al “don Vecchi”, nonostante che per statuto tentiamo di accogliere i più poveri, mi accorgo che alla chetichella, senza quasi darlo a vedere, con le soluzioni più disparate, i residenti sono scomparsi per ritornare dopo qualche settimana tutti abbronzati.

Una volta ancora ho avuto l’impressione che i mass-media “impongano” le ferie a qualunque costo. Questo passi pure, può far parte della fragilità umana, ma il fatto che le parrocchie abbiano smesso ogni attività, ridotto in maniera vistosa il numero delle messe, sospendano le pur modeste pubblicazioni dei settimanali, aprano le chiese tardi e chiudano presto, mi dà l’impressione che “il virus” delle vacanze abbia la meglio anche in questo settore.

Quello poi che mi stupisce ancora di più, è che non si avverta una sola voce, in alto ed in basso, che inviti alla sobrietà, al risparmio e a non sprecare, a godere delle cose semplici, della vita in famiglia, di accontentarsi di quello che ci si può permettere. Mi pare che oggi taccia perfino la voce solitaria “che grida nel deserto”.

Per me è preoccupante che siano venuti a mancare anche i profeti, seppur inascoltati. Per quel che mi riguarda, anche se sono vecchio, con compiti ben modesti, per coerenza alle difficoltà del momento e soprattutto ai dettami evangelici della solidarietà verso gli ultimi, non solo me ne sono stato a casa durante l’estate, ma ho persino la presunzione di essere più contento ed avvantaggiato da ogni punto di vista rispetto a chi è andato in ferie ad ogni costo.

Un richiamo di Gesù

Ogni giorno ho modo di confrontare la fatuità e la miseria dei discorsi dell’uomo con la consistenza e la validità dei discorsi di Cristo.

I miei amici conoscono le mie abitudini, i ritmi e le mie scelte esistenziali. Al mattino, con un rapido succedersi di passaggi, comincio prima la preghiera personale e dopo quella liturgica del breviario, per passare ad una rapida scorsa del quotidiano e proseguire poi con la lettura e la meditazione sul brano del Vangelo che la Chiesa offre all’attenzione dei cristiani appartenenti alle infinite comunità sparse in tutto il mondo che ogni giorno si incontrano per celebrare i santi misteri della nostra salvezza.

Questa mattina il breviario mi ha fatto conoscere miserie antiche dell’uomo, la sua sete di potere, di abuso della fede per fini personali. Tutto però in un ambiente chiuso, angusto e, tutto sommato, timorato di Dio anche se disobbediente ai suggerimenti del Signore.

Son passato poi allo sfoglio del quotidiano: una vera rassegna di miseria, di imbrogli, di misfatti d’ordine personale e soprannazionale. Il “Gazzettino” sembrava un’antologia delle peggiori nefandezze ed imbrogli dei quali è capace l’uomo del nostro tempo.

Infine ho letto il brano del Vangelo nel quale Gesù se la prende con le città della Palestina nelle quali Egli aveva maggiormente offerto il suo messaggio ed aiutato le persone in difficoltà. Le argomentazioni e pure le minacce di Gesù mi sono suonate amare e taglienti nei riguardi di questo nostro vecchio mondo occidentale che ha ricevuto per primo “la buona notizia” e che oggi ignora o ne fa un cattivo uso. E più ancora mi sono sembrate dure nei riguardi di me stesso e di noi praticanti cresciuti fin dalla prima infanzia con un’educazione religiosa.

Oggi le nostre parrocchie, le nostre associazioni e i nostri preti, pare quasi che si trastullino e che sonnecchino sopra il patrimonio evangelico che ci è stato donato con tanta abbondanza e generosità e se ne stiano pressoché inerti senza “buttare la rete” a destra e a sinistra.

M’è parso che Gesù desse almeno a me un “cicchetto” forte e deciso, facendomi capire una volta ancora le mie responsabilità verso il Vangelo e verso i fratelli. Una volta ancora ho avvertito il messaggio mordente della parabola dei talenti.

Avanti nonostante tutto e tutti

Ogni tanto mi vengono a galla delle vecchie reminiscenze di letture lontane. Ai tempi della “cortina di ferro” e delle “purghe” da parte del regime sovietico, giravano, nel nostro Paese, due romanzi che mettevano in luce la stupidità e la spietatezza di quel regime. D’altronde tutti i regimi totalitari, dietro le facciate piene di retorica, di frasi altisonanti e di ideali validi soltanto per i sudditi, si nascondevano, e si nascondono ancora, meschinità miste a stupidità, inganno e schiavismo. Così è stato per Hitler, Franco, Mussolini e Stalin, i despoti dei tempi della mia giovinezza.

Ricordo a proposito queste due opere: “Buio a mezzogiorno” di Kestler, romanzo che raccontava l’atrocità delle purghe di quel sadico che fu il capo del regime sovietico, e “La fattoria degli animali” – altro stile, altro modo di far denuncia – altrettanto efficace perché, attraverso lo stile della favola, credo che lo stesso autore – se ben ricordo – denunciasse l’assurdità dell’utopia comunista.

Queste reminiscenze però mi portano a pensare che quei regimi e quei capi hanno portato a forme parossistiche il loro sadismo. A questo mondo però in tutti i comparti della società si verificano in maniera molto più tenue e velata le stesse miserie.

Nella “Fattoria degli animali” l’autore denuncia che nel regime dell’eguaglianza eretta a sistema ci sono degli animali-uomini “più uguali” degli altri, che campano sulla fatica e sul sudore altrui che prendono sul serio la proposta e l’utopia. Ricordo ad esempio il cavallo stacanovista che in ogni situazione, talvolta per scelta ideale e talvolta per costrizione psicologica, si metteva sempre alle stanghe e tirava la carretta, finché un brutto giorno non ce la fece più e “scoppiò” dalla fatica.

Ho paura che questi processi facciano parte della dinamica della storia: c’è chi per convinzione e per coerenza ideale abbraccia un sogno, un progetto e vi spende ogni sua risorsa vitale, mentre altri, i soliti furbi, fan finta di credere a queste visioni ideali, si vestono con questi progetti di profondo respiro sociale e perfino religioso, e poi vi campano sopra, facendosi belli della fatica e dei sacrifici di quegli umili stacanovisti che si giocano la vita per raggiungere mete belle, ma il cui prezzo debbono pagare solo loro. Ogni tanto, in rapporto a certe vicende e certe carriere, fa capolino anche nel mio animo il dubbio che qualcuno possa usare la mia buona fede a proprio basso interesse. Poi, almeno finora, ho concluso che io debbo dare la mia testimonianza nonostante tutto e tutti.

Per salvare il Paese servono laboriosità, parsimonia, sobrietà e riconoscenza per ciò che si ha!

Qualche volta mi compiaccio di non accettare ancora i comportamenti irresponsabili ed assurdi di una società che non tien conto delle difficoltà in cui vive e continua a comportarsi come se l’Italia fosse il Paperon dei Paperoni.

I discorsi sulla crisi economica, i giudizi degli organismi internazionali di controllo, le prese di posizione di Tremonti, pare ovvio che ottengano, pure loro, i magri risultati delle mie prediche, pur essendo sotto gli occhi di tutti i licenziamenti, le difficoltà delle industrie da un lato, e da quello religioso il crollo dei valori, il malessere morale e il fenomeno devastante della secolarizzazione.

Nei mesi scorsi mi ero meravigliato quanto mai per il comportamento incomprensibile dei greci, che sono alla bancarotta, ma nonostante ciò si oppongono in maniera violenta ed assurda ai provvedimenti con i quali il loro governo tentava di salvare il salvabile. Evidentemente la cattiva scuola dei sindacati e dei partiti all’opposizione è riuscita a passare l’idea che si possa dividere una ricchezza che non c’è e che lo Stato debba offrire quel benessere che non è stato ancora guadagnato: comportamento che porta ad una miseria ancor più rovinosa!

Non credo che noi italiani siamo tanto lontani da questo modo di pensare e di comportarsi. Il peggio poi è che non sono solamente i giovani a cullare queste illusioni, ma anche gli anziani dimostrano di condividerle queste illusioni.

Col “don Vecchi” si son fatti sacrifici enormi per offrire alloggi alla portata delle tasche di tutti e si continuano a far sacrifici perché gli “affitti” continuino a mantenersi a misura di pensionati poveri, però certe illusioni impossibili si continuano a manifestare anche fra gli anziani residenti nella struttura. Al “don Vecchi” c’è il verde, c’è la frescura, la pace e il silenzio, però durante questi mesi estivi mi è toccato vedere che tanti anziani, autoproclamatisi poveri, scompaiono alla chetichella per le ferie, sfruttando le amministrazioni pubbliche o attingendo dai gruzzoletti più o meno consistenti e gelosamente tenuti nascosti.

Credo di dover ripetere una verità che si dimostra sempre più valida: in Italia non bastano più riforme, leggi e leggine, ma serve recuperare valori veri ed un forte richiamo alla laboriosità, alla parsimonia, all’accontentarsi del tenore di vita possibile, al godere di ciò che ci viene offerto, alla riconoscenza verso chi si prende cura di noi e alla consapevolezza che “il richiamo delle sirene è ingannevole” perché molti dei pretesi bisogni sono effimeri e soprattutto sono un espediente di gente interessata che ci guadagna sopra.

Ci vorrebbe maggiore interesse per il bene comune!

Dietro ogni volto c’è una vita, una storia con i suoi successi e le sue sconfitte. Dietro il volto di un anziano c’è un passato ancora più vasto.

Io conosco appena il volto e il nome dei miei coinquilini residenti al “don Vecchi”, non certamente le loro storie e l’impressione che ne ricevo è solamente quella che appare dai loro capelli bianchi e dai loro volti ricchi di rughe. Però so da sempre che la nostra vita di oggi è la risultante dell’educazione e delle vicende del nostro passato.

Talvolta, partendo dall’oggi, mi viene l’istinto di indagare, o meglio di fantasticare sul passato della gente che vive con me. Ci sono persone che fin dal primo ingresso si mettono a disposizione e si danno da fare, probabilmente capendo che la vita e il benessere della comunità dipende dall’impegno e dalla collaborazione di ognuno. Ci sono altri che, pacificamente, danno per scontato che il “quasi Paradiso” che hanno scoperto e in cui sono entrati, senza merito alcuno, sia quasi un albero selvatico nato per caso nel terreno di nessuno e i cui frutti ognuno ha diritto di cogliere senza dover chiedere permesso e ringraziare alcuno.

Ci sono altri ancora che perfino accampano diritti fasulli e si pongono in posizione critica per ogni cosa che non risponde ai loro desideri. Altri ancora che vivono da stranieri, per nulla preoccupati del bene comune, del tutto impegnati a fare i fatti loro e infine altri che han ricevuto un benservito assai disinvolto dai loro figli e poi spendono ogni risorsa ed ogni tempo per continuare a servirli, trascurando in maniera spesso assoluta la comunità in cui hanno trovato rifugio e che altri mantengono in vita.

Io avevo sognato, avevo sperato, avevo tentato di farne una “famiglia felice” di amici e di fratelli, ma ogni giorno di più mi accorgo che questa era un’utopia e, come tutte le utopie, costituisce un obiettivo ed una speranza ideale a cui tendere, ma che realisticamente non possiamo pretendere che si realizzi, almeno in tempi brevi e compiutamente.
Sono rassegnato? Ancora no, ma dovrò rassegnarmi!

Questa analisi un po’ deludente e amara, quando la applico alla nazione, all’Italia, mi fa compatire i suoi governanti, perché anche quando essi fossero retti e capaci di governare gli uomini, senza usare la forza e la costrizione, il loro compito è così arduo se non impossibile. Comunque vale la pena tentare.

Perché questa guerra?

Berlusconi ha detto che è stato Napolitano a volere la guerra in Libia. Sono convinto che, almeno in parte, abbia ragione, senza però averne capito il perché, soprattutto conoscendo il passato del nostro presidente, il quale non ho ancora capito se oggi abbia le idee chiare sulla democrazia. Nel Passato certamente no!

Ma non ho capito neppure perché Berlusconi non abbia ascoltato la voce della sua coscienza e non abbia esercitato il suo ruolo di capo del governo per dire di no. Anzi oggi, in contrasto con i suoi colleghi di governo, ha loro strappato il consenso di proseguire il conflitto.

Il risultato di questa improvvisa e folgorante idea di esportare la democrazia nell’Africa settentrionale? Decine di migliaia di morti, odio e rancori tra le diverse componenti di quel Paese, distruzioni infinite delle strutture e delle cose di quella povera gente.

Se penso alla fatica di mio padre, di mia madre e di noi loro figli per costruirci la nostra modestissima casa di quattro stanze, facendo a mano i blocchi di cemento, lavorando, di domenica, con l’aiuto dei compagni di lavoro di papà che, a loro volta, avrebbe in seguito aiutato per contraccambiare sempre in giorno di festa! Non riesco a tollerare le chiacchiere dei nostri governanti e soprattutto le distruzioni che stanno facendo in quel Paese.

Berlusconi ha decine di ville in cui abitare, Napolitano ha il Quirinale, casa in cui non mancano le stanze, la tenuta di San Rossore per le vacanze estive e di certo avrà in banca quattro soldarelli, ma i cittadini della Libia di certo non hanno tutto quel ben di Dio che hanno loro.

Mi domando con sempre maggior insistenza, rabbia e angoscia, che cosa ci sta a fare quel migliaio di parlamentari in Parlamento; eppure quelli di destra sanno bene far i conti e quelli di sinistra dicono che hanno a cuore la sorte dei poveri!

Se penso che il mio Stato domanda ad ogni italiano di lavorare fino al 23 giugno per le spese generali e poi spreca in aeroplani da combattimento e in bombe tanta fatica e tanto sudore! Se poi aggiungo che in questi giorni Tremonti ci dice che deve spremere, mi pare, altri quaranta, cinquanta miliardi di euro, mentre il nostro Governo sta sprecando in maniera così disumana e criminale quel poco di denaro che dice di avere, non capisco proprio più nulla!

E’ vero che lo stesso ministro ha detto che per risparmiare avrebbe preso l’aereo di linea per andare a Bruxelles, però non credo che con quel risparmio compenserà lo spreco che stiamo facendo.

Sapersi fermare al momento giusto

Ho letto una notizia che mi ha fatto molto dispiacere e nello stesso tempo è stata per me un grave monito.

Il “Gazzettino”, con un articolo a tre colonne, ha annunciato che don Verzè, sommerso dai debiti, ha dovuto cedere.

Don Verzè è un prete ultranovantenne, nato in un piccolo paese del veronese, ma ha avuto la sua educazione, e poi ha svolto tutto il suo servizio di sacerdote, a Milano, realizzando un’opera veramente mastodontica: il San Raffaele, ospedale di eccellenza, istituto di ricerche sul cancro ed università. Questo complesso di carattere scientifico è certamente una struttura di livello europeo se non mondiale.

Don Verzè, sacerdote del quale almeno due volte ho scritto su “L’incontro”, esprimendo tutta la mia ammirazione, anche a livello sacerdotale è una persona libera, senza complessi, ricco di fede ma nello stesso tempo capace di filtrare la sua religiosità attraverso una coscienza critica.

Però il motivo della mia ammirazione nasce dal fatto che è riuscito a tradurre la sua fede in una carità concreta, espressa appunto dal San Raffaele, l’ospedale più all’avanguardia nella metropoli lombarda. A mio umile parere questo prete è un cristiano di eccellenza e credo che se i titoli ecclesiastici dovessero esprimere davvero il suo valore, dovrebbe essere un super cardinale. Purtroppo, pur essendo don Verzè un sacerdote capacissimo di dare un volto concreto alla sua carità, l’età – 91 anni suonati – l’ha tradito ed egli si è impegolato in un mare di debiti, per cui ha dovuto chiedere aiuto al Vaticano e farsi da parte.

Monsignor Vecchi mi diceva che quasi sempre i grandi realizzatori ad ogni livello non sanno fermarsi a tempo debito e finiscono spesso per rovinare ciò che di positivo avevano fatto precedentemente. Così è capitato a don Verzè.

Questa notizia è stata l’ultimo tassello per farmi decidere che ormai è giunta l’ora di farmi da parte. La mia opera è lillipuziana in rapporto a quella di don Verzè, però le regole della vita non cambiano.

Prima della fine dell’anno chiederò di passare la mano ad un prete della nuova generazione che creda che la fede senza l’amore è soltanto aria fritta.

Quanta burocrazia nella Chiesa!

Non posso non seguire le vicende della Chiesa veneziana che sta vivendo il travaglio della transizione tra il vecchio Patriarca Scola, che ci lascia per una sede più prestigiosa, e quello che è ancora “in pectore” del Vaticano.

Io mi illudevo che il codice di diritto canonico fosse un retaggio del passato e che ormai rimanesse, come lo studio del latino, il quale aiuta a sviluppare l’intelligenza, a far scoprire le nostre radici e ad offrire i criteri portanti del buon vivere. Invece no!

In questi giorni ho scoperto che questo diritto canonico stabilisce procedure precise, nel nostro caso per il trapasso dei poteri, e che i vertici sembra che applichino con rigore queste procedure e soprattutto ci credano, osservandole come precetti, che pur essendo di un rango un po’ più sotto dei comandamenti, debbano essere osservati con fedeltà e rigore.

Per me, che in questo campo sono “un libero pensatore”, la cosa ha destato un po’ di sorpresa e di meraviglia. Io di solito vado al sodo, poco preoccupato delle procedure, verso cui non nutro gran fiducia o meno riverenza. Infatti, anche per quanto riguarda il codice civile e penale rimango un po’ indifferente e sospettoso e spesso dissenziente, e talora perfino schifato dalle procedure lunghe, formali e soprattutto poco concludenti.

Il mio recente impatto col diritto canonico mi ha spinto a delle considerazioni ulteriori, che forse hanno poco a che fare con questi discorsi, ma che riguardano più a fondo la mia fede e il mio modo di stare nella Chiesa. Ho la sensazione che l’apparato ecclesiastico, regolato da un’infinità di canoni e uffici, che è il supporto e lo strumento mediante il quale la religione passa il messaggio e i valori evangelici, sia quanto mai macchinoso ed eccessivamente pesante.

Questi ingranaggi ecclesiali, che per certuni sono quasi la spina dorsale della Chiesa, io li guardo con gli occhi del giovane David quando gli hanno proposto un’armatura pesante ed ingombrante per affrontare il gigante Golia. Anch’io preferisco “la fionda e i ciottoli di fiume”. Perfino il Papa, che è il capo della “burocrazia vaticana”, recentemente, parlando del Web, ha affermato che è ancora la testimonianza personale lo strumento principe per trasmettere la fede.

Sto pensando che l’organizzazione attuale – dicasteri, curie, uffici, commissioni, e quant’altro – che assorbono tanto personale e denaro, avrebbero bisogno di una rinfrescata, di una bella potatura e una mano di bianco per far emergere più evidenti la fede l’insegnamento di Gesù, il quale fu abbastanza essenziale quando strutturò il germe della Chiesa universale. Un dato m’è certo: non avrei mai speso tre-quattro anni della mia vita per laurearmi in diritto canonico!

All’Italia serve una classe politica diversa!

Un tempo vivevo nella parrocchia di San Lorenzo, ove eravamo in parecchi preti. Un mio collega, che faceva l’uomo di sinistra a livello politico e di fronda a livello ecclesiale, affermava che lui era decisamente schierato per la democrazia, ma a patto che a capo ci fosse un forte leader.

A quel tempo io ero convinto che, tutto sommato, egli auspicasse una soluzione, che essendo difficile da realizzarsi, gli permettesse di fare quello che meglio gli comodava. Oggi invece penso che non avesse tutti i torti, perché oggi ci troviamo di fronte a governi che non sanno scegliere, non sanno imporsi sugli irrequieti, sugli eterni scontenti o sugli interessati di turno. Oggi pare che non nascano più dei Cincinnato che abbiano il coraggio di dire: “Io credo in questa soluzione, se non vi vado bene tornerò a lavorare la terra; se mai un giorno riterreste d’avere bisogno di me, sono disponibile a mettermi a disposizione del Paese!”.

Oggi l’opposizione ufficiale pare che pretenda che la maggioranza governi come vuole lei. Ma pure nella maggioranza c’è una minoranza che ha la stessa pretesa. Chi poi è stato designato dal popolo a governare non ha il coraggio, la forza o la dignità di portare avanti la linea in cui crede e per cui è stato scelto, disposto a farsi da parte qualora la minoranza, esterna o interna, gli impediscano di portare avanti i suoi progetti; la conseguenza di tutto questo la paghiamo con le chiacchiere, l’immobilismo, lo scontento e, peggio ancora, con la progressiva perdita di fiducia nella democrazia.

Questo stato di cose svuota dall’interno il regime democratico. Pur rimanendo vero che “la peggiore democrazia è ancora da preferirsi alla miglior dittatura”, credo che se vogliamo liberare il nostro Paese dall’empasse in cui è caduto e dentro cui sta avviluppandosi come una mosca nella ragnatela, dobbiamo trovare il modo per reperire dei governanti più liberi e con maggiore dignità e che abbiano una spina dorsale più consistente.

Il nuovo carcere a Campalto: perché non farlo?

Qualche giorno fa sono venuto alla conclusione che Marco Pannella, il radicale non credente ed anticlericale, sta guadagnandosi il Paradiso digiunando per umanizzare le carceri del nostro Paese, che hanno raggiunto una brutalità veramente incivile, e sta dimostrandosi un profeta che aiuta la Chiesa fustigando col suo prolungato digiuno noi credenti così maldisposti a pagare anche piccoli “prezzi” per affermare i valori cristiani, soprattutto quelli della solidarietà, nei quali diciamo di credere.

Un proverbio spagnolo afferma che “Dio scrive dritto anche quando le righe sono storte”. Ne ho la riprova in questi giorni dal fatto che provvidenzialmente sono saltati fuori i soldi per costruire a Campalto un nuovo carcere in sostituzione di quello antidiluviano di Santa Maria Maggiore.

Con questa operazione si occuperebbero operai, dando benessere alla zona, si recupererebbero i vecchi magazzini dismessi dell’esercito, si creerebbe una fonte di guadagno per Campalto, ma soprattutto i cittadini che hanno sbagliato potrebbero scontare la loro pena in un luogo civile e vivibile.

No signori! Il solito gruppetto di persone con la testa per aria, monta la testa ad un gruppo di persone un po’ più numeroso e da mesi in Comune di Venezia c’è un tiramolla di proposte e controproposte che paralizza l’operazione, mentre delle povere creature, che pur hanno sbagliato – ma chi non sbaglia mai nella vita? – sono costrette a vivere in maniera disumana.

Ho letto sul quotidiano “Avvenire” che in una cella di sette metri quadrati sono costretti a vivere 6 detenuti, in alcune celle ve ne sono stipati 12-14, bagno e cucinino compresi. Volete che un giorno il buon Dio, nel giudizio finalmente giusto, non ci domanderà: «Dov’era il tuo fratello?».