Il parroco del domani

Ieri ho incontrato mia sorella Lucia che vive in stretto contatto con mio fratello don Roberto, parroco a Chirignago e che perciò partecipa più da vicino alle difficoltà di sempre di ogni parroco, alle quale se ne aggiunge qualcuna in più per i parroci dei nostri giorni. Lucia mi ha riferito una “frase storica” del nostro Patriarca: “Un prete per campanile!”

Quello del Patriarca non è un nuovo slogan a livello pastorale, ma una dura decisione data dalla carenza di preti.

Credo che don Roberto senta certamente più di me questo annuncio, perché ha attualmente un cappellano a mezzo servizio, ma presto teme di non avere più neanche quello.

La notizia, che mi giunge nuova solamente nella sua formulazione da slogan, “un prete per campanile”, mi ha fatto riflettere su questa questione che non mi è per nulla nuova. Presto non saranno più possibili neppure le soluzioni tampone delle “unità pastorali”, ossia l’aggregazione di più comunità parrocchiali con, alla guida, un solo prete quando esse sono piccole, o con una équipe di sacerdoti quando ci si riferisce a parrocchie più consistenti.

Queste soluzioni tampone, sono pur opportune ma non risolutive. Si pensa quindi con più frequenza e più determinazione a dare più responsabilità ai laici, al sacerdozio di preti sposati (il primo passettino a questo proposito lo si è fatto con l’introduzione dei diaconi che però, attualmente, svolgono compiti ancora marginali) e soprattutto al sacerdozio esteso alle donne.

In questa prospettiva in veloce evoluzione mi pare di scorgere anche qualcosa di provvidenziale. E di questo credo di avvertire già l’inizio, ossia il liberare il sacerdote sempre più velocemente e radicalmente da ogni compito organizzativo, per offrirgli la possibilità di assumere sempre più il ruolo di profeta, da un lato facendogli celebrare i divini misteri e dall’altro riservandogli il compito di chi annuncia la proposta a livello evangelico, lasciando invece ai rappresentanti della comunità le altre incombenze di ordine organizzativo e di gestione. Se al prete si tolgono gli infiniti incarichi che oggi gravano sulle sue spalle, “un prete per campanile” sarebbe già quasi di troppo!

Questi orientamenti, che qualcuno potrebbe pensare innovativi e forse rivoluzionari, non sono più tali perché non si tratta che di ritornare alle origini quando nelle prime comunità cristiane c’era chi provvedeva alla gestione della carità, che è il più importante impegno della parrocchia. Ma anche, ritornando indietro soltanto di cent’anni, c’erano le fabbricerie che avevano in mano la gestione della parrocchia.

Ho l’impressione che più si libera il sacerdote dalle pastoie burocratiche, più lo si aiuta ad assumere il ruolo dell’annunciatore, di chi propone i valori più alti, lasciando ad altri il compito della gestione pratica, che spesso rende odiosa la figura del sacerdote.

18.01.2014

La dottoressa Corsi

Attendevo da un paio di settimane con trepidazione questa telefonata, e purtroppo ora mi è giunta: la dottoressa Francesca Corsi, funzionario di alto livello del Comune di Venezia, è morta.

A motivo dei Centri don Vecchi in questi ultimi vent’anni il rapporto con questa donna è stato frequente, stretto e quanto mai collaborativo. Ho sognato e mi sono battuto con fatica e molta determinazione per la soluzione che col tempo è stata identificata nel Centro don Vecchi a favore degli anziani, ma ero sprovvisto di esperienza e conoscenza degli ingranaggi degli enti pubblici, mentre lei, che ha speso una vita all’interno di queste realtà, intelligente e determinata com’era, ha condiviso con me e mi ha offerto frequentemente soluzioni determinanti a livello legale e burocratico che da solo non sarei mai stato in grado di risolvere.

La dottoressa Corsi in questi ultimi vent’anni, all’interno dell’assessorato alle politiche sociali del Comune di Venezia, ha ricoperto ruoli di alto livello nel settore che riguarda gli anziani e i disabili, io l’ho conosciuta sui banchi della scuola quando insegnavo alle magistrali e lei era ancora una ragazzina.

Nacque, fin da allora, un rapporto di simpatia e di condivisione. Forse sono stato un docente anomalo, perché ho sempre tentato di passare valori piuttosto che aride nozioni dottrinali. Onestamente penso che i miei alunni abbiano colto e condiviso il messaggio di solidarietà in cui ho sempre creduto e che rappresenta il cuore del messaggio evangelico.

Francesca, da quanto ho potuto riscontrare, fu una delle alunne che recepì in maniera più seria e sostanziale questa proposta e l’attuò in maniera del tutto personale attraverso un suo itinerario spesso sofferto, ma sempre coerente.

Sulla testimonianza umana e sociale della dottoressa Corsi spero di ritornare con più calma e serenità. Ora la notizia della sua scomparsa mi turba troppo, anche perché sento rimorso per non averle detto più spesso e più apertamente il mio affetto, la mia ammirazione e la mia riconoscenza. Un sentimento di pudore e di rispetto reciproco ha sempre caratterizzato il nostro rapporto, tanto che io stupidamente le ho sempre dato del lei, nonostante le volessi tanto bene e condividessi tanto a fondo il suo modo di operare e la sua reale dedizione al prossimo, dedizione che superava in maniera abissale il suo dovere professionale.

Chi mi ha annunciato la morte della dottoressa Corsi, mi ha riferito che lei ha chiesto ad un suo collega a cui era legata da sentimenti di stima e di condivisione, che fossi io a celebrare il suo funerale. Questo mi assicura che l’intesa fu vera e profonda, nonostante il diaframma di un pudore che, soprattutto da parte mia, ha impedito un rapporto più caldo ed affettuoso.

Ora la piango, ma sono certo che la comunione di ideali con questa bella creatura mi aiuterà nel mio impegno a favore degli anziani e che assieme potremo fare ancora qualcosa di buono per i fratelli più fragili.

17.01.2014

Che tempo!

Sono ormai due o tre giorni che il cielo è chiuso e cupo ed una pioggia leggera mi mette tanta malinconia.

Ho appena dato uno sguardo al Gazzettino. M’è parso in linea col brutto tempo. Ogni giorno non faccio altro che trovare titoli tristi e deludenti, tanto che non mi viene voglia di leggerne il testo per paura di essere intristito ulteriormente.

La vita, il mondo e la società attualmente non fanno che colmarmi ogni giorno di tristezza. A parte i dissapori tra Letta e Renzi, Alfano e relative tifoserie, c’è ancora di peggio. In un momento in cui i mali del Paese non fanno che aggravarsi perché ogni giorno aumenta la disoccupazione e si chiudono fabbriche, questi mediocri rappresentanti della politica non fanno altro che litigare e dividersi ulteriormente.

Oggi poi, allo squallido scenario che ci viene offerto dalla politica e dalla cronaca nera, il quotidiano ci informa con grandi titoli e dovizia di particolari, che una suora ha partorito un bimbo “non sapendo” di essere incinta e che il Vaticano ha informato una commissione che si occupa di queste cose, che negli ultimi tre anni Papa Ratzinger e Papa Francesco hanno allontanato due, trecento preti perché accusati di pederastria.

Queste notizie che mi riguardano ancora più da vicino, sono per me ferite aperte e sanguinanti. Quello della suora passi – tra tante magnifiche e belle creature che rappresentano un qualcosa di splendido nella Chiesa, un piccolo neo non mi turba più di tanto – ma che un numero così consistente di sacerdoti abbiano rubato innocenza a dei bambini, proprio non mi va giù; solo a pensarci provo una vergogna infinita.

Questa mattina, in questo stato d’animo, mi sono ricordato di un’affermazione di un grande pensatore cattolico francese, se non ricordo male mi pare che sia Mauriach: “Ti ringrazio Signore per i preti che non sono degli angeli, perché se fossero tali non potrebbero mai capire ed aiutare noi poveri uomini!”.

Questo pensiero non mi ha rasserenato più di tanto, ma mi ha aiutato almeno un po’ a comprendere e a compatire tutto il resto. All’alba di questo nuovo giorno ho tentato di superare questa amara delusione e tristezza, rivolgendo al Signore una calda preghiera ed allargando le braccia per stringere al cuore questo mio e nostro povero mondo.

16.01.2014

La ricchezza della diversità

Moltissimi anni fa, con monsignor Vecchi, sono stato a Brescia per vedere come una delle parrocchie più importanti stava affrontando il problema dei senzatetto che vagano nelle grandi città. Era il tempo in cui a San Lorenzo stavamo progettando Ca’ Letizia; e la visita fu certamente utile nei riguardi di questo problema di ordine pastorale.

In quella occasione ebbi modo di partecipare anche ad un incontro di giovani appartenenti al movimento “Comunione e liberazione”, fondato dal prete milanese don Giussani. La riunione aveva luogo nell’oratorio parrocchiale. Non ricordo il tema affrontato però, a parte il fatto che il gruppo dei giovani era molto folto e composito – c’erano universitari e pure lavoratori – fui colpito dal modo in cui si svolgeva l’incontro. Una volta impostato brevemente dal conduttore l’argomento, i presenti chiedevano, uno ad uno, la parola, per portare il contributo personale, però non solamente non era prevista la replica di altri, meno ancora il dibattito, ma neppure osservazioni negative o positive su quello che chi era intervenuto aveva detto.

Quando chiesi al responsabile il perché di questo metodo strano, mi rispose che così si evitava la polemica che, secondo lui, non arricchiva il dibattito, mentre così ognuno aveva modo di confrontare pacatamente le sue opinioni con quelle degli altri.

Più volte ho tentato di usare questo metodo negli incontri che ho presieduto, però non ci sono mai riuscito.

A me capita di fare ne “L’incontro” delle affermazioni frutto di una faticosa ricerca personale, però sempre avverto che ci sono lettori che mi tirano per la manica pretendendo che non dica, o meglio scriva, quello che a loro non sembra giusto.

Io so di non avere la verità in tasca, so pure di non essere un luminare del sapere e neppure un esperto, ed affermo anche che sono sempre disposto a cambiare idea quando giungo alla conclusione che quella degli altri è più valida e più saggia della mia, però mi vien da dire: «Lasciatemi dire quello che ritengo giusto, non ha importanza se voi non lo condividete; se credete opportuno tenetene conto, oppure tirate diritto per la vostra strada».

Ripeto ancora che il confronto corretto e la diversità sono sempre un arricchimento.

15.01.2014

Il buio oltre la siepe

La legge dei centri concentrici credo che abbia molto da insegnare a chi è in costante ricerca del senso della vita, e soprattutto si sente partecipe di ciò che avviene sia vicino che lontano da noi, ma che comunque è legato ai problemi del nostro vivere. Quando una persona lancia un sasso nello stagno, nel punto dell’impatto nasce un’onda rilevante che, man mano si allarga, diventa sempre più tenue fino a scomparire, almeno alla visione dell’occhio umano.

Questo fenomeno, che obbedisce ad una legge della fisica, si realizza pure per quanto riguarda gli atti, i comportamenti o le scelte che avvengono in ogni angolo, anche il più remoto, del mondo. Oggi il fenomeno dei centri concentrici provocati dalle scelte dell’uomo sono ancora più evidenti in un mondo che, a motivo dei mass media, è diventato un villaggio globale. Oggi nessuno può dire “non sapevo”, “non mi riguarda” e “non mi interessa”, perché le nostre responsabilità sono ormai globali, essendo informati in ogni momento di quanto avviene in ogni angolo della terra. Una grande regista francese ha intuito quasi trent’anni fa questo fenomeno di corresponsabilità denominato in un suo film rimasto famoso “Siamo tutti assassini”.

In questi giorni i mass media ci hanno informato che il giovane e crudele despota della Corea del Nord avrebbe fatto sbranare, da un branco di cani affamati, un suo zio che pensava tramasse per spodestarlo dal potere, e l’altro ieri ho letto che si sono riempite due grandi navi di gas e prodotti chimici che l’altro satrapo della Siria ha accumulato nei suoi arsenali e che avrebbe usato per sterminare i suoi oppositori finendo poi per uccidere dei cittadini inermi del suo paese.

Questi non sono che due episodi di quello che sta avvenendo nel mondo, mentre i governi continuano a fare, senza scomporsi più di tanto, gli interessi dei loro popoli, mentre all’ONU si discute per niente, mentre i pacifisti sembrano totalmente impegnati per la TAV e le “grandi navi”, mentre perfino le comunità cristiane sono tutte dedite a celebrare i sacri riti.

Qualcuno è tentato di pensare che la strage degli innocenti di Erode sia una storiella del passato, mentre purtroppo nel nostro mondo si sono moltiplicati a dismisura gli Erodi disposti a tutto pur di rimanere al potere, mentre attorno a Gesù, venuto per ripeterci ancora una volta il discorso della montagna, ci sono solo poche “voci che gridano nel deserto”.

08.01.2014

“La bontà insensata”

Ho già raccontato che una quindicina di anni fa invitai un gruppo di signori ormai sulla cinquantina, quasi tutti sposati e sistemati da un punto di vista professionale, familiare ed economico, dei quali ero stato l’assistente scout ai tempi della loro adolescenza. Non volli però dare all’incontro il solito taglio “amarcord” del ricordare assieme momenti intensi della loro e della mia avventura giovanile, ma proposi invece di fare una verifica schietta e concreta su che fine avessero fatto le proposte ideali che avevo fatto loro, rifacendomi alla conosciutissima frase di quel grande pedagogo che fu il fondatore dello scoutismo: “Cercate di lasciare il mondo un po’ migliore di quello che avete trovato venendo a questo mondo!”.

Non sto a riferire il risultato di questa confessione collettiva, però debbo dire che, tranne qualcuno, molti si erano adeguati al pensiero medio che ha sempre proposto la carriera e il successo, il quieto vivere, uniformandosi agli standard dell’opinione pubblica e relegando nel mondo ovattato dei ricordi i valori ideali che noi educatori avevamo loro proposto.

Questa esperienza fu, francamente, un po’ deludente, per uno come me che crede ai valori che ha tentato di passare. Pur cosciente dell’affermazione vera e realistica che “è quanto mai comprensibile il rivoluzionario ventenne, ma è da chiedersi se è del tutto giusto che uno rimanga tale anche a quaranta”, mi sono chiesto: “Che cosa è rimasto del sognatore, del rivoluzionario, dell’integrista e del “ribelle per amore”? Questo incontro mi ha costretto infinite volte a fare un serio e talvolta uno spietato esame di coscienza sulla mia esperienza personale. Nella vita di certo ci sono modalità diverse di “resistenza”, di impegno, di servizio e di coerenza, però tutto sommato devo dire che sono costretto giorno dopo giorno a difendere coi denti i miei ideali umani, civili e religiosi e che spessissimo mi ritrovo solo e perdente. Se ragiono umanamente, la mia seppur piccola rivoluzione è fallita e mi ritrovo a vivere con quel mondo piccolo borghese e perbenista che spesso mi ha etichettato come un sognatore, mai contento, illuso, con la testa per aria ed avvocato delle cause perse.

Da qualche tempo, un po’ scoraggiato e solo, mi crogiolavo su questi pensieri, domandandomi sempre più spesso se ho sbagliato tutto e se sono un perdente. La Provvidenza mi ha buttato per Natale “il salvagente”, avendo pietà del mio sconforto. Una cara signora mi ha regalato un volume della Mondadori di Gabriele Nissin: “La bontà insensata”. La tesi di fondo si rifà, con una documentazione sconfinata, a persone “perdenti”, ma che come i profeti rimangono un “faro”, un punto di riferimento, una spina sulla coscienza ed una proposta per ogni tipo di società per quanto piatta ed opaca possa essere.

Non è molto, però credo che sia sufficiente per giustificare un sogno o una visione ideale della vita.

07.01.2014

Un dialogo particolare

Una signora che collabora con “L’Incontro” con degli articoli brillanti e piacevoli, un giorno mi confidava che a lei piace rimanere sola a casa e che, mentre provvede al suo riordino e alla pulizia degli ambienti, le piace chiacchierare con quanto c’è nel suo ambiente domestico. Non mi ha detto in che cosa consiste il suo dialogo, ma mi è sempre piaciuta l’idea e l’immagine di questa donna intelligente e sensibile che dialoga con la macchina da cucire, la macchina del caffè, o semplicemente con la scopa o con la tazzina da tè. La sua casa dev’essere veramente viva! Anche mia mamma, a cui chiedevo come mai i suoi fiori erano sempre splendidi mentre i miei erano sempre tanto poverelli e dimessi, con un fare affettuoso e sornione, mi diceva: «Ai fiori bisogna volergli bene e soprattutto parlargli».

Ho capito da tempo che in fatto di poesia e di sentimenti le nostre donne posseggono una marcia in più di noi uomini. Comunque, forse non per scelta cosciente, ma per associazione di idee, o semplicemente per senescenza, capita anche a me, in questi mesi, di parlare a dei fiori che mi sono molto cari. Forse non pronuncio parole, ma sento che mantengo vivo un dialogo di amore tenero e affettuoso con loro.

In tempi in cui ero forse un po’ più romantico, ho accennato più volte ad una accentuata simpatia che nutro, forse da decenni, nei riguardi di piccoli fiori bianco latte che sbocciano con i primi freddi e che durante i mesi del ghiaccio la fanno da re nei cortili del “don Vecchi”. Gli scorsi anni ne possedevo parecchi e facevano da bordatura ad un marciapiede tra la struttura ed un parco interno. La primavera scorsa però li ho fatti togliere per sostituirli con una siepe sempreverde, perché d’estate di quei fiori non rimanevano che le foglie, spesso insignificanti e miserelle. Me n’è rimasta, di queste piante invernali, solamente una decina nelle aiole di una corte interna.

Da un paio di settimane, dopo che sono sfioriti nel tardo novembre i crisantemi, questi fiorellini bianco latte sono bellissimi, sembra che dicano “guardateci!” a noi vecchi che li incontriamo andando in sala da pranzo. Queste piccole chiazze bianche color latte sulle piante verde scuro sembrano perle vere. Quando passo non trascuro mai di dir loro “grazie” per il loro sorriso d’inverno.

A primavera tutti i fiori sfoggiano la loro bellezza, ma nelle giornate uggiose e fredde di questi mesi i miei fiori bianchi sono semplicemente meravigliosi. Altro che le donne che, per via della moda, quest’anno sembrano diventate tutte dei trampolieri che camminano malsicuri con certe gambuzze da merlo o da gru di Chichibio del Decamerone di Boccaccio!

06.01.2014

Operai al lavoro

C’è un passo della Bibbia che mi torna sovente alla mente quando incontro persone di buona volontà che si danno da fare per il prossimo o che semplicemente tentano di far bene il loro dovere: “Quanto sono belli i piedi degli operatori di pace!”.

Un paio di settimane fa ho fatto una capatina in quel degli Arzeroni per vedere come vanno i lavori per la costruzione del “don Vecchi 5”. La mattinata era umida e fredda per una nebbia insistente, eppure, una volta entrato nel cantiere, ebbi una bellissima impressione. Quando si trattò di costruire gli altri quattro Centri precedenti, un po’ perché ero più giovane e un po’ perché ero direttamente responsabile, visitavo molto più di frequente i relativi cantieri e mi interessavo direttamente dei problemi; ora, un po’ perché sono più lento, un po’ perché c’è qualcuno più giovane ed intraprendente che ha responsabilità dirette, vado più raramente nel cantiere e mi informo in maniera più sommaria.

Comunque, durante l’ultima visita, nonostante la giornata uggiosa, ebbi una bellissima impressione. Siccome s’è accelerato il tempo della consegna del manufatto, sono attualmente impegnati una trentina di operai tra muratori, idraulici, elettricisti, ferraioli. Il cantiere sembrava un formicaio quanto mai operoso: tutti con l’elmetto di plastica gialla, intenti al loro lavoro, diretti da un capomastro intelligente e quanto mai esperto. Penso che quando l’impresa è seria e il committente è responsabile e paga a tempo debito, l’efficienza si manifesti in una operosità veramente apprezzabile.

Questi operai mi hanno dato l’impressione di essere consci della fortuna di avere un lavoro remunerato, di essere guidati da persone responsabili e competenti e di costruire un qualcosa di valido a livello sociale, un qualcosa che dà loro una dignità ed una consapevolezza della validità del loro lavoro.

Quanta differenza tra questo stile operoso ed impegnato e quello dei dipendenti di certi enti pubblici che sembrano degli sbandati, annoiati e inconcludenti che aspettano che arrivi sera o la fine del mese.

Ho sentito che l’apparato burocratico di certi Stati, quali l’Austria, la Germania o la Francia, è preparato ed efficiente, cosa che non possiamo certo dire della nostra Italietta. Un mio amico, ora in Paradiso, era solito affermare che non solo molti dei dipendenti pubblici sono inconcludenti, ma col loro cattivo esempio rovinano anche gli altri. A Cacciari, all’inizio di uno dei suoi mandati a sindaco, dissi che se fosse solamente riuscito a rendere efficiente il Comune, sarebbe passato alla storia come un sindaco meritevole.

Temo che nonostante tutta la sua filosofia, sia stato ben lontano dall’esserci riuscito.

05.01.2014

Un vecchio problema irrisolto

Qualche giorno fa, come avviene di frequente, un’impresa di pompe funebri mi ha fatto prelevare da parte di alcuni dipendenti per andare nelle sale mortuarie dell’Ospedale dell’Angelo, a dare la benedizione ad un concittadino defunto, prima che il legno coprisse per sempre il suo volto. E’ questo un servizio ormai poco gradito da parte dei miei colleghi perché dicono di non avere tempo, mentre io – un po’ perché sono ancora un prete vecchio stampo ed un po’ perché so che molti concittadini lo gradiscono – lo faccio volentieri.

In macchina con me c’erano tre necrefori, mentre uno aspettava all'”Angelo”. Attualmente le norme entrate in vigore il novembre scorso, prevedono che ad ogni funerale siano presenti quattro addetti con una preparazione specifica. Quasi tutte le imprese si sono adeguate a questa norma.

Mentre eravamo in macchina, uno di questi, che aveva in famiglia una qualche difficoltà, mi chiese se i sacerdoti usano ancora visitare e benedire le famiglie. Come sempre, da cosa nasce cosa, risultò che nessuno dei tre, abitanti in parrocchie diverse, aveva mai visto un prete a casa loro, pur abitandovi da molti anni.

Ora i preti son pochi ed ogni parrocchia quasi sempre ha soltanto il parroco, quindi una visita programmata a tutte le famiglie risulta obiettivamente difficile, a parte che con qualche sacrificio io sono riuscito, per ben 35 anni di seguito, a visitare tutte le mie 2400 famiglie. So che qualche parroco lo fa ancora, ma credo che in ogni caso sia assolutamente necessario che almeno nell’arco di due o tre anni il parroco incontri tutte “le sue pecore”. Questo da un lato perché non rimanga in parrocchia un “illustre sconosciuto” e dall’altro perché, lasciandosi assorbire totalmente dal piccolo gruppetto dei “soliti devoti”, non arrischi di immaginare che tutti la pensino come loro, mentre le cose stanno ben diversamente. Se poi ogni parrocchia mandasse in ogni casa un pur modesto mensile informativo e formativo – anche questa una cosa possibile – vi sarebbe almeno un dialogo in qualche modo aperto ed una qualche presenza nel territorio.

Io non sono più aggiornato sulle strategie degli uffici di curia e dei vari consigli vicariali, presbiteriali o pastorali, e dei progetti relativi, però ritengo che questa presenza e questo minimo di dialogo sia assolutamente indispensabile, altrimenti lo “Stato d’anime”, se qualche parrocchia ce l’ha ancora, invece delle quattro, cinquemila “anime”, lo si può ridurre a tre, quattrocento “parrocchiani”.

Perché dico queste cose? Si domanderà qualcuno. Perché i vecchi devono almeno essere la coscienza critica della comunità; anche questo è un servizio ed un atto d’amore per i colleghi e per le comunità relative.

04.01.2014

Api operose

Una delle cose che mi piacciono di più alla televisione sono i documentari sulle specie vegetali, ma soprattutto su quelle animali. Ogni tanto alla sera riesco a “beccare”, quasi sempre per caso, questi programmi che mi fanno sognare e che offrono una immagine di Dio non solamente sapiente, ma soprattutto pieno di estro e di fantasia, un Dio tanto più simpatico di quello che i miei docenti di teologia, ai tempi del seminario, mi han fatto conoscere e che assomigliava ad un professore di matematica, fisica o chimica, tutto serio e compassato che dà solo lezioni di logica. Penso alle cinque prove sull’esistenza di Dio di san Tommaso, un Dio tanto diverso da quello ricco di fantasia, un po’ sornione e geniale, che si diverte come un bambino con il lego, a costruire creature quanto mai interessanti – vedi i miliardi di uomini e donne tutti diversi e tutti meravigliosi, e altrettanti miliardi di animali e di piante tutti diversi e tutti di una ricchezza e di una ingegnosità sorprendente.

Mentre però l’uomo, il più elevato in grado tra le creature di Dio, per poca umiltà, e soprattutto per la sua supponenza, s’è pressoché rovinato usando male del dono della libertà, piante ed animali, che pare non abbiano commesso il peccato originale, sono rimasti tali e quali, come erano usciti dalla infinita intelligenza della mente di Dio e perciò sono di una ingegnosità e di una bellezza sorprendenti.

L’altro ieri ho seguito una “lezione” sulle formiche e i loro formicai che rappresentano, nella loro specie, delle vere cattedrali. Era un vero spettacolo vedere una folla di formiche portare nei loro magazzini degli enormi – per loro – fili d’erba. All’interno del formicaio questi fili si decompongono e fanno nascere così un fungo di cui esse sono ghiotte e che, al tempo stesso, produce anidride carbonica che mantiene a temperatura la loro dimora collettiva.

Quante volte, camminando per i prati, non ho dato un calcio a qualche piccola montagnola di terra che mi sembrava un qualcosa di banale e di insignificante, mentre ora ho appreso che ogni formicaio rappresenta una struttura quanto mai complessa, funzionale ed articolata, costruita con intelligenza da “vari ingegneri” e da “docenti” di fisica. Questi dati sono poi i più macroscopici, ma ad una analisi più approfondita anche un semplice formicaio e i suoi abitanti rappresentano un mondo affascinante da scoprire.

Queste esperienze mi aiutano a liberarmi da un concetto statico, freddo e compassato di Dio e lo sostituiscono col volto sorridente e divertito di Chi ha costruito un mondo così vario e complesso, perché io non finisca mai di scoprire quanto sia infinito e sapiente il Dio che volle che io fossi suo figlio.

03.01.2014

Alternative

Questo pomeriggio, dato che in cimitero s’è chiuso alle 12, mi sono preso qualche ora di libertà. Dopo aver pranzato con mio fratello Roberto e le mie sorelle Rachele, Severina e Lucia al Seniorestaurant del “don Vecchi”, assieme ai pochi residenti superstiti dagli inviti di prassi dei loro famigliari, ho prima fatto un pisolino, senza la preoccupazione di dover celebrare nella mia “cattedrale fra i cipressi”, poi ho seguito per intero il concerto di capodanno da Vienna trasmesso in Eurovisione. Ogni anno, quando seguo questo concerto, ho la sensazione di immergermi nella vecchia Vienna romantica; sono affascinato da quella sala in cui trionfa il barocco nel suo maggior splendore, dalla magia degli stucchi, dai grandi lampadari di Boemia, ma soprattutto dall’immensa orchestra e dal pubblico composto e partecipe che vibra letteralmente e si lascia coinvolgere fino in fondo dalla musica che è tipicamente viennese.

I primi brani non li conoscevo, ma quando il maestro ha alzato la bacchetta per dare il via al “Bel Danubio blu”, commentato dalle immagini di due ballerini di danza classica che volteggiavano leggeri e leggiadri, veramente ho avvertito qualcosa di sublime in cui danza, poesia e musica si fondevano in un’unica armonia. Quanta bellezza! Di quanta dolcezza soave sono capaci la donna e l’uomo!

Purtroppo, per una strana e inspiegabile associazione di idee, a questa visione si sono sovrapposte le tristi e tragiche immagini che avevo visto il giorno prima, sempre alla televisione, di giovani soldati congolesi in tuta mimetica che scorrazzavano con i fuoristrada, armati di mitragliatrici, nelle strade polverose di Kinsasa nel Congo martoriato da un’ennesima guerra civile, a caccia di altri giovani che indossano una tuta mimetica diversa, ma pronti, con le loro armi micidiali, ad uccidere, forse non sapendo, né gli uni né gli altri, il motivo di quella caccia spietata ed omicida.

Ebbi la stessa emozione tanti anni fa a Redipuglia, visitando il grande cimitero della prima guerra mondiale, dove sono sepolti, gli uni accanto agli altri, soldati italiani ed austroungarici, vedendo i prati verdi trapuntati dai sassi bianchi. Mi sono chiesto perché questi ragazzi, invece che spararsi a vicenda, non hanno giocato una bella partita a caccia al tesoro e, semmai, perché non hanno sparato a chi li ha mandati a morire senza alcun motivo!

Chissà che prima o poi gli uomini abbandonino la triste arte della guerra per dedicarsi alla musica, alla poesia e al gioco!

01.01.2014

La pubblica arroganza

Pare che quelli del pronto soccorso dell’Ospedale dell’Angelo non solamente non abbiano adottato la soluzione dell'”uovo di Colombo” che io avevo suggerito qualche settimana fa per evitare le eterne attese e le relative rimostranze dei cittadini, ma pure abbiano bisogno di ulteriori suggerimenti.

Questa mattina “Il Gazzettino” ha pubblicato, con un titolo a cinque colonne, l’indignazione per un’attesa di cinque ore per ottenere un elettrocardiogramma e l’altro ieri una persona amica, del tutto attendibile, mi ha parlato della maleducazione di un medico, che, credendosi un padreterno, ha inveito in maniera quanto mai prepotente ed incivile nei riguardi di una signora che aveva accompagnato in ospedale una persona, forse in coma etilico e che si dava da fare, forse un po’ ingenuamente, per aiutarla. In questo caso non è affatto sufficiente suggerire ai responsabili lo stratagemma dell'”uovo di Colombo”, ma è necessario richiedere alcune lezioni di una maestra di prima elementare che rinfreschi la memoria sulle regole della buona creanza e, magari, prescriva di scrivere per cento volte, come un tempo ordinavano i vecchi maestri, “devo essere rispettoso verso tutti, ma in maniera particolare verso le persone meno istruite”,

Chi mi legge almeno qualche volta, conosce di certo la mia “guerra dei cent’anni” verso i burocrati, mentre conosce meno quella nei riguardi dei dipendenti degli enti pubblici. Sono ben cosciente che generalizzare è scorretto ed ingiusto – ci sono ottime persone, serie, educate, laboriose ed impegnate in ogni comparto della nostra società – però pare che certi responsabili degli enti pubblici siano persino troppo tolleranti nei riguardi dei loro dipendenti che si dimenticano di frequente che sono pagati anche dagli ultimi cittadini e che essi sono “i loro padroni”.

Se il rispetto lo si deve a tutti, a maggior ragione lo si deve al proprio “datore di lavoro” dalle cui tasche arriva la paga mensile. Arroganza, prepotenza e maleducazione non si devono usare verso alcuno, ma in maniera particolare non si devono usare verso gli umili e gli indifesi.

La ricetta a cui io ricorro in questi casi e che suggerisco a tutti coloro che subiscono questi affronti, è la denuncia scritta ai superiori del comportamento di simili soggetti. Non sempre alla prima denuncia le cose cambiano, ma quando essa si ripete, prima o poi sono costretti ad intervenire. E’ ormai tempo di non stare col capello in mano verso i propri dipendenti, che sono pagati per fornire le loro prestazioni specifiche e per fornirle in maniera corretta e cortese!

31.12.2013

Il sermone che avrei voluto fare

Mi pare di aver capito, dalla reazione di tanti fedeli, che la nostra gente non ama assolutamente che il sacerdote faccia la predica leggendo un testo scritto. Infatti il sermone scritto risulta poco vivo, spesso noioso, poco spontaneo, perché quando uno scrive cerca con attenzione le parole ed è quasi lezioso nel proporre il messaggio.

La predica in diretta è più difficile anche quando il sacerdote se l’è preparata in maniera accurata. Sono pochi però i preti che hanno un bel dire, sciolto, convincente, perché i preti non sono scelti col criterio con il quale si scelgono gli attori del cinema o di teatro. La vocazione nasce da motivazioni ben diverse che non hanno nulla a che fare con l’eloquenza.

Io sono uno della maggioranza di sacerdoti che, quanto alla predica, si arrovella, arranca, pur tentando di prepararsi accuratamente e per tempo. Normalmente mi faccio degli appunti abbondanti che però tengo sempre in tasca perché, se me li metto sull’altare, mi fanno confusione e farfuglio ancora peggio. Predicare per me è un tormento, soprattutto avendo la convinzione che la Parola di Dio meriterebbe di essere offerta in un “piatto d’oro” e che il popolo del Signore avrebbe diritto ad una meditazione profonda, intelligente e soprattutto fedele e convincente.

Se sempre per me la predica costituisce un tormento, nelle occasioni delle grandi feste cristiane, nelle quali il messaggio e le verità proposte sono particolarmente importanti, essa diventa un autentico dramma per la paura di impoverire il messaggio del quale tutti abbiamo estremo bisogno.

Per questo Natale volevo passare il messaggio che se non siamo vigili ed accorti, la nostra società svuota “la bella notizia” del suo contenuto prezioso, lasciandoci il guscio che ci viene dalla tradizione dopo averlo riempito di paglia e di volgare segatura. Riassumo per sommi capi la predica che volevo fare, ma che è risultata, a parer mio, incerottata da tutte le parti. Il motivo da cui sono partito è stato il titolo di un articolo apparso su “Avvenire”: “Ci hanno rubato il Natale!”.

Punto primo: ci hanno rubato il Natale di Gesù, Figlio di Dio, il Gesù povero, il Gesù che ci avrebbe parlato del Padre, il Gesù delle Beatitudini, il Gesù della condivisione, il Gesù venuto a ripeterci “che Dio non è ancora stanco di noi, che non ci volta le spalle ed è disposto a perdonarci”.

Punto due – i ladri: il mercato, il consumismo, i benpensanti, la pubblica opinione, l’edonismo.

Punto tre: i ladri hanno messo al posto del Gesù del Vangelo, Babbo Natale, quella maschera un po’ “rimbambita e stupidotta” che, pagata dai commercianti, al posto delle grandi verità sulla vita, dispensa caramelle, cenoni, vacanze paradisiache sulla neve, luminarie e auguri banali.

Punto quattro: riprendiamoci il nostro Natale, il Natale della fede, del Dio che s’è fatto povero, piccolo e fragile, perché lo possiamo incontrare, amare e servire ogni giorno nelle attese di tutti coloro che sono poveri, bisognosi di amore, di aiuto, di pace e di speranza.

Conclusione: riprendiamoci il nostro Natale andando al presepio per scoprire che Maria ha il volto bello e sacro della maternità anche delle nostre donne, che Giuseppe è l’uomo che sa assumersi le sue responsabilità, che il piccolo Gesù accetta anche il mio povero dono come accettò quello dei pastori, e ritorniamo dal presepio ricchi di questa nuova lettura della vita e del quotidiano.

30.12.2013

La gratuità sacerdotale

Come mi lasciano assolutamente indifferenti le disquisizioni spirituali, i voli mistici e le esegesi meticolose delle pagine dei testi della Sacra Scrittura, per quanto esse mi possano apparire alte e sublimi, così invece mi mettono radicalmente in crisi le scelte esistenziali di preti e di laici che tentano di tradurre nella vita concreta il messaggio cristiano.

Alcuni mesi fa, in una delle infinite pagine dei miei diari, confessai la mia sorpresa di fronte ad una precisa presa di posizione di un mio collega che avevo tentato in qualche modo di ricompensare per essersi reso disponibile a celebrare i divini misteri nel Centro don Vecchi di Campalto. E’ arcinoto che i settanta, ottanta anziani residenti nel Centro di Campalto sono particolarmente segregati a motivo di via Orlanda, una strada supertrafficata e della assoluta impossibilità di raggiungere perfino la vicina parrocchia di Campalto, sia a piedi che in bicicletta.

In verità non è che ci sia stata una richiesta corale per avere la messa festiva in casa, però un certo numero di residenti ne avrebbe gradito la celebrazione ed io più di loro. Dopo notevoli peripezie piuttosto negative, un parroco di una parrocchietta vicina, si offrì spontaneamente di farlo. Ne fui edificato e, com’è d’uso, cercai di fargli avere una ricompensa adeguata. Non ci fu verso! Rifiutò cortesemente, ma altrettanto decisamente, ogni compenso diretto o indiretto. Avendo io insistito ulteriormente, riferendomi ad una prassi consolidata in proposito, mi disse che aveva scelto di rifiutare sempre ogni compenso in occasione di qualsiasi servizio religioso da lui prestato.

Ripeto: fui assai edificato e su questa sua scelta feci un serio esame di coscienza sul mio modo di comportarmi in proposito. Io non ho mai chiesto nulla e di certo non chiederò nulla in futuro per le mie prestazioni religiose, però, avendo deciso di devolvere ai poveri fino all’ultimo centesimo di quanto mi si offriva, ho sempre accettato le offerte, spesso anche molto generose.

Conclusi che le due scelte, pur essendo diverse, fossero soluzioni accettabili e condivisibili entrambe. Senonché qualche settimana fa, un mio amico mi regalò un volume: “Lettera all’amico vescovo”. Capii subito che il titolo è un pretesto letterario per proporre in maniera decisa la tesi ideale perseguita dal sacerdote milanese, don Luisito Bianchi che, riferendosi all’affermazione del Vangelo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, non solo rifiutava le offerte in occasione di celebrazioni delle messe e dei sacramenti, ma scelse di mantenersi lavorando: con prestazioni di lavoro intellettuale quale traduttore di testi, e manuale quale manovale in fabbrica, o inserviente in ospedale, rifiutando la “paga” che col concordato di Craxi il prete riceve dallo Stato e dalla Chiesa.

Questa testimonianza, che ritengo bella, luminosa e profetica, non penso che sia realisticamente e positivamente praticabile da tutti i preti perché farebbe mancare una disponibilità di cui oggi il popolo cristiano ha assoluto bisogno, però rimane essa un monito e costringe ad una verifica della quale c’è anche oggi assoluta necessità.

Il tempo della vendita delle indulgenze è fortunatamente finito da un pezzo, ma la necessità di una vita sobria, povera, disinteressata e generosa da parte dei preti, purtroppo è ancora terribilmente attuale.

29.12.2013