Il sermone che avrei voluto fare

Mi pare di aver capito, dalla reazione di tanti fedeli, che la nostra gente non ama assolutamente che il sacerdote faccia la predica leggendo un testo scritto. Infatti il sermone scritto risulta poco vivo, spesso noioso, poco spontaneo, perché quando uno scrive cerca con attenzione le parole ed è quasi lezioso nel proporre il messaggio.

La predica in diretta è più difficile anche quando il sacerdote se l’è preparata in maniera accurata. Sono pochi però i preti che hanno un bel dire, sciolto, convincente, perché i preti non sono scelti col criterio con il quale si scelgono gli attori del cinema o di teatro. La vocazione nasce da motivazioni ben diverse che non hanno nulla a che fare con l’eloquenza.

Io sono uno della maggioranza di sacerdoti che, quanto alla predica, si arrovella, arranca, pur tentando di prepararsi accuratamente e per tempo. Normalmente mi faccio degli appunti abbondanti che però tengo sempre in tasca perché, se me li metto sull’altare, mi fanno confusione e farfuglio ancora peggio. Predicare per me è un tormento, soprattutto avendo la convinzione che la Parola di Dio meriterebbe di essere offerta in un “piatto d’oro” e che il popolo del Signore avrebbe diritto ad una meditazione profonda, intelligente e soprattutto fedele e convincente.

Se sempre per me la predica costituisce un tormento, nelle occasioni delle grandi feste cristiane, nelle quali il messaggio e le verità proposte sono particolarmente importanti, essa diventa un autentico dramma per la paura di impoverire il messaggio del quale tutti abbiamo estremo bisogno.

Per questo Natale volevo passare il messaggio che se non siamo vigili ed accorti, la nostra società svuota “la bella notizia” del suo contenuto prezioso, lasciandoci il guscio che ci viene dalla tradizione dopo averlo riempito di paglia e di volgare segatura. Riassumo per sommi capi la predica che volevo fare, ma che è risultata, a parer mio, incerottata da tutte le parti. Il motivo da cui sono partito è stato il titolo di un articolo apparso su “Avvenire”: “Ci hanno rubato il Natale!”.

Punto primo: ci hanno rubato il Natale di Gesù, Figlio di Dio, il Gesù povero, il Gesù che ci avrebbe parlato del Padre, il Gesù delle Beatitudini, il Gesù della condivisione, il Gesù venuto a ripeterci “che Dio non è ancora stanco di noi, che non ci volta le spalle ed è disposto a perdonarci”.

Punto due – i ladri: il mercato, il consumismo, i benpensanti, la pubblica opinione, l’edonismo.

Punto tre: i ladri hanno messo al posto del Gesù del Vangelo, Babbo Natale, quella maschera un po’ “rimbambita e stupidotta” che, pagata dai commercianti, al posto delle grandi verità sulla vita, dispensa caramelle, cenoni, vacanze paradisiache sulla neve, luminarie e auguri banali.

Punto quattro: riprendiamoci il nostro Natale, il Natale della fede, del Dio che s’è fatto povero, piccolo e fragile, perché lo possiamo incontrare, amare e servire ogni giorno nelle attese di tutti coloro che sono poveri, bisognosi di amore, di aiuto, di pace e di speranza.

Conclusione: riprendiamoci il nostro Natale andando al presepio per scoprire che Maria ha il volto bello e sacro della maternità anche delle nostre donne, che Giuseppe è l’uomo che sa assumersi le sue responsabilità, che il piccolo Gesù accetta anche il mio povero dono come accettò quello dei pastori, e ritorniamo dal presepio ricchi di questa nuova lettura della vita e del quotidiano.

30.12.2013

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