Per far il bene servono fondi!

Qualche giorno fa due vecchi amici altoatesini, da molto tempo residenti a Mestre, mi portarono un depliant trovato durante una loro visita ad una chiesa tedesca, in una delle tante scorribande che sono soliti fare in Germania.

Sorridenti e sornioni porgendomi il foglio stampato in carta patinata con la riproduzione del soffitto di una grande chiesa gotica, mi chiesero: “E’ stato lei a suggerire al parroco tedesco l’espediente di vendere le stelle della sua chiesa per recuperare il denaro necessario per il restauro dell’edificio?”

Evidentemente ricordavano la mia impresa di vendere le stelle dorate della chiesa di Carpenedo per costruire il don Vecchi!”

I tedeschi con precisione teutonica avevano contato esattamente il numero delle stelle: 8758 presenti nei singoli segmenti separati dalle nervature del soffitto e avevano preparato il documento con cui si registrava il contratto d’acquisto consistente in 50 euro per stella.

Sono stato felice di aver aperto una via che altri stanno seguendo, spero che a qualcuno venga in mente di chiamarla con il mio nome.

Questa scoperta ha acuito la mia preoccupazione nel non riuscire più a scoprire che cosa posso ancora vendere per pagare il don Vecchi di Campalto.

Ho venduto le stelle della chiesa, le pietre del selciato, i mobili della canonica, le icone… Pur lambiccandomi il cervello da mane a sera, non so proprio cosa mettere all’incanto.

Qualcuno mi ha suggerito di mettere sul mercato dei bond da mille euro ciascuno, non esigibili prima di due anni, con la segreta speranza che gli investitori si dimentichino di chiedere il rimborso, essendosi nel frattempo abituati a farne senza, ne donino praticamente il controvalore alla Fondazione.

Per ora sto studiando con gli esperti l’operazione sperando che non risulti un flop come è toccato a Tremonti con le banche italiane!

Il volto e il cuore del Dio della nostra Chiesa può essere sorprendente!

Credo che mai ho apprezzato il Vangelo quanto lo sto amando ed apprezzando oggi.

Quasi ogni domenica sarei tentato di aprire il mio sermone dicendo alla mia comunità, che in maniera tanto partecipe si riunisce attorno all’altare: “Oggi il Signore ha delle splendide cose da dirci, apriamo il cuore per riceverle come un dono importante”.

Spesso ripeto questa premessa e se talvolta la ometto non è perché non sia convinto dell’importanza del messaggio, che veramente rappresenta la più bella notizia, ma solamente perché non voglio essere ripetitivo e tedioso.

Questa mattina mi è parso che Gesù abbia voluto mettere a fuoco come Egli concepisce la religione, non come un qualcosa di chiuso, prerogativa e monopolio di qualcuno, ma una realtà avulsa da vita e chiusa in un fortino per custodire gelosamente i suoi tesori, paurosa di un mondo ostile e meschino che l’assedia, tutta intenta a celebrare i suoi riti misteriosi che poco hanno a che fare con la vita, ma come un faro che indica il porto a tutti, a coloro che la stimano e che hanno fiducia, ma altrettanto disponibile verso chi la pensa diversamente e talvolta perfino l’osteggia.

Ho tentato con tutte le mie forze di dire che Gesù pensa alla chiesa non come una setta chiusa, diffidente, arroccata in se stessa, che vede nemici dappertutto, che diffida del domani, della vita e del prossimo, ma invece come una comunità aperta solidale con tutti, felice di riconoscere tutto il bene che germoglia nel cuore dell’umanità, attenta a tutto ciò che c’è di positivo, fiduciosa con tutti ed invece estremamente preoccupata che il male non si annidi dentro di se, e decisa a liberarsene perché non diventi scandalo per “i piccoli”.

Mi è parso che i testi della Scrittura non solo avvalorassero questa visione, ma invece me la imponessero.

Però dopo “l’andate in pace” mi tormentava la coscienza temendo di non aver espresso bene questa bellissima ed affascinante verità. Se non che mi si accostò una cara signora, che conosco da tanti anni, tormentata che il figlio avesse abbracciato la religione indù, mi disse: “Allora posso sperare, don Armando, che c’è salvezza anche per mio figlio, che ama, rispetta il prossimo, vive mite e sereno?”

Risposi: “Certamente si, il Padre non vuole “cattolici”, ma invece desidera uomini buoni, pacifici, onesti e soprattutto fratelli, questo è il volto e il cuore del Dio della nostra Chiesa”.

Un “Matusa”

Le mie gaffes sono proverbiali, un po’ sono dovute al fatto che non sono fisionomista, e un po’ perché sono perennemente distratto e continuo a pensare ai fatti miei anche quando, le mutate situazioni, mi dovrebbero costringere a voltar pagina.

Due tre mesi fa mi si è chiesto di celebrare il commiato di un membro di una nota famiglia di Mestre, che pur provenendo dall’Istria, s’è totalmente integrata nel tessuto della nostra città motivo per cui moltissimi mestrini la conoscono. Io ebbi tra i miei alunni delle magistrali, una ragazzina di questa famiglia.

Ai tempi della scuola quarant’anni fa, quella ragazza si faceva notare perché bella, disinvolta, brillante nel modo di fare e di atteggiarsi, il fatto poi che nella sua parlata ci fosse l’accento ed il calore della terra oltre l’Adriatico, erano elementi per cui mi è sempre stato facile ricordarla.

La mamma poi di questa ragazza mi aveva raccontato dello stile di vita d’inizio secolo, di quella gente, questo coniugato alle tristi vicende dell’esodo e della bellezza di quella terra e di quel mare, mi hanno favorito nel mettere in una cornice particolarmente bella a quella creatura.

L’altra mattina due signore, che avevano superato di certo la mezza età, mi salutarono con particolare calore e vedendo che faticavo a riconoscerle mi ricordarono del funerale.

Finalmente ci arrivai ad inquadrare queste due care creature come appartenenti a questa famiglia trasferitasi a Mestre dalle terre della Dalmazia.

A questo punto accadde la gaffe; mi venne da chiedere notizie della mia alunna, che supponevo fosse una figlia, se non una nipote di queste due signore. “Sono io” mi disse la più piccola di statura. La guardai sorpreso e tentai goffamente di riparare lo svarione. Ci salutammo con affetto, lei certamente accusò il colpo, pur facendo finta di non averlo ricevuto ed imputando a malessere le detestabili ed amare tracce che il tempo aveva lasciato sul suo volto.

Quando rimasi solo, da un lato mi dispiacque di averla involontariamente ferita, riproponendomi di essere in futuro più cauto e dall’altro lato ricordai della vecchia e saggia sentenza della chiesa, “Sic transit gloria mundi”. È tanto effimera ed inconsistente la bellezza. Poi mi autoflagellai dicendomi: “Cosa penserebbero di me tutte quelle ragazze che ho incontrato quarant’anni fa sui banchi delle magistrali?”

Se fossimo nel ’68 di certo mi definirebbero col termine “Matusa”.
Debbo ricordarmelo!

Capire le avversità della vita

Io purtroppo non sono un mistico, pur avendo una sconfinata ammirazione per chi sa immergersi nel profondo ed ineffabile mistero di Dio e sa accostarsi alla vita avendo la capacità di inquadrare ogni incontro ed ogni esperienza alla luce di questa immensa ed assoluta realtà.
Non riesco a camminare su questa lunghezza d’onda.

Spesso navigo a vista cercando la direzione per orientarmi dalle piccole banali esperienze quotidiane. Non per questo talvolta non intravedo, magari nel baluginare di qualche percezione, il mondo bello e luminoso che sta oltre la nebbia impalpabile che incontro sulla mia strada.

Questa mattina, durante la fatica della meditazione, ho percepito una grande verità da cui è sgorgata una norma morale di grande portata.

Il cristiano che aveva steso il testo della meditazione, ringraziava di tutto cuore il Signore per tutte le cose bella della vita e per tutto quello che gli aveva elargito, ma continuava ribadendo che la riconoscenza a Dio non è dovuta solamente per la constatazione di quanto sia grande la sua generosità verso noi uomini, ma doveva manifestarsi anche per le avversità e per quanto noi, in maniera miope, consideriamo dolori, disgrazie e disavventure per le quali di primo acchito ci siamo dispiaciuti.

Dapprima ciò mi parve assolutamente assurdo, ma poi facendo una rapida verifica sulle disavventure e sulle presunte croci della vita passata e presente ho dovuto constatare che in verità da esse ho compreso il volto più vero della vita. Partendo da quelle esperienze amare, sempre, ho scoperto quello che veramente conta, a differenza di ciò che è effimero ed illusorio!

La razionalità, che è sempre un po’ in ritardo sul cuore e sulle intuizioni, mi ha poi confermato che Dio non può che amare le sue creature, e anche e soprattutto quando pare le castighi, è proprio il momento che le ama di più e perciò interviene perché non si facciano troppo del male. Ora mi pare di aver capito, però devo assimilare e tradurre a livello esistenziale questa verità.

Questo mio umile e disordinato diario…

Sono sempre stato ammalato di stakanovismo, col tempo non sono guarito, anzi invecchiando penso di essere un po’ peggiorato.

Uno degli effetti di questa sindrome è quella che ho sempre paura di perdere tempo, un altro quello di non impiegarlo nel modo migliore, quello di non dedicare tempo sufficiente a quello che credo essere il mio dovere di prete.

Più di una volta, ripensando alla ripartizione della mia giornata, ho confessato che essa comincia alle 5,30 per finire alle 21, perché, per quanti propositi abbia fatto, nel dopo cena non riesco a far nulla perché mi assale una sonnolenza invincibile!

Al mattino però, pur mantenendo la sveglia ufficialmente alle 5,30, essa suona per mia volontà dai 10 ai 15 minuti prima, motivo per cui, mentre mi alzo, ho modo di ascoltare una bellissima rubrica condotta da anni da Vittorio Schiraldi, messa in onda da Rai Uno e che ha per titolo “Un altro giorno”

Si tratta di una trasmissione di una dozzina di minuti in cui questo autore affronta temi di attualità, approfondendoli ed inquadrandoli a livello psicologico ed esistenziale; è veramente una bella rubrica, interessante, intelligente ed anche piacevole.

L’unico neo, non dell’autore, ma dell’ascoltatore è che quella rubrica, che potrebbe essere anche denominato “Il diario di un uomo del nostro tempo” è corretta, documentata, profondamente, mentre “Il diario di un prete in pensione” è spesso disordinato, poco scorrevole, talvolta ripetitivo ed anche talora sgrammaticato. Provo quindi invidia e peggio ancora scoramento constatando nel confronto la mia pochezza, della quale sono da sempre ben consapevole.

Da ciò nasce la tentazione di smettere o di ridurre il tutto a qualche flash sul mondo che mi circonda.

Eppure sono convinto di avere qualcosa da dire, soprattutto di avere il coraggio di dirlo, mentre constato che attorno a me, un sacco di gente, che forse più o meno lucidamente, sente il bisogno di offrire la propria critica ed il proprio contributo non osa farlo o ha paura di pagarne lo scotto.

Quindi nonostante che di fronte a “Un altro giorno” di Vittorio Schiraldi, sia decisamente perdente, continuo a farlo, dato il plauso e gli incoraggiamenti che mi giungono quasi ogni giorno.

Il messaggio che vuole trasmettere L’Incontro

Oggi ho incontrato in ospedale un collega delle magistrali, che non incontravo almeno da quarant’anni.

Inizialmente, pur ricordando i dati sommatici di questo anziano signore, che rivedevo dopo tanto tempo nella cornice dello splendido ed ormai rigoglioso giardino pensile dell’ospedale dell’Angelo, feci fatica a ricordare dove e come l’avevo conosciuto. Poi lui accennò “Al Tommaseo di via Cappuccina” allora mi sovvenne il quadro di un’esperienza orami tanto lontana.

Fui tanto felice del suo entusiasmo, del calore umano con cui mi trattava e poi pian piano compresi che, mentre io ero rimasto fermo a qualche decennio prima, egli invece aveva continuato a sentirmi parlare mediante la lettura de “L’incontro” che non so dove trovi.

L’entusiasmo lo portò a confidarmi che a quel tempo delle magistrali, egli era mezzo comunista, mentre ora aveva capito che era invece mezzo scemo! Evidentemente aveva compreso dalle pagine del mio diario che considerava l’esperienza storica del comunismo ormai definitivamente conclusa.

La mia speranza è che “L’incontro” non passi solamente un indirizzo di carattere politico, che considero abbastanza marginali alla vita, ma provochi invece un’attenzione al mio struggente bisogno di pensare ad una profonda purificazione del nostro modo di essere cristiani oggi, ed un rilancio della proposta evangelica che sola oggi può dare risposte vere alle tante attese dell’uomo.

Comunque me ne tornai a casa contento sperando di poter continuare a seminare a larghe mani per qualche anno almeno e consolato che i gravi e insopportabili costi del periodico trovino giustificazione più che ragionevole.

La morte della parrocchia

Ancora un incontro, poi la pausa per pranzo, senonchè, verso mezzogiorno, squilla il telefonino.

Una signora mi pregava di dare una benedizione, prima che calassero nella fossa, un suo conoscente o parente.

Non capii subito come stessero le cose, pensai che si trattasse, come abbastanza di frequente avviene, che i familiari volessero un’ultima benedizione, come si usa da secoli, prima dell’inumazione e che uno dei tanti parroci, come avviene spesso, si fosse rifiutato di farlo dopo aver concluso il funerale.

Invece no, non s’era fatto alcun rito religioso in occasione del commiato e la salma era destinata a passare dalla cella mortuaria direttamente alla fossa.

Probabilmente una parente era riuscita a convincere la famiglia a permettere, almeno all’ultimo momento un piccolo segno religioso.

Sarei andato immediatamente, ma un precedente impegno mi teneva occupato almeno per mezz’ora.

Per quella famiglia sembrò troppo e così la terra scese a palate rapide senza che un prete potesse chiedere che l’angelo del Signore, dopo aver accompagnato l’anima in cielo, vegliasse su quel corpo che ne era stato per molti anni la custodia.

L’indomani celebrai il sacrificio di Cristo, per quel fratello ignoto, che non so se riposerà almeno sotto una piccola croce bianca sotto la terra del nostro camposanto.

Spero che con la nuova chiesa abbia un piccolo luogo dove possa lavorare, rimanendo disponibile ad ogni chiamata.

Dietro questa amara vicenda c’è certamente una storia, un dramma che io non conosco, ma c’è anche una storia di una comunità cristiana e di un suo pastore che quasi certamente non si è neppure accorto che un membro della sua comunità era ammalato, era morto, e non si sentiva più parte del popolo di Dio.

Finchè un parroco non visita di frequente la sua gente, e a Venezia (era infatti un isolano) lo dovrebbe pur fare spesso, data la piccolezza delle parrocchie, non ha un dialogo mediante un foglio parrocchiale, non ha occasioni di incontro, credo che questi eventi saranno sempre più frequenti.

Le parrocchie non possono più esaurire il loro compito con i fedeli solamente in sacrestia.

La parrocchia che ormai non garantisce neppure l’apertura durante il giorno della chiesa, è destinata all’inedia e alla morte poi!

Anche certe provocazioni atee possono aiutare i cristiani

Quando alcuni mesi fa ci fu l’episodio, certamente poco gradevole per noi credenti, degli autobus genovesi con le scritte pubblicitarie che annunciavano ai cittadini di Genova che Dio non esiste e che la cosa non poteva che rendere soddisfatta la cittadinanza, un sacerdote tentò di interpretare positivamente questo episodio.

Quel prete affermava che la provocazione costringeva i credenti a prendere posizione di fronte al problema di Dio e quindi aiutava a fare scelte più coerenti e più convinte.

Io non mi trovai totalmente d’accordo pur dovendo ammettere che c’era un qualcosa di vero e di positivo nel suo ragionamento.

In quell’occasione mi riproposi di non lasciarmi andare a reazioni immediate ed emotive, ma di tentare di valutare possibilmente tutti i risvolti di qualsiasi avvenimento.

Il proposito mi tornò buono qualche giorno fa, quando lessi su “Il Gazzettino” che un circolo veneziano di atei militanti ha informato i lettori che la Regione spende 10.000 euro al mese per pagare l’assistenza religiosa negli ospedali di Mestre e Venezia e perciò rivendicava una somma per l’assistenza svolta in suddetti ospedali per i maomettani, protestanti, atei, agnostici e via diseguito.

Pensai: “Sono sempre quei quattro piantagrane che approfittano per dare addosso alla chiesa!”

Poi ripensandoci mi chiesi se ci sono veramente i cinque sacerdoti a tempo pieno, se non sarebbe più giusto che l’assistenza religiosa fosse fatta a titolo gratuito da qualcuno dei 200 preti e 300 frati presenti in città?

Credo che le critiche, pur malevole e cattive dei soliti arrabbiati pongono sul tappeto problematiche che un tempo erano risolte in un certo modo, ma che attualmente devono essere riviste di fronte a situazioni decisamente diverse.

Ho concluso che anche dal male possono emergere aspetti positivi, anche dagli atei militanti può giungere una mano per la purificazione e il rinnovamento del nostro modo di vivere la religione.

E’ l’Italia d’oggi che esprime questi politici

Un tempo avevo un amico prete che si professava visceralmente antifascista, in realtà ho però sempre ritenuto che, se fascismo significa prepotenza, non rispetto del prossimo, fosse lui un fascista per antonomasia perché questo era il suo stile di vita.

Ebbene questo collega era arrivato a dire che se avessero rovesciato il maresciallo De Gaulle o Golda Meier (allora primo ministro di Israele) ci avrebbe offerto una cena.

Egli era convinto che sbarazzandoci di quei due personaggi l’Europa di allora, avrebbe riconquistato la democrazia.

D’altronde anche oggi per una gran parte della sinistra crede che sbarazzandosi di Berlusconi, l’Italia, recupererebbe la moralità, un sano vivere civile, la giustizia sociale e quanto di meglio si possa auspicare per il proprio Paese. A parte il fatto che credo di non aver mai conosciuto un paese che possegga questi valori, per merito di un governo di sinistra, spessissimo invece ho riscontrato solamente corruzione, disastro economico, trionfo della burocrazia, malgoverno e via di seguito.

Comunque in quell’occasione, di fronte alla discussione accalorata tra noi giovani preti, intervenne il vecchio parroco, certamente più saggio di noi a ricordarci “Non è De Gaulle che fa la Francia, ma è invece la Francia con i suoi pregi e difetti che esprime De Gaulle”

Sono convinto che avesse totalmente ragione, chi se la piglia con Berlusconi e vorrebbe cambiarlo radicalmente, dovrebbe prendersela con se stesso perché è l’Italia d’oggi che esprime questo tipo di personaggio, infatti è lui ad avere attualmente i maggiori consensi, checché ne dicano i suoi avversari politici.

Concludo con un proposito, dovrò continuare ad impegnarmi per un mutamento di mentalità, di costume, e di moralità e di cultura degli italiani, anche se, come ho sentito stamattina alla radio, che un milione di italiani oggi fa uso di cocaina e i nostri giovani vanno in discoteca verso mezzanotte, si sbronzano e con l’auto fanno più vittime di una guerra.

Almeno per il prossimo futuro ho ben poco da sperare; avremo un capo di governo ben peggiore dell’attuale!

L’inno di san Paolo “Ubi caritas, ibi Deus” e il don Vecchi

Non avrei mai pensato che il don Vecchi, che qualche concittadino si ostina ancora a ritenere una casa di riposo, in poco tempo sarebbe diventato un vivaio in cui si muove tanta gente, si fanno tante cose e soprattutto in cui pulsa rigogliosa la vita.

Era quello che volevo ma non avrei mai pensato che sarebbe avvenuto tanto presto e con tanta intensità.

Il sogno iniziale era quello di offrire agli anziani, senza tanti mezzi economici, una dimora in cui essi potessero rimanere uomini, donne e soprattutto persone fino all’ultima goccia di vita.

Questo è avvenuto! Al don Vecchi c’è un campionario del mondo, magari non con volti e comportamenti all’ultima moda, e con stili di vita all’ultimo grido, ma comunque ci sono uomini e donne liberi, che fanno le scelte che vogliono, che vivono, amano e si comportano come ognuno crede.

Talvolta amerei che rientrassero un po’ di più nel clichè della comunità dei cristiani, li sollecito a questo, ma mi impegno e garantisco loro la libertà di praticare e di vivere come credono.

La costituzione del don Vecchi, ha pochi paragrafi: solidarietà, rispetto, libertà, per il resto ognuno si arrangia.

Quello che però mi esalta è l’interrato, la parte meno nobile dell’edificio, la è sbocciata la vita: i magazzini dei mobili, dell’oggettistica, dei supporti per gli ammalati, del banco dei generi alimentari, dei vestiti.

Credo che non ci sia angolo o istituzioni di Mestre in cui si incontri in maniera così intensa e numerosa e diversificata la solidarietà.

Dire che ne sono orgoglioso non è giusto, perché non è opera mia, ma espressione corale di un volontariato tanto diversificato per età, sesso, cultura, lingua, religione.

Il denominatore comune di questo formicaio di volontari, nato quasi per caso, è la solidarietà, espressa in mille modi e con stili diversi, ma comunque è sempre solidarietà.

Il don Vecchi è sempre vivo perché non cessa mai l’andirivieni di anziani, figli, nipoti, badanti, amici e fornitori, ma il pomeriggio il popolo dei piani alti e di quello dei piani bassi, si mescolano e tutti insieme cantano l’inno di san Paolo “Ubi caritas, ibi Deus” dove c’è la solidarietà la c’è Dio, forse per questo il don Vecchi è così vivo e così nuovo!

Non sono di sinistra, di destra e neppure di centro

Quando studiavo filosofia al liceo, fui molto colpito da una lezione di don Vecchi, in cui con quell’estro che gli era proprio, ci spiegava e poi ci metteva in guardia dalla realtà che egli definiva nominalismo.

Chi vuol ragionare bene deve mettersi d’accordo non tanto sui termini, quanto sui contenuti di certe parole.

Ad esempio parlare di amore è la cosa più difficile di questo mondo, dietro quella etichetta ci possono essere i contenuti più diversi, anzi opposti, motivo per cui dialogare con parole che non hanno lo stesso significato è quanto di più assurdo ed inutile che ognuno possa fare.

Per non parlare di democrazia, di libertà, di progresso, di bellezza e di quant’altro. O prendi in mano lo Zingarelli e t’accordi sul significato dei vocaboli, o altrimenti perdi tempo inutilmente ed arrischi di baruffare.

In merito a queste mie povere riflessioni, nel mio “diario” di vecchio ottantenne, con poco retroterra culturale, nascono delle reazioni.

Questo è normale. La maggioranza ammira, forse l’unica cosa pregevole: l’onestà.
Qualche altro il coraggio di dire la propria opinione, ma questo lo ritengo un dato scontato perchè, almeno in Italia, tutti dicono ciò che pensano; ci vorrebbe altro che un prete avesse paura di farlo. Poi più volte ho affermato che non godo di rivelazioni, non pretendo di dire verità assolute, non ho soluzioni miracolistiche da proporre.

C’è invece un signore, che mediante messaggi su internet tenta di incasellarmi come un prete di sinistra. Non lo sono, non sono neanche di destra e neppure di centro. Sono solamente un uomo che cerca la verità, che ama la povera gente concretamente che se scopre qualcosa di buono, con entusiasmo infantile, lo dice a tutti, che è infastidito dalla burocrazia e dal formalismo, che ama una chiesa povera e libera, che rifiuta la violenza, che non ha paura di nessuno, che non vorrebbe far del male neppure ad una mosca, che ama il Signore, il prossimo, e che sogna un mondo nuovo.

Durante tutta la mia vita c’è sempre stato qualcuno che ha tentato di mettermi in uno di quei scomparti della cassettiera della vita, non ci sono mai stato e per scelta e convinzione ho mantenuto la mia libertà. Ognuno è libero di classificarmi come gli aggrada, ma io rimarrò comunque me stesso, gli piaccia o no!

Non serve ed è stolto essere troppo apprensivi!

Siamo in tempo di grandi cambiamenti non credo che i laboratori pastorali stiano lavorando su un nuovo progetto di comunità cristiana a livello diocesano, anzi sono più propenso a pensare che invece stiamo rattoppando un tessuto sdrucito e con grossi strappi su modelli sorpassati ed ormai impossibili.
La realtà invece costringe i responsabili a nuove strategie.

Io sono completamente all’oscuro di tutto; conosco appena le difficoltà, le forze di cui dispongono gli strateghi della pastorale veneziana e le motivazioni delle scelte.

Riesco solamente ad intravedere i cambiamenti, le sostituzioni, l’assemblaggio delle comunità parrocchiali e non sempre riesco a connettere le scelte, ad intravedere le motivazioni del movimento delle pedine sulla scacchiera diocesana.

Talvolta ho perfino vergogna di sentirmi quasi felice per essere in panchina e fuori gioco e quindi non più responsabile.

Qualche giorno fa mi è venuta la tentazione di invitare a pranzo un mio vecchio collaboratore, che normalmente è estremamente aggiornato sulle vicende dei preti e della chiesa, perché mi informi e mi aiuti a capire le “mosse”. Poi, punto dal rimorso e dalla vergogna, vi ho rinunciato pensando al proverbio spagnolo: “Il Signore riesce a scrivere diritto e bene anche su righe storte”.

La provvidenza spesso, o molto di frequente, guida e porta al bene anche le mosse più sbagliate dei giocatori.

In questi giorni penso e traggo grande motivo di consolazione constatando che un prete che era stato messo fuori gioco, perché non se ne condivideva l’impostazione e le scelte, in realtà nel nuovo ruolo si sta rivelando un ottimo operatore, intelligente, capace di leggere gli eventi e capace di anticipare con scelte oculate i tempi nuovi.

Ho concluso che è assolutamente stolto essere esageratamente apprensivi e spaventati da quella che può sapere di sconfitta irrimediabile, perché in realtà è solamente il buon Dio che aggiusta la lentezza e la poca apertura dei suoi ministri!

Ammiro il giornale-rivista “Piazza Maggiore” e i fini che si propone!

Mi hanno appena portato “Piazza Maggiore”, il grande giornale-rivista edito dalla Fondazione Duomo.

Monsignor Bonini, due-tre anni fa, ha dato vita a questo periodico che favorisce il dialogo tra la civica amministrazione, le migliori realtà culturali ed economiche della città e la chiesa mestrina.

Quella di don Fausto è stata una intuizione intelligente e felice, creando uno strumento nuovo, sotto ogni punto di vista, che mette a confronto gli uomini, le idee dei protagonisti della vita cittadina e le tessere del vasto mosaico che compone sia la società civile che quella religiosa in maniera tale che pian piano, da questo confronto emerga il volto di una città nel senso completo del termine e di una chiesa, che pure faticosamente e in maniera forse non del tutto consapevole, sta cercando un progetto ed una voce comune e soprattutto faccia dialogare queste due realtà prima sul piano delle idee e dei progetti e poi in quello delle opere.

Mestre si trova veramente in una situazione paradossale; una non città ed una non chiesa, che mai, per vie istituzionali, avrebbero trovato un volto comune, perché Venezia, la vecchia suocera, non favorisce, per motivi anche comprensibili, la maturazione di una Mestre adulta e con coscienza cittadina.

L’escamotage del parroco di San Lorenzo, è stato quanto mai saggio ed intelligente favorendo la crescita reale, perché una volta maturata la coscienza civica ed ecclesiale, non ci sarà di certo legge che tenga per non riconoscere una realtà ormai matura.

E’ stato perso tanto, troppo tempo e nonostante gli sforzi dell’avvocato Bergamo e di qualche altro esploratore solitario, per ottenere una autonomia formale, che Venezia non ha mai voluto e Mestre non era pronta a ricevere.

L’opera discreta e concreta che il parroco del Duomo sta realizzando gli obiettivi che gli altri si sono posti, ma che sempre sono miseramente falliti.

Per quanto mi riguarda, non provo che ammirazione ed entusiasmo di fronte ad un progetto ambizioso, ma necessario ed invito i concittadini a leggere “Piazza Maggiore” che è lo strumento altrettanto intelligente che lo sta maturando.

Parrocchie: catechesi, liturgia e… una carità zoppicante

Da un paio d’anni raccogliamo gli strumenti di supporto per gli infermi per metterli a disposizione di chi ne ha bisogno senza ricorrere a compilazioni di moduli, di presentazione di ricette mediche e di Cud e di mercanzia del genere.
Le cose vanno benino!

Pian piano pare che riusciamo ad ottenere quello che poi ci è richiesto, ma mentre abbiamo una certa carenza per gli esterni, in compenso c’è sovrabbondanza di comode, di stampelle e di treppiedi.

Qualche giorno fa, facendo visita al magazzino, piuttosto angusto, di questo materiale, mi accorsi che in un angolo c’era un treppiedi con una gambetta spezzata, non serve a niente bisogna che lo buttiamo perché solamente l’appoggio su tre gambe offre la stabilità richiesta.

Mentre pensavo di chiedere al responsabile di portare alla Vesta lo strumento che non poteva più servire, per una strana associazione di idee, ho pensato alle molte, troppe parrocchie che dovrebbero, se fosse possibile, essere mandate alla Vesta per essere rottamate perché sono mancanti di un elemento del treppiede che è parte integrante della sua struttura.

Notoriamente i tre supporti della parrocchia sono: catechesi, liturgia e carità. Il peduncolo della carità per molti sembra però quasi un optional e perciò o manca completamente o è sostituito malamente con rimedi di fortuna, tanto che un elemento qualificante la comunità cristiana, anzi uno dei più apprezzati dall’uomo d’oggi per alcuni sembra non importante tanto da essere abbandonato senza tanti drammi interiori.

Qualcuno si illude che debba provvedere lo Stato, qualche altro lo delega a strutture diocesane e qualche altro lascia che cammini come uno sciancato, tirandosi avanti zoppicando.

Non so se questa mancanza sia ritenuta da Rosmini una delle cinque piaghe della chiesa dei tempi nostri, se non lo fosse bisognerebbe denunciarne la presenza, perchè è certamente una causa dei suoi malanni.

“Primo obiettivo è fare il bene, ultimo chiacchierare sul bene da fare!”

L’amicizia è un modo per stabilire rapporti cordiali e fiduciosi verso tutti, ma in particolare verso chi avverti abbia una consonanza di idee e di convinzioni. Tutto questo vale per le persone del nostro tempo, ma egualmente anche nei personaggi del passato.

Io, per esempio, mi sento molto vicino alla sensibilità e al pensiero di Sant’Agostino, meno per San Tommaso, il grande filosofo e teologo, provo tanta simpatia per l’apostolo Giacomo, uomo concreto e con i piedi per terra piuttosto che per l’apostolo San Giovanni, che mi pare abbia sempre la testa tra le nuvole! Non penso che con ciò faccia un torto né a San Tommaso D’Aquino né a San Giovanni evangelista, l’apostolo tanto amato da Gesù.

La mia amicizia scaturisce probabilmente da un’assonanza di sensibilità e di idee.

In queste ultime settimane una delle tre letture domenicali della S. Messa, è dedicata a San Giacomo e mi fa felice che egli, pur senza saperlo, faccia da supporto ai miei convincimenti più profondi e mi garantisca che non sono fuori strada.

In questi giorni credo debbano fischiare le orecchie a San Giacomo perché lo penso cento volte al giorno per quella sua frase: “La fede senza le opere è sterile!”

Quante volte ho pensato che al buon Dio gli debba interessare proprio ben poco l’acqua santa, l’incenso, gli inchini e le cerimonie in genere, ma invece gli sia quanto mai gradito ed approvi chi si occupa degli ultimi, si fa carico dei fragili e di quelli che non contano.

Al Padre non può che essere gradito che le sue creature si aiutino, che chi è più intelligente, più forte, più ingegnoso si dia da fare anche per chi è incerto ed impacciato, per chi non tiene il passo, per chi non sa sbrogliarsela da solo.

Il mio esercito di volontari zoppica alquanto a livello della frequenza al culto, della comprensione della liturgia e del tempo dedicato alla preghiera, ma in compenso sgobba, fatica e s’impegna!

Talvolta penso perfino di fondare una nuova congregazione che abbia come prima regola: “Primo obiettivo è fare il bene, ultimo chiacchierare sul bene da fare!”

Non sono però proprio sicuro di ottenere l’avallo pontificio!.

Comunque possiamo procedere anche senza avallo perché all’ingresso del Cielo ci sarà San Giacomo a farci entrare!