La solidarietà nasce dalla condivisione delle situazioni

Dovrei averlo capito almeno cinquant’anni fa, ma purtroppo solamente in questi ultimi decenni ho compreso che la forma più alta e più vera della solidarietà è rappresentata dalla condivisione. Credo che ben difficilmente si può comprendere il disagio, la frustrazione e la solitudine umana se non calandosi totalmente dentro alla condizione esistenziale di chi si vuol aiutare. Mi sorprende e mi fa arrossire tutto questo perché questa verità è stata testimoniata in maniera veramente esemplare da Gesù ben tanto tempo fa.

In occasione della celebrazione del battesimo di Gesù, ho tentato di passare questo concetto evangelico ai fedeli che gremivano la mia chiesa prefabbricata nel nostro cimitero. Gesù chiede a Giovanni il battesimo, evidentemente perché vuol condividere con i suoi conterranei la consapevolezza che il peccato è fonte del disagio sociale e della povertà di qualità di vita a livello personale. Verità che poi Gesù avrebbe ribadito durante la passione, caricandosi delle colpe dell’umanità, volendo purificarla mediante la via dolorosa.

Mi ha aperto gli occhi su questa verità la testimonianza di Charles de Foucauld, quando dice che non si può comprendere ed aiutare i poveri se non calandosi dentro la loro condizione esistenziale e vivendo “come loro”.

Ricordo al proposito tre giovani donne appartenenti alla comunità fondata da questo ex generale di Francia convertito alla fede, le quali, avendo ubicato la loro roulotte in via Vallenari nel campo degli zingari, vennero a chiedermi se potevo aiutarle a trovare un lavoro per poter sopravvivere. Io cercai un lavoro compatibile con la loro condizione di religiose. Esse rifiutarono, dicendosi disposte ad andare a lavare le scale perché ai poveri sono riservati questi mestieri e loro volevano vivere da povere per comprendere e testimoniare la loro carità.

Quando si trattò di scegliere dove abitare dopo il mio pensionamento, in forza di questa “scoperta”, non esitai un istante nel scegliere un minialloggio al “don Vecchi”, uguale a quelli che sono destinati ad avere gli anziani poveri. Il condividere ti permette di parlare, di indicare orizzonti di speranza, di acquisire una certa autorità presso i coetanei.

Chi non vive almeno con sobrietà non può illudersi di amare i poveri, anche se destina loro, come pare faccia Berlusconi, milioni di euro!

Anche il dramma dell’uomo può essere un invito alla riflessione e alla saggezza

In qualche altra occasione ho manifestato il mio rifiuto di qualche segno di ascesi spirituale e di misticismo proprie dei secoli passati, preferendo ad essi una spiritualità fresca, sorridente, calda ed umana. Mi pare che tutto questo debba essere condivisibile senza troppa fatica.

Ricordo che durante un ritiro spirituale tenutosi nella chiesa dei Cappuccini di Mestre, mi capitò di essere seduto di fronte ad una tela di notevoli dimensioni del sei-settecento, in cui era ritratto un frate, dalle occhiaie scavate, che teneva in mano un teschio, probabilmente meditando su come “passa la gloria di questo mondo”. Preferisco di gran lunga il giovane scout che di fronte al manifesto di un’attrice affascinante, dai capelli platinati e dalle labbra carnose, pensa ai drammi che certamente questa donna, piena di fascino, deve avere nel suo animo ed entra perciò in una chiesa a dire una preghiera per la sua salvezza.

L’altro giorno mi è capitato di dare l’ultima benedizione ad un medico settantenne della nostra città, che da venticinque anni soffriva di sclerosi multipla e da dodici anni era ridotto a letto. Il suo corpo era distrutto e deforme, privo di ogni armonia, sembrava veramente un disegno di Picasso. Accanto c’era la moglie e le due giovani figlie. Mi venne da pensare ai sogni, all’amore, ai progetti professionali di questo fratello: tutto infranto miseramente!

Ho passato tutta la messa di commiato nel tentativo di trasfigurare, alla luce della vita nuova, quel corpo, per tentare di ridonare una immagine viva e bella per i suoi cari. Ringrazio di tutto cuore il buon Dio per la bontà con cui mi ha trattato finora, nonostante le mie miserie e i miei guai. I nostri vecchi hanno ragione nel dire che prima di lagnarci dobbiamo guardarci indietro per vedere chi sta peggio di noi. Anche il dramma dell’uomo può essere un invito alla riflessione e alla saggezza.

il dono del vivere quotidiano preparato dal Signore per noi

Qualche tempo fa ho letto una considerazione di un uomo di Dio che affermava che, ogni volta che incontri una persona, di certo hai il dovere di darle qualcosa, come, nel contempo, hai sempre la possibilità di ricevere da lei qualcosa di positivo. Questa affermazione mi ha convinto: a livello teorico perché se è vero che la Divina Provvidenza ha stabilito delle leggi per cui tutto il progetto della vita e del cosmo funziona a dovere perché ogni forza ha il suo campo preciso e correlato alle altre leggi, così deve valere anche e soprattutto per i rapporti umani; a livello della pratica perché ho constatato personalmente che ogni volta che incontro una persona il rapporto diventa sempre positivo e gratificante.

Qualche giorno fa, quasi a complemento di questo, ho letto un’altra considerazione fatta da una persona quanto mai razionale e nel contempo mistica, M. Delbrel. Questa creatura, vissuta nell’ultimo scorcio del secolo scorso in Francia e passata dall’ateismo più radicale alla militanza politica di sinistra del mondo operaio, è arrivata, attraverso un cammino faticoso e ricco di esperienze esistenziali, alla fede in Cristo e ad una forma di misticismo radicale quanto lo era stato il suo ateismo, finendo per crearsi una minuscola comunità impegnata e testimoniare la carità nei più squallidi sobborghi di Parigi. Questa anima forte e coraggiosa ha scritto:

“Ogni mattina è una giornata intera che riceviamo dalle mani di Dio: Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi. Non vi è nulla di troppo e nulla di `non abbastanza’, nulla di indifferente e nulla di inutile. E’ un capolavoro di giornata che viene a chiederci di essere vissuta.
Noi la guardiamo come una pagina d’agenda, segnata d’una cifra e d’un mese. Noi la trattiamo alla leggera come un foglio di carta. Se potessimo frugare il mondo e vedere questo giorno elaborarsi e nascere dal fondo dei secoli, comprenderemmo il valore di un solo giorno umano”.

Non appena apro gli occhi, un po’ frastornato al suono della sveglia alle 5,30 di ogni mattina e mi si presentano davanti, come in una rapida videata, tutti gli incontri, gli impegni e i problemi che mi aspettano, dopo la lettura attenta di questo testo, mi dico: “Forza, sta sereno, perché tutto quello che ti aspetti ti è stato preparato da un Padre saggio, intelligente e soprattutto che ti vuol bene!” Apro quindi la porta del mio minuscolo alloggio del “don Vecchi” e letteralmente “mi tuffo” a vivere il giorno preparato con tanta attenzione ed amore per me.

Quando riesco ad operare alla luce di questa splendida verità, arrivo a sera senza ammaccature, rimpianti o sconforti.

Lo sguardo al futuro e la gratitudine per chi ha lavorato con noi fin qui

Qualche giorno fa, dopo la messa prefestiva alla quale partecipano molti residenti del Centro “don Vecchi”, la direzione ha organizzato un rinfresco in occasione del pensionamento del responsabile della sorveglianza, il signor Paolo Silvestro. I residenti si sono ritrovati nella hall, illuminata a festa, per ringraziare e porgere un piccolo dono per il decennio di servizio prestato dal signor Paolo, il cui lavoro è iniziato con l’apertura del “don Vecchi 2”. Il direttore, ragionier Rolando Candiani e il presidente della Fondazione, don Armando, hanno rivolto parole di circostanza e di ringraziamento a questo funzionario collaboratore dei responsabili dei Centri “don Vecchi”, i quali hanno elaborato e perfezionato poi sul campo la “dottrina” per questa struttura residenziale, che costituisce un progetto pilota nei riguardi di una fetta sempre più vasta di cittadini, compresi tra il pensionamento e la vecchiaia.

Al progetto, studiato a tavolino, si stanno apportando modifiche, in rapporto ad una sperimentazione in atto, che suggerisce soluzioni sempre più adeguate.

Allo stato delle cose si sta attualmente puntando, da un lato, ad una sempre più completa autogestione da parte dei residenti, eliminando il personale di servizio. Questo orientamento si sta mostrando vincente a Marghera ed è, oltre che motivo di un sempre più completo coinvolgimento dei residenti, motivo di risparmio, in quanto gli aspetti amministrativi e gestionali vengono sempre più demandati ai residenti e al volontariato.

Dall’altro lato si sta puntando a disporre di un piccolo nucleo di collaboratrici familiari, valide e residenti al “don Vecchi”, che accudiscano, sotto ogni aspetto, le persone in perdita di autosufficienza e che non dispongono di risorse economiche per pagarsi questi servizi.

La Provvidenza ci ha “messo a disposizione” la signora Rosanna Cervellin, estremamente esperta del settore, che attuerà e gestirà questo servizio.

Ci auguriamo che queste sperimentazioni possano offrire al Comune e alla Regione un modello adeguato per regolamentare questo settore di assistenza sociale.

La Befana è andata anche da un vecchio prete in pensione!

Quest’anno ho fatto più che mai fatica per cogliere, come nei tempi lontani, la poesia e l’incanto del Natale. Per scelta, da tanti anni rifiuto il Natale-magico che, come per incanto, dovrebbe creare nel mondo una situazione idilliaca: ciò perché esso è evasione dalla realtà e mistificazione del “mistero” evangelico e perciò ad esso preferisco l’annuncio che Dio continua a colloquiare con le sue creature, ci è vicino e non disdegna di camminare con noi. Con ciò non rinuncio, anzi desidero vivere ancora l’incanto del presepio, dell’albero di Natale, della Befana e delle pastorali delle zampogne.

Forse la mia è fatica sprecata, perché certe sensazioni sono legate all’infanzia, al candore dell’anima, realtà per me lontane e difficilmente recuperabili. Però, anche senza troppa speranza, ci ho tentato. Anche quest’anno mi sono soffermato con curiosità e nostalgia a guardare le carrellate dei telegiornali, per vedere i magazzini ove le befane del terzo millennio si sono rifornite per riempire le calze dei nostri bambini, meravigliandomi e quasi protestando perché la befana della mia infanzia aveva poca fantasia e soprattutto era tanto parsimoniosa!

Anche quest’anno ho attaccato, fuori della porta – perché il mio piccolo alloggio del “don Vecchi” non ha camino, la calza, per poter vedere quanti dolci e quanto carbone le “befane del don Vecchi” m’avrebbero portato. Ebbene, la befana s’è fatta viva, nonostante la mia veneranda età: mi ha messo una busta bianca sotto la porta con cento euro, firmandosi “La befana”. Mentre aprivo questa piccola busta bianca, recuperando per un momento l’incanto e la sorpresa di tempi ormai tanto lontani, ho compreso che essa era stata con me più cara e più generosa di sempre, perché durante il duemilaedieci m’ha messo nella calza più di mezzo milione di euro!

Dopo questa esperienza mi sono detto che la mia fede nella befana non verrà mai meno, anche se vivessi mille anni.

Non bisogna mai guardare le cose da un solo punto di vista

Una delle tentazioni di sempre, soprattutto delle persone di modesta cultura storica e di intelligenza normale, è quella di voler semplificare gli avvenimenti e di ridurli a colori uniformi senza tante sfumature.

La gente, abbastanza facilmente, legge solamente un giornale, perché esso presenta fatti ed avvenimenti colti da una sola angolatura e offre una lettura semplificata di ogni problema. Questo fa risparmiare fatica ed induce a schierarsi a favore di una tesi o di un personaggio, escludendo così l’impegno di valutare e di tener conto delle tesi sostenute da altri. Questo vale per la politica, l’economia, la religione, la cultura.

Il popolo ama d’istinto le tinte forti ed unite e non ama sottilizzare sui mezzi toni e sulle sfumature. Gli imbonitori e chi vuole prevalere tengono conto di questa inclinazione e perciò semplifica la realtà della vita che è invece sempre complessa.

Ho imparato da tempo a guardarmi bene dal leggere un solo giornale, ascoltare una sola campana, a non tener conto del parere e delle argomentazioni del vero o presunto avversario. La verità, il bene, la giustizia, la pace, hanno sempre cammini tortuosi e faticosi, il rifugiarsi in una setta, in un partito, in una Chiesa è sempre pericoloso e ben difficilmente fa approdare a risultati positivi.

Ho conosciuto due giovani fratelli imprenditori i quali, ogni volta che si trattava di fare una scelta o di affrontare un progetto, si mettevano al tavolo e, per scelta, uno difendeva e l’altro faceva l’avvocato del diavolo facendo le pulci a quel progetto.

E’ faticoso, ma credo che sia quanto mai opportuno che mi metta nei panni di chi non la pensa come me per fare delle scelte oneste e positive.

RAI Storia, la televisione che apre gli occhi

Il digitale televisivo, sognato e lungamente promesso, è finalmente arrivato anche da noi. Io, come tanti anziani, non ne ho ancora preso completa dimestichezza. Forse mi trovavo meglio con i soliti canali ormai consolidati; ora finisco per “navigare” anch’io fra un’emittente ed un’altra, talvolta tentando perfino di seguirne due contemporaneamente, tante sono le proposte. Dove abito, poi, alcuni palazzoni oscurano il segnale, motivo per cui non ho ancora scoperto tutta l’offerta televisiva del digitale, ma quello che ho scoperto mi è più che sufficiente.

Seguo, come sempre, dopo cena, i canali “canonici” della Rai e talvolta di Telechiara, però confesso che c’è un nuovo canale che si è imposto alla mia attenzione e che mi sta interessando sempre di più. Qualcuno, conoscendo i miei interessi, mi ha informato che il canale 54, “Rai storia”, trasmette costantemente servizi di avvenimenti che hanno coinvolto l’umanità. Sono parecchie le sere che, pur non sapendo quello che c’è in programma, finisco per seguire inchieste, documentari e quant’altro, argomenti dei quali avevo qualche notizia, ma che ora mi vengono inquadrati con più precisione e con dovizia di filmati.

Da quando è arrivato il digitale non finisco mai di scoprire i retroscena del fascismo, del nazismo e del comunismo, movimenti politici che hanno tristemente caratterizzato e dato volto al novecento.

L’assurdità e l’orrore di questi movimenti politici che hanno provocato milioni di vittime e rovine incalcolabili, mi sta rendendo ogni giorno più guardingo e sospettoso nei riguardi di chi oggi è alla ribalta dell’opinione pubblica e potrebbe determinare tragedie simili a quelle del recente passato.

Il diario di questo vecchio prete

L’altro ieri ho consegnato a mio nipote, funzionario di una grossa azienda nel settore dei mobili e dell’arredo per la casa, le ultime cinque copie del mio “diario” del 2009, uscito col titolo “In riva al fiume”.

«Zio, visto il successo del tuo volume e dell’interesse con cui alcuni miei colleghi l’hanno letto, mi piacerebbe regalarlo ai dirigenti della mia azienda, che ti conoscono in qualche modo per i tuoi interventi sulla stampa locale».

Le cinque copie erano le ultime delle cinquecento che i miei magnifici collaboratori hanno stampato mediante la tipografia artigianale de “L’incontro”. Quest’anno sono riusciti a far uscire il volume prima del termine del 2010, cosicché esso è diventato il regalo di Natale per altrettanti concittadini, in qualche modo interessati all’opera e alle idee di questo vecchio prete.

Cinquecento copie non sono un granché nell’abbondante produzione libraria della nostra città, però cinquecento copie scritte da un prete, e da un prete ultraottantenne, su argomenti prevalentemente religiosi, e da un prete già in pensione che non ha mai fatto parte della gota della diocesi, possono destare una qualche sorpresa ed una certa meraviglia.

Mi sono chiesto tante volte il perché del relativo successo de “L’incontro”, con la sua tiratura di cinquemila copie settimanali, pur avendo una veste tipografica modesta ed un gruppo redazionale sparuto.

Penso che, tutto sommato, l’opinione pubblica stia premiando l’onestà della ricerca, la passione per l’uomo, la presa di posizione libera, senza presunzioni e senza complessi, l’umiltà del riconoscere i propri limiti e soprattutto il sogno di una religione più aderente alle istanze dell’uomo d’oggi e almeno desiderosa di rifarsi alla “sorgente”.

Io spero proprio di far del bene ai miei concittadini, o perlomeno di aiutarli a porsi domande e risolvere problemi, non dando nulla per scontato.

Consuntivi diocesani

La nostra diocesi pubblicava una rivista bimestrale, che ora però è ridotta ad uscire solamente una volta all’anno. Questa rivista riporta prediche del Papa, del Patriarca, interventi del vescovo in diverse occasioni, necrologi e materiale del genere.

Di solito sono interventi datati, che la stampa ha già riassunto e che perciò destano, normalmente, poco interesse. Le due uniche rubriche alle quali, penso, i sacerdoti ai quali la rivista è riservata siano interessati, sono le nomine, gli incarichi particolari all’interno della diocesi e i bilanci finanziari.

Anch’io quest’anno, prima di disfarmi del malloppo assai consistente della rivista, mi sono soffermato con curiosità su tali rubriche. La prima mi ha riempito di un pizzico di sorpresa e di orgoglio, constatando l’articolazione complessa e assai numerosa degli organismi, dei comitati, degli uffici, delle commissioni e degli enti ecclesiastici e della marea di consiglieri che ne fanno parte. Vivendo ormai praticamente ai margini di questi meccanismi ecclesiali, mi sono un po’ meravigliato per la loro consistenza numerica e per come io non abbia sentito l’efficacia a livello della presenza e della proposta cristiana, per quanto riguarda la rievangelizzazione e l’impegno missionario nei riguardi dei non credenti e dei numerosissimi extracomumitari appartenenti ad altre religioni!

La seconda rubrica poi, che verteva sull’impiego di somme abbastanza consistenti che la diocesi riceve ed eroga a favore di enti di beneficenza e di strutture ecclesiastiche, mi ha sollevato da un grosso scrupolo che pesava sulla mia coscienza. Dietro enormi mie insistenze, in questi ultimi anni ho ottenuto 115.000 euro per l’avvio dei Centri “don Vecchi” di Marghera e di Campalto, Centri che godono ottima salute nel campo amministrativo, che non hanno debiti di sorta e funzionano in maniera ottimale. Ora però mi accorgo, leggendo suddetto bilancio, che altri enti che zoppicano da ogni lato, ricevevano ogni anno, pacificamente, somme altrettanto significative per appianare bilanci costantemente in rosso.

Quest’anno ho pagato più volentieri del solito l’abbonamento di 40 euro a questa rivista, alla quale mi abbonano d’ufficio, perché mi ha aiutato ad avere una visione più completa ed obiettiva della realtà religiosa in cui vivo e m’ha liberato dallo scrupolo di essere in debito verso la diocesi, mentre ora apprendo che sono abbondantemente creditore.

Il sermone che non ho saputo pronunciare

Quest’anno il mio sermone in occasione dell’Epifania è stato particolarmente infelice, nonostante i temi che quella celebrazione mette a fuoco mi siano da sempre particolarmente esaltanti.

La nottata irrequieta, e poi la mattina dell’Epifania con un cielo imbronciato e con la minaccia di neve, mi hanno tolto entusiasmo, respiro e quindi una parola lucida e scorrevole. Sono rimasto particolarmente amareggiato per i fedeli che, attenti e composti come sempre, hanno affollato l’Eucaristia e soprattutto per non esser stato capace di cogliere una occasione così propizia per mettere a fuoco delle verità che mi sono particolarmente care.

La preparazione, gli appunti e il desiderio di passare un messaggio importante, non mi sono bastati, le parole mi morivano in bocca e con esse l’entusiasmo.

Ora mi ritrovo a rimuginare tra me e me i tre concetti che avrei voluto passare.

Il primo: Incontrare uomini in ricerca, non paghi di ciò che avevano già scoperto e soprattutto credenti che hanno compreso che la fede è un fatto dinamico che si innerva con la crescita interiore, è una fortuna ed uno stimolo a vivere e non a dormicchiare sopra verità stanche, logore e statiche.

Secondo: Anche oggi la natura, come la “stella” di Betlemme, è uno strumento prezioso ed insostituibile per scoprire il volto di Dio. Dante afferma che Dio letteralmente si “squaderna” nel Creato, perchè ogni creatura porta l’impronta di Dio. Basterebbero “le stelle di Natale” per dirci che Dio ci è vicino e ci ama.

Terzo: La ricerca del Dio presente nel tempo approda, ancora una volta, sulla soglia della vita, dell’amore, dell’uomo, della donna, della famiglia, della Creatura umana fragile ed indifesa.

Mi spiace tanto di non aver saputo indicare ai miei cari fedeli tutte queste splendide realtà. Non mi è restato che offrire a Dio la mia sconfitta sperando che i fratelli ci arrivino da soli a deporre i doni per il Dio in mezzo a noi.

Cerchiamo Dio nei fatti straordinari e non lo vediamo nei piccoli segni del quotidiano…

Ho la netta impressione che per molti, e spesso anche per me, la fede e la religione siano diventate realtà formali che non si coniugano minimamente, o molto poco, con la vita, con le situazioni in cui ci dibattiamo e che sembrano schiacciarci. Talvolta ho anch’io la sensazione che, da una vita, mi porto sulle spalle un malloppo di verità scontate, di riti che dovrebbero dare qualità alla mia esistenza, una religione che talvolta m’appare come qualche cosa di stantio che non innerva, non sostiene e non rende sereno e coraggioso il mio operare.

Qualche volta mi viene da pensare: “Dio, se ci sei, batti un colpo; perché mi hai messo al mondo e poi te ne stai silenzioso e lontano come non ti interessasse nulla di me? Dio mio, dove sei quando ho bisogno? Perché taci, perché non ti fai vedere, perché non mi dai una mano, eppure sei stato tu a tirarmi fuori dal nulla!

Al tempo della contestazione c’era una canzone che diceva: “Dio è morto”. L’uomo di Dio Eliseo irride i profeti degli idoli pagani che saltellano senza riuscire ad accendere il fuoco dell’olocausto e dice loro: «Gridate forte perché forse il vostro dio dorme!» Forse qualcuno potrebbe dire anche a me parole simili.

Qualche tempo fa mi dibattevo in confusi pensieri del genere, quando mi capitò per caso di leggere le riflessioni di una sconosciuta cristiana della lontana America che mi ha offerto una semplice chiave di lettura per aprire e comprendere questo apparente mistero. Lei, prima di me, aveva capito che “Dio è vicino a chi lo cerca con cuore sincero”.

Passo questa piccola “chiave” anche a chi, come me, s’imbroglia in ragionamenti sballati.

«Certe mattine prego per sentire la presenza di Dio accanto a me durante la giornata. Quando però le cose non girano per il verso giusto, mi capita di chiedere: “Dio, dov’eri oggi?”. Invece di sentire il tocco di Dio nella pioggia, mi lamento perché sono bagnata. Piuttosto che udire la voce di Dio in una canzone alla radio, sono insofferente per il traffico bloccato. Presa dal mio lavoro, non so riconoscere Dio nel sorriso della persona che ho incontrato. Nelle giornate come queste, la mia vita frenetica mi impedisce di riconoscere i numerosi segni della presenza e del Suo potere accanto a me: possono essere un forte temporale mattutino, simbolo della sua forza; una certa musica alla radio che solleva il mio spirito; una parola di incoraggiamento da un’amica, un saluto gioviale da un estraneo; la bellezza di un tramonto; i baci di buonanotte dei miei figli. Spesso siamo abituati a ricercare Dio solamente nei fatti straordinari e non vediamo i piccoli segni che ci rammentano la sua presenza quotidiana accanto a noi.

La non violenza insegnata da Gandhi

Qualcuno mi ha regalato un volume che raccoglie una specie di antologia dei discorsi e delle riflessioni di Gandhi, il profeta, lo statista e l’uomo di Dio che guidò l’India all’indipendenza.

Spesso uso questo volume per fare degli inserti che adopero per spezzare la monotonia e la prolissità di certi articoli de “L’incontro”, talvolta troppo lunghi per essere letti volentieri. Il pensiero di Gandhi è veramente sublime, di una poesia, di una profondità che nel cristianesimo si trova solamente nel cantico di san Francesco, il poverello di Assisi.

Io sono letteralmente innamorato del pensiero di Gandhi, provo un’ebbrezza interiore nel cogliere delle verità che egli propone e che contengono una freschezza e una verità che sgorgano limpide e luminose nel suo meditare, quasi sempre controcorrente.

Questo volume dedica, giustamente, un corposo capitolo alla “non violenza”, l’arma culturale, religiosa e civile, che Gandhi ha messo a fuoco e teorizzato come non era mai avvenuto prima di lui.

Qualche anno fa ho letto un altro volume che descrive come il giovane intellettuale indiano esperimenta direttamente la possibilità e, secondo lui, il dovere, di affrontare e risolvere sia i problemi personali che quelli civili col metodo della resistenza passiva e della non violenza. Questo secondo volume narra come il giovane Gandhi riesce ad affermare i diritti civili dei suoi connazionali, che vivevano numerosi in Sudafrica, allora dominata dalla corona d’Inghilterra. Il trovare però la dottrina di Gandhi esposta in maniera ordinata e sintetica, m’ha offerto meglio la possibilità di cogliere tutta la bellezza, la razionalità e il dovere di scegliere il suo metodo non violento per risolvere le inevitabili questioni che ogni cittadino, di qualsiasi Stato, ha l’occasione di affrontare.

Dopo questa appassionata ed esaltante lettura, sono arrivato alla conclusione che questo metodo pacifico e rispettoso delle posizioni altrui, anche le meno condivisibili, esigono però una ascesi personale, una religiosità profonda ed un impegno prolungato, per acquisire quella virtù che, sola, permette all’uomo di essere persona e non una bestia feroce.

Spero sempre di tradurre l’amore di Dio in parole vive, non foglie d’autunno calpestabili!

Una delle parole più ricorrenti durante il ciclo delle celebrazioni natalizie è certamente “Incarnazione”. Tutto il mistero che ruota attorno al Natale è l’Emanuele, il Dio con noi, il Signore che ha piantato la sua tenda tra gli uomini, il Redentore che si è vestito di umanità, il Verbo di Dio che si fa scoprire nella fragilità dell’uomo, specie del più indifeso, del quale è segno il “Bimbo di Betlemme”.

Come tutti i preti, sono intervenuto più volte nei sermoni natalizi su questo argomento, partendo dai discorsi ricchi di poesia e di calda umanità che raccontano la nascita e la prima infanzia di Gesù e sono giunto a quel pezzo forte e complesso costituito dal “Prologo di san Giovanni”, pagina della Scrittura sublime finché si vuole, ma difficile da tradursi nella lingua parlata, ma soprattutto nella vita veramente vissuta.

Ho riflettuto ed ho pregato perché il Signore mi aiutasse a non fare discorsi scontati che sapessero di retorica religiosa o di maniera, senza però approdare a qualcosa che mi abbia convinto completamente e che avesse la capacità di passare la verità che posso ascoltare Dio in ogni situazione, lo posso incontrare nel quotidiano, lo posso amare nell’uomo e servire nel povero. Sono rimasto turbato temendo di non essere riuscito a passare la convinzione che posso immergermi in Dio come quando avverto la dolcezza soave della primavera, lo posso vedere nella natura, negli eventi, lo posso sentire vicino e caro, come quando l’amore canta dentro di me.

Spesso le parole dei miei sermoni mi sembravano come le foglie morte dell’autunno su cui posso passare sopra con disinvoltura ed indifferenza, tanto che in una Messa mi sentii di dire che certi discorsi diventano veri solamente nel pensiero e nella parola dei santi, dei poeti e degli innamorati ed io purtroppo ho la netta sensazione di non essere nulla di tutto questo. Non ho perso la speranza, comunque, perché “a Dio nulla è impossibile”.

Le sagge parole del Cardinale Tettamanzi e di Sant’Agostino

Il Cardinale di Milano, monsignor Tettamanzi, ha affermato che preferisce uno che si dichiara non credente, ma in sostanza è una persona seria e un cittadino integerrimo, piuttosto di chi si dice cristiano ma in realtà è un uomo inconsistente ed un credente puramente formale.

Io condivido da sempre questa lettura del credere e da decenni seguo il vessillo di sant’Agostino su cui è scritto: “Vi sono uomini che Dio possiede e la Chiesa non possiede ed altri uomini che la Chiesa possiede, ma Dio non possiede”. Il nominalismo nel campo della fede è un solenne e potente imbroglio perché etichette, distintivi, pratiche e quant’altro non definiscono in maniera assoluta il pensiero del Figlio di Dio.

Nonostante Gesù ormai venti secoli fa abbia affermato in maniera chiara e solenne: «Non chi dice Signore Signore entrerà nel Regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre», più vado avanti negli anni, più capisco che mentre c’è una certa facilità a formare e coltivare bigotti, è molto più difficile costruire “uomini nuovi” che odorino di Vangelo e realizzino l’autentico umanesimo cristiano.

E’ vero che è molto più facile assistere ad una funzione, accodarsi ad una processione o recitare qualche formula al mattino e alla sera, che essere uomini liberi, giusti, pacifici, coraggiosi ed autentici. Però è pur vero che una certa prassi pastorale, una predicazione di maniera, un desiderio smodato d’aver un certo seguito, producono con facilità e naturalezza bigotti piuttosto che gli uomini nuovi di cui parla il Vangelo.

La nostra predicazione, la catechesi e la pastorale, se non puntano a formare una umanità sana ed autentica, fatalmente finiscono per produrre manichini vestiti da cristiani, ma non uomini ricchi di speranza, di buona volontà. Perciò non credo che valga la pena mettere in produzione prodotti falsificati e taroccati checché ne possano pensare le anime pie!

Fra cristiani e mussulmani deve valere il rispetto reciproco!

Io sono vecchio e purtroppo ogni giorno di più scopro d’avere tutti i difetti tipici dei vecchi. Uno fra i tanti, che in questi ultimi tempi ho scoperto, è che mi ripeto maledettamente.

Quando facevo il direttore del mensile “L’anziano” ho pubblicato tante volte preghiere per gli anziani, perché essi potessero chiedere al Signore di emendarli e di liberarli da certe tentazioni e difetti propri della terza età. Ricordo una preghiera che diceva pressappoco così: “Signore, ti ringrazio per aver incontrato anche delle persone più giovani di me che non mi fanno sempre osservare che `quella cosa’ l’ho ripetuta più volte”.

Ebbene, cari amici, per ottenere anche voi questo merito, sentitemi ancora una volta ripetere che al “don Vecchi” ogni settimana quasi settecento persone, per la gran parte extracomunitari, vengono a prendersi i generi alimentari che i volontari del banco alimentare preparano per loro. Spesso mi capita di essere presente alla distribuzione. I volontari, e in particolare le signore che gestiscono questo servizio, son veramente care e gentili, ma soprattutto discrete e rispettose delle regole morali alle quali i mussulmani si attengono con scrupolo.

E’ ormai di dominio comune sapere che i mussulmani non possono bere alcolici e mangiare carni suine, perciò i nostri volontari si guardano bene dall’offrire loro qualcosa che a loro non è lecito assumere. Capita però che talvolta possiamo offrire carne di pollo o di gallina, talvolta abbiamo tortellini confezionati con le verdure o la ricotta, ma essi rifiutano perfino gli omogeneizzati per i bambini.

Di fronte ai loro sospetti ai volontari, e pure a me, riesce difficile comprendere il loro comportamento che lascia intravedere il sospetto che noi attentiamo alla loro fede. Spesso mi viene da osservare come mai allora essi non hanno un minimo di attenzione ai nostri costumi, alla nostra morale e alla nostra religione?

Io concedo ai mussulmani che ospitiamo, oggi molto numerosi nelle nostre città, tutte le attenuanti possibili, però credo che sia ormai ora di attenderci e forse di pretendere la reciprocità di comportamento. La comprensione, la tolleranza e quant’altro, sono cose belle e necessarie, però credo che sia tempo di opporci in maniera più netta e più decisa ad un fondamentalismo che non si esprime solamente con la “guerra santa”, ma che è pure insito nell’integralismo e nell’intolleranza, che sono ancora in loro presenti, mentre noi li abbiamo fortunatamente rinnegati almeno quattro o cinque secoli fa.