Spero sempre di tradurre l’amore di Dio in parole vive, non foglie d’autunno calpestabili!

Una delle parole più ricorrenti durante il ciclo delle celebrazioni natalizie è certamente “Incarnazione”. Tutto il mistero che ruota attorno al Natale è l’Emanuele, il Dio con noi, il Signore che ha piantato la sua tenda tra gli uomini, il Redentore che si è vestito di umanità, il Verbo di Dio che si fa scoprire nella fragilità dell’uomo, specie del più indifeso, del quale è segno il “Bimbo di Betlemme”.

Come tutti i preti, sono intervenuto più volte nei sermoni natalizi su questo argomento, partendo dai discorsi ricchi di poesia e di calda umanità che raccontano la nascita e la prima infanzia di Gesù e sono giunto a quel pezzo forte e complesso costituito dal “Prologo di san Giovanni”, pagina della Scrittura sublime finché si vuole, ma difficile da tradursi nella lingua parlata, ma soprattutto nella vita veramente vissuta.

Ho riflettuto ed ho pregato perché il Signore mi aiutasse a non fare discorsi scontati che sapessero di retorica religiosa o di maniera, senza però approdare a qualcosa che mi abbia convinto completamente e che avesse la capacità di passare la verità che posso ascoltare Dio in ogni situazione, lo posso incontrare nel quotidiano, lo posso amare nell’uomo e servire nel povero. Sono rimasto turbato temendo di non essere riuscito a passare la convinzione che posso immergermi in Dio come quando avverto la dolcezza soave della primavera, lo posso vedere nella natura, negli eventi, lo posso sentire vicino e caro, come quando l’amore canta dentro di me.

Spesso le parole dei miei sermoni mi sembravano come le foglie morte dell’autunno su cui posso passare sopra con disinvoltura ed indifferenza, tanto che in una Messa mi sentii di dire che certi discorsi diventano veri solamente nel pensiero e nella parola dei santi, dei poeti e degli innamorati ed io purtroppo ho la netta sensazione di non essere nulla di tutto questo. Non ho perso la speranza, comunque, perché “a Dio nulla è impossibile”.

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