Il giudizio di Napoleone

La mattina mi alzo alle cinque, non solo perché la sapienza popolare afferma che “Il mattino ha l’oro in bocca” ma anche perché, mentre la casa dorme e fuori è ancora buio, ho modo di fare le mie pratiche di pietà senza essere disturbato.

Di solito recito il breviario bisticciando spesso con i salmisti del popolo ebraico che, con le loro parole, ribadiscono il pensiero di allora e cioè che Dio si sarebbe dovuto occupare solo del popolo ebraico, popolo che al Padreterno chiedeva stragi, morte e calamità per i nemici e si gloriava quando riusciva a passarli a fil di spada.
Confesso che leggo il breviario più per obbedienza e penitenza che per devozione, mi rifaccio però recitando le preghiere più conosciute e più popolari. Faccio poi un po’ di meditazione leggendo qualche testimonianza di gente semplice ma che crede e che tenta di seguire gli insegnamenti di Gesù.

Come ho già scritto altre volte, m’ispiro a due testi: “Il Cenacolo” una rivista della Chiesa Metodista e “Il Breviario Laico” del Cardinal Ravasi. Il primo è un volumetto mensile che riporta frasi della Bibbia commentate da cristiani di quella Chiesa che dimorano in tutti i continenti. Questa lettura mi fa bene perché la sento semplice, innocente, concreta e perché si rifà alle esperienze quotidiane di tutti coniugando la fede con la vita. Nel secondo testo, di tutt’altro taglio e spessore, il Cardinal Ravasi, uomo di cultura e di fede, partendo da alcune citazioni di uomini di elevato spessore culturale, di ogni epoca e di tutte le correnti di pensiero ne fa un commento sempre di notevole levatura. Ravasi dimostra una cultura infinita e cita il citabile riuscendo a suggerire, a credenti e non credenti, proposte convincenti sia a livello di pensiero che di comportamento.

Questa mattina mi ha felicemente sorpreso e aiutato il pensiero di fondo, da cui questo prelato è partito, per fare una considerazione sull’umiltà e sul dovere di non lasciarsi condizionare dagli “idoli” del nostro tempo. La frase commentata è niente po’ po’ di meno che di Napoleone che, pur essendo l’imperatore, sorprendentemente afferma: “Un trono è solo un pezzo di legno coperto di velluto”. La gloria del mondo si riduce a tutto questo perciò dobbiamo evitare di farci incantare. Monsignor Vecchi, con meno prosopopea, ci diceva che quando incontriamo sapientoni che sanno tutto, che pontificano dall’alto, basta immaginarli in mutande perché salti il palco. Confesso che talvolta mi avvalgo anch’io, in alcune circostanze, di questo espediente.

L’imbroglio dei mass media

In tutta la vita il mio lavoro è stato quello di incontrare le persone per tentare di offrire loro un messaggio di speranza e un motivo che le aiutasse a vivere e a morire. Non vorrei esagerare ma sono migliaia e migliaia le persone che ho incontrato durante i miei quasi novant’anni di vita. A voler essere onesto devo confessare che ho incontrato anche alcuni soggetti litigiosi, egoisti, presuntuosi e imbroglioni ma sono convinto che anche questi ultimi probabilmente non si siano sempre comportati in un modo tanto esecrabile anzi forse in altre stagioni della vita, in altre occasioni o con altre persone potrebbero essersi comportati da galantuomini e persone perbene.

Sento di dover fare questa puntualizzazione perché se dovessi valutare la bontà o la cattiveria delle persone leggendo i giornali o guardando la televisione sarei costretto a concludere che il mondo è composto solamente da parolai, farabutti, imbroglioni, venditori di vento, trafficoni truffaldini e gente di questa risma. Ci sono comportamenti che esemplificano la distonia tra la brava gente e la cattiva gente che ci vengono offerti dalla carta stampata e dallo schermo televisivo. I mass media, che di certo non sono strumenti di educazione al bene ma imprese preoccupate solamente di vendere il “loro prodotto”, hanno costantemente la necessità per farsi leggere e per accontentare una certa morbosità dei lettori di presentare anomalie e di riportare notizie su fatti che escono dai binari di una vita sana e normale.

Ricordo che quando ero assistente degli scout, in tempi ormai lontanissimi, organizzammo per Natale una raccolta di legna e carbone per i poveri. Mi recai allora al Gazzettino e ottenni un angolino minuto del giornale per enfatizzare l’iniziativa. Neanche a farlo apposta il giorno dopo a Scorzé nacque un vitello con due teste e questo quotidiano dedicò all’evento cinque colonne e un titolo a caratteri cubitali. Mi venne la mosca al naso e andai dal direttore del giornale per protestare. Il direttore, con un’aria paternalistica da uomo vissuto, mi disse: “Il giornale è un’azienda che deve produrre e mentre il suo `caldo Natale` non fa aumentare di una copia le vendite del giornale, la notizia del vitello con due teste incuriosisce tutti e fa crescere il numero di copie vendute”.

Credo che le cose continuino in questo modo, io però sono profondamente convinto che le persone perbene sono la maggioranza assoluta infatti, se così non fosse, il nostro mondo non starebbe in piedi. A questo proposito già 2000 anni fa Gesù ci ha ammonito: “Guardatevi dai falsi profeti”. Sarà quindi opportuno che ci fidiamo più di Cristo che dei giornali.

L’offerta dell’ateo

Recentemente ho letto nella rubrica “Lettere al Direttore del Gazzettino” l’esternazione insolente e malevola contro i miei recenti interventi, riportati dalle testate cittadine su “Il Ristorante” per le famiglie povere e sul dramma dell’ingegner Cecchinato, inviata da una signora di Venezia che si è dichiarata atea. Questa signora si è erta a maestra per dirmi quello che dovevo dire e che dovevo fare.

La redazione de Il Gazzettino mi ha fatto pervenire la lettera offrendomi la possibilità di rispondere e io le ho risposto per le rime. Confesso che ho provato anche un certo rimorso pensando al “Porgete l’altra guancia” di Gesù ma poi è prevalsa la convinzione che ormai è ora di finirla con chi si erge a giudice e maestro quando in realtà è solo un soggetto pieno di sé e quanto mai settario.

Io ripeto, ancora una volta, di non avere nulla contro chi non crede perché sono convinto che si possa dialogare per crescere insieme e soprattutto per lavorare insieme alla costruzione di un mondo migliore. Il dualismo tra il credere e il non credere sembra una questione particolarmente difficile da conciliare, io comunque sull’argomento ho sempre mantenuto ben saldi due riferimenti: le affermazioni di Sant’Agostino e di Papa Giovanni XXIII. Sant’Agostino afferma che: “Ci sono persone che la Chiesa possiede e Dio non possiede e altre che Dio possiede e la Chiesa non possiede” e questo rende veramente difficile distinguere chi è credente da chi non lo è, mentre Papa Giovanni XXXIII, rivolgendosi sia agli uni che agli altri, afferma: “Sono infinitamente di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono”.

Con la visione che scaturisce da queste due massime mi sono sempre trovato benissimo con le persone perbene sia che fossero credenti sia che non lo fossero. A conferma di ciò l’altro ieri ho ricevuto questa lettera: “Sono l’ateo che altre volte le ha inviato un modesto obolo perché so che lei ne fa buon uso non come farebbero molti prelati della Curia romana. A lei non assegnano nessun titolo onorifico ecclesiale ma quello che le assegnano le persone che la conoscono vale molto di più. Tra i motivi per cui non mi firmo c’è anche la vergogna che provo nel non poter offrire di più”. Firmato: un ateo che ammira chi si impegna per gli altri. Allegati euro 50. Questa mattina poi la figlia e il genero dell’ingegner Ernesto Cecchinato mi hanno donato altri cento quadri dipinti dal loro padre che mi stimava e mi voleva bene. Con atei del genere non solo possiamo andare d’accordo e impegnarci a costruire un mondo migliore ma io credo che possiamo anche entrare in Paradiso tenendoci per mano.

La memoria dei religiosi

Io mi occupo del Camposanto da una vita. Le cose sono andate così. Un giorno di più di mezzo secolo fa, entrato per caso nella cappella costruita nell’ottocento assieme al primo recinto del nostro Camposanto su disposizione di Napoleone che giustamente volle i cimiteri lontani dalle chiese e dagli agglomerati civili, notai lo stato di abbandono totale in cui si trovava. Morto don Cortivo, che vi aveva officiato per qualche anno la Santa Messa, nessuno aveva più pensato a questa piccola cappella caduta in totale abbandono. Chiesi il permesso a Monsignor Da Villa, che era il mio parroco, di occuparmene perché quell’edificio sacro ritornasse a essere dignitoso e praticabile. Con il tempo mi sono talmente affezionato a quella chiesa e al Camposanto che da quando sono diventato un sacerdote pensionato me ne occupo a tempo pieno. Parto da questa premessa per giustificare il motivo della mia riflessione. Intorno al 1987 don Pace mi fece osservare che, mentre nel passato in cimitero c’era un “campo” riservato ai sacerdoti e alle religiose, in quegli anni per carenza di spazio lo avevano tolto per cui da allora i religiosi venivano sepolti un po’ in tutti “i campi”. Questo fatto non è di certo una cosa tragica ma a quel tempo c’era ancora la convinzione che i resti mortali delle persone consacrate dovessero riposare in un luogo riservato solo a loro.

Partendo dal suggerimento di don Pace promossi una colletta tra preti frati e suore, raccolsi nove milioni di vecchie lire e feci costruire, sulla collinetta accanto al monumento dei soldati austriaci caduti nella Prima Guerra Mondiale, una tomba molto capiente ove custodire i resti mortali dei religiosi e, ora che va di moda, anche le loro ceneri. Su questa collinetta fa bella mostra di sé una croce particolare progettata dall’architetto Renzo Chinellato. Ora però purtroppo avverto un certo senso di colpa per non aver curato più di tanto questa tomba che nella sua semplicità è certamente dignitosa ma di cui temo che né i preti, né i frati, né le suore né tantomeno i fedeli conoscano l’esistenza. Mi sono perciò riproposto di intervenire con “qualche segno” che evidenzi il luogo che custodisce i resti mortali di chi ha tentato di dedicare interamente la propria vita ai “figli di Dio” di questa nostra città e, passandovi davanti, li ricordi con una preghiera. Il mio Angelo Custode però, con discrezione e delicatezza, mi ha fatto osservare: “Non è che ora hai deciso di occuparti di questa tomba perché presto diventerà anche la tua dimora per sempre?”. Il mio Angelo Custode è saggio e onesto e devo ammettere che non ha tutti i torti ma piuttosto che le mie ceneri vadano disperse nel giardinetto del piazzale preferirei che riposassero sotto la croce della collinetta.

Le preghiere

Gesù ha affermato che nessuno è profeta nella sua patria e ha fatto questa affermazione quando ha provato l’amarezza del rifiuto e dell’ostilità del suo popolo. Il rifiuto del popolo di Gesù, generato dall’affermazione di Cristo di essere venuto non solo per il bene della sua gente ma per quello di tutti anche degli stranieri e dei popoli con fedi diverse, è arrivato al punto di spingere alcuni a tentare di ucciderlo gettandolo da un dirupo.

Di certo io non posso paragonarmi a Cristo, Lui aveva la possibilità di donare la verità, la salvezza, di indicare la via per arrivare al Padre mentre io non posso donare altro che qualche convinzione, qualche proposta o qualche interpretazione del messaggio evangelico.

Posso però confessare che in tutta la mia vita ho cercato soluzioni innovative per quanto riguarda la pastorale, la carità, la fede e l’interpretazione del messaggio evangelico. Posso affermare anche, senza tema di smentita, che le nuove soluzioni che ho cercato sono sempre state in linea con la sensibilità e i problemi della mia gente.

Penso però che un po’ per il mio carattere chiuso, per la franchezza delle mie prese di posizione e per le mie denunce mi sono trovato spesso solo, isolato e rifiutato dai vicini ma soprattutto dai colleghi mentre sono stato più che mai appagato dalla stima, dall’affetto e dalla condivisione dei lontani. I Comuni, le associazioni di volontariato, i giornali e le televisioni che sono venuti al Don Vecchi non si contano; ho sempre avuto la sensazione che moltissimi siano quanto mai interessanti alle nostre esperienze, desiderosi di conoscerle in maniera più approfondita mentre i vicini pare non solo che le diano per scontate ma anzi che ne siano irritati.

Oggi il cappellano di un ospedale di una città del Veneto, e non è il solo, mi ha chiesto se fosse possibile ricevere il nostro libretto di preghiere del quale finora abbiamo stampato 60.000 copie mentre sembra che qui nessuno, che si occupi dell’assistenza degli ammalati, abbia mostrato una qualche forma d’interesse. Non vorrei proprio che una volta morto mi facessero diventare una “bandiera”.

Liete sorprese

Un tempo “nell’introitus ad altare Dei”, parole con le quali si iniziava la santa Messa in latino, ci si riferiva a Dio che “allieta la nostra giovinezza”. Ora però ho felicemente compreso che il buon Dio è disposto ad accettare anche la nostra vecchiaia quando ci si rivolge a Lui con fiducia e confidenza. Ho constatato che quando sono più stanco, più depresso e più cosciente dei miei acciacchi e dei miei limiti il Signore mi manda qualche segno della sua attenzione e della sua benevolenza, segno che mi incoraggia e che mi aiuta a riprendere fiato e a continuare il mio servizio.

Qualche tempo fa, come ho già confidato ai miei amici, quasi un’intera classe delle magistrali, che festeggiava il mezzo secolo dal diploma, mi ha invitato a pranzo per celebrare questo lieto evento assieme al loro vecchio insegnante. Questo incontro mi ha riempito di consolazione perché ho potuto toccare con mano la loro stima e il loro affetto: ricordarsi di un vecchio prete dopo mezzo secolo di vita non è proprio una cosa di tutti i giorni.

Qualche tempo fa ho incontrato uno dei miei ragazzi scout che non vedevo da almeno venti-trent’anni. Sapendo che aveva fatto la carriera militare come suo padre e pensando che fosse arrivato al grado di maresciallo, gli ho chiesto scherzando: “Non sarai mica arrivato a generale?”. Con mia infinita sorpresa mi sono sentito rispondere: “Si don Armando mi sono appena congedato con il grado di generale dell’Aeronautica!” e sorprendendomi ancora di più mi ha confidato che si sarebbe reso disponibile a fare l’aiuto tipografo per la stampa de “L’incontro”.

L’altro ieri ho celebrato il commiato della madre di un anziano signore che mi ha detto: “Non si ricorda di me don Armando? Ero scout nella squadriglia delle volpi” e continuando in quel dialogo caldo e affettuoso mi ha ricordato che “Vassili”, un altro scout, è arrivato a ricoprire l’incarico di ambasciatore in Turchia.

Se prestiamo un po’ di attenzione ci accorgeremo che nei momenti di sconforto il Signore non manca mai di farci una carezza, una battuta sulle spalle o un complimento per risollevarci dalla tristezza.

“I morti”

Alla mia età ogni giorno sono costretto a misurarmi con le atmosfere un po’ romantiche ma sempre vere delle nostalgie, dei rimpianti e dei confronti descritti in maniera magistrale da Antonio Fogazzaro nel suo splendido romanzo: “Piccolo mondo antico”. Oggi poi l’evoluzione del costume, della mentalità e del modo di pensare e di vivere è così veloce da far emergere, in una persona di novant’anni nel confronto tra le proprie esperienze pregresse e il modo d’essere del giorno d’oggi, differenze veramente abissali. Io da più di mezzo secolo mi occupo della chiesa del cimitero, di questo piccolo mondo racchiuso da mura e cancelli e trapunto di cipressi alcuni secolari e altri appena piantati.

Sia chiaro, io non condanno, non mi ribello e non rifiuto il modo attuale di “vivere” l’evento della morte e il rapporto con i defunti ma sono costretto a fare confronti e valutazioni.

Sono quanto mai perplesso di fronte a una certa indifferenza e a una certa disinvoltura nel non affrontare questa realtà quasi nel “tentativo” di ignorarla, come non facesse parte delle problematiche della vita.

Lasciatemi fare qualche confronto tra i più evidenti e riscontrabili. Ricordo che intorno agli anni 60, tempo in cui ero cappellano presso il Duomo di Mestre, per il funerale si faceva una lunga processione aperta dalla croce, al passaggio del corteo le persone si toglievano il cappello e si facevano il segno della croce e i negozianti abbassavano le serrande.

Per “i morti”, all’imbocco di via Spalti, c’era una tale ressa di persone che si recavano alle tombe dei propri cari da far fatica ad aprirsi un varco tra la folla. Oggi al Duomo si permette di entrare in piazza solo al carro funebre che poi, seguito da qualche autovettura con i parenti più stretti, raggiunge velocemente il camposanto. Oggi spessissimo ai funerali partecipa un numero sparuto di persone e dopo il rito funebre, mentre la salma parte solitaria per la cremazione, la gente si sofferma a lungo a chiacchierare, almeno in apparenza, in maniera piacevole.

La società ha di certo ritmi diversi ma, mentre la realtà della morte rimane quella di sempre, le certezze che un tempo accompagnavano questo evento sembrano sbiadite e surrogate da un pragmatismo arido e in evoluzione talmente rapida che, almeno in apparenza, non consente più né di porti domande né di trovare risposte. Confesso che non mi so rassegnare ad una vita spesso faticosa che non conduce da nessuna parte se non alla tomba perciò mi aggrappo al pensiero della Terra Promessa e del Paradiso.

I soccorritori dei poveri

L’aspetto della pastorale che riguarda i poveri mi ha sempre interessato quanto mai perché da sempre sono convinto che se la religione alla fin fine non diventa solidarietà si riduce ad essere “aria fritta”. Per questo motivo ho speso metà della mia vita per aiutare i più poveri della nostra società e l’altra metà per stimolare le parrocchie e i singoli cristiani a impegnarsi seriamente in favore dei poveri.

Sono dovuto arrivare però a questa veneranda età per comprendere che non basta darsi da fare per aiutare chi è in difficoltà organizzando la comunità per recuperare quello che serve per prestare questo soccorso perché, fino a quando non si riesce a calarsi nella realtà in cui vive il povero, si rischia di fare solo della beneficenza ma ben difficilmente “ci si fa prossimo” come ci ha insegnato Gesù nella parabola del Buon Samaritano.

Qualche giorno fa sfogliando un giornale mi è capitato sotto gli occhi l’immagine di una giovane donna che con i sandali ai piedi cammina sulle dune di sabbia del deserto. La didascalia informava che si trattava di una “piccola sorella di Gesù”, ossia un’appartenente a quella congregazione religiosa che si rifà alla testimonianza di Charles de Foucauld, religioso che ha insegnato che per comprendere e aiutare i poveri bisogna vivere “come loro”.

La fotografia mi ha fatto venire in mente un episodio di tanti anni fa. Un giorno, alla porta della mia canonica, bussarono due giovani donne, una francese e una di Napoli, “due piccole sorelle di Gesù”, che mi chiesero se potevo aiutarle a trovare un lavoro perché avevano esaurito la loro piccola scorta di denaro. Dissi prontamente che avrei provveduto io ma gentilmente mi risposero che il pane volevano guadagnarselo. Proposi allora alcune soluzioni che mi sembravano confacenti alla loro condizione di suore ma gentilmente rifiutarono nuovamente: “Noi vogliamo vivere come le donne più povere, quindi le saremmo grate se ci trovasse un lavoro umile come lavare le scale”.

Capii allora che per occuparsi veramente e in maniera efficace dei poveri bisogna calarsi nella loro condizione esistenziale. Ho tentato. Quando sono andato in pensione infatti ho scelto di vivere al Don Vecchi come gli anziani poveri che ho cercato di aiutare però, quando entro nel mio studiolo, stanzetta di cui nessuno di essi dispone, mi sento sempre un po’ in colpa!

Amarcord delle magistrali

Qualche settimana fa è venuta a trovarmi al Don Vecchi una delle mie “ragazze” delle magistrali, facendomi una proposta che mi ha alquanto sorpreso ma che nello stesso tempo mi ha fatto molto piacere. Questa donna ultrasessantenne, che ha mantenuto una sua bellezza composta ed armoniosa, mi ha detto che lei e le sue compagne di classe, diplomatesi mezzo secolo fa, avrebbero desiderato festeggiare l’evento venendo a pranzare da me al Senior Restaurant del Don Vecchi.

Io ho sempre avuto un certo timore di questi incontri il cui denominatore comune sono vecchi ricordi un po’ sbiaditi e trasformati da tutte le vicende che si sono susseguite da quei tempi lontani ricchi di sogni, di emozioni e di progetti che la vita poi spesso smorza o perfino distrugge. Sarebbe stato però scortese non aderire a questo invito così cordiale che, tutto sommato, nasceva dalla simpatia e da una qualche forma di riconoscenza. Mi lusingava poi il fatto che di tutto lo staff di docenti che, insegnavano materie con un peso ben più consistente della religione, avessero scelto proprio me.

Pur con qualche piccola esitazione e preoccupazione le ho detto che sarei stato molto contento che fossero mie ospiti per il pranzo di una domenica di metà ottobre. Non è che non incontri spesso e con piacere qualche donna dai capelli grigi che mi dica: “Si ricorda don Armando che è stato mio insegnante alle magistrali?”, incontrare però quasi una classe intera è stata un evento veramente insolito. L’incontro è stato molto più felice e positivo di quanto potessi immaginare. Quello che mi ha fatto poi molto piacere è stato il constatare che sono rimaste donne sane, con valori evidenti e soprattutto il sentire che manifestavano con sincerità simpatia, affetto e riconoscenza per il loro vecchio insegnante che ha tentato con tutte le sue forze di trasmettere loro una visione positiva della vita.

L’insegnamento alle superiori mi costò veramente tanto anche perché sono sempre stato convinto di non aver le qualità necessarie, comunque sono stato contento che per loro il ricordo sia rimasto molto positivo.

Un incontro desiderato

Alcune settimane fa mi è stato chiesto dalla Fondazione di scrivere una lettera al Sindaco per elencare i punti critici dei Centri Don Vecchi al fine di superarli lavorando in sinergia con il faraonico apparato comunale. Ho scritto, come mi viene naturale, una lettera con tanto pepe chiedendo al Sindaco un colloquio per mettere a punto il rapporto che io ritengo assolutamente necessario con l’ente pubblico, rapporto in cui il ruolo dell’ente pubblico ritengo non debba essere quello di gestire i servizi sociali ma quello di svolgere una regia intelligente per tutte quelle realtà di base a cui, a vario titolo, sta a cuore il bene della comunità.

Quando, durante la campagna elettorale, ho avuto modo di incontrare l’aspirante Sindaco gli ho chiesto di instaurare un rapporto privilegiato con il “privato sociale” e più volte mi sono permesso di suggerirgli di mantenersi alla larga dai sindacati, dai centri sociali, dai “comitati no a tutto” e dalle nobildonne che quando s’incontrano per il tè si sentono delle dogaresse.

Ho fatto presente al Sindaco, come detto, alcuni punti critici della Fondazione, anche se essa naviga con il vento in poppa. Avrò modo, in altre occasioni, di ritornare su queste criticità per le quali è necessario il dialogo con l’Amministrazione Comunale così come è necessario per il Comune dialogare con una realtà che mette a disposizione quasi 500 alloggi per gli anziani più poveri e che rappresenta una delle strutture più avanzate e moderne per la loro domiciliarità.

Le sensazioni che ho avuto dal colloquio sono state sostanzialmente positive. Brugnaro mi è parso un uomo intelligente, concreto, con un’ottima conoscenza dei problemi, estraneo al politichese degli uomini di partito, con idee e obiettivi condivisibili, totalmente allergico alla dialettica fatua ed inconsistente degli amministratori impreparati e sapientoni espressione dei partiti di qualsiasi colore, pragmatico e in rottura con la prassi amministrativa di una sinistra che ha portato al limite del fallimento il nostro Comune. Se penso però a tutto quel mondo clientelare e interessato che dovrebbe sradicare, temo che non gli basti la semplice Ave Maria serale che gli dedico, forse non gli basterebbe neppure l’intero Rosario.

Un segno di speranza

Lunedì scorso ho confidato ai miei amici lettori tutta l’amarezza, lo sconforto e lo sconcerto che la tragica morte dei coniugi Cecchinato ha generato nel mio animo.

I mass-media, partendo dalle manifestazioni di stima e di riconoscenza che avevo espresso con alcune note in occasione dell’elargizione di euro 100.000 che l’ingegner Cecchinato ha fatto, note che sono poi state inserite nel mio blog, le testate giornalistiche e le emittenti locali mi hanno letteralmente sommerso con richieste di ulteriori informazioni. Io però, oltre alla stima e alla riconoscenza nei confronti di un concittadino che quasi senza conoscermi aveva fatto a favore del Don Vecchi un’elargizione tanto significativa, ho potuto aggiungere poco altro se non l’amarezza e il rammarico per non essere stato capace di offrirgli quella speranza necessaria ad impedire l’amara e tragica conclusione della sua vita e di quella della moglie.

Ai miei intervistatori non ho mancato di dire che il mio Dio è quello che ho conosciuto nella parabola del “figliol prodigo” in cui abbiamo imparato a conoscere il Suo cuore sconfinato. Ho approfittato anche per dire loro che solo Dio conosce “i reni e il cuore” di ogni creatura ed ho ripetuto il pensiero di Sant’Agostino che afferma che “ci sono uomini che Dio possiede e la chiesa non possiede” per poi ribadire la tesi del Cronin che, nel suo volume: “Le chiavi del Regno”, afferma che per arrivare al Regno ci sono persone che imboccano l’autostrada, altre che percorrono strade sterrate ed altre ancora sentieri impervi più o meno tracciati.

Per questi motivi non dispero e credo che anche questi coniugi abbiano imboccato una strada poco battuta ma che comunque porta a quel Padre che accoglie tutti dicendo: “Entra e facciamo festa perché eri lontano e sei tornato”. Ieri e oggi ero immerso in questi pensieri quando, dalla segreteria del Don Vecchi, mi hanno informato che il giorno precedente la sua tragica morte l’ingegner Ernesto Cecchinato ha versato euro 20.000 per i nostri vecchi che non ha mai né visto né tantomeno conosciuto. Una volta ancora mi risuonano nel cuore le splendide parole di Sant’Agostino: “Ama e poi fa quello che vuoi”.

Esco ancora una volta allo scoperto

La riflessione su cui sento il sacrosanto dovere di ritornare l’ho già fatta non molto tempo fa. Oggi è diventata attuale l’espressione che l’arcivescovo della capitale francese aveva anticipato ben quarant’anni fa: “Parigi è terra di missione”. In quella famosa lettera pastorale, che ha turbato l’opinione pubblica del mondo ecclesiale, questo cardinale ha snocciolato dati che denunciavano la secolarizzazione o peggio ancora la scristianizzazione dei cittadini della grande metropoli d’oltralpe.

A quel tempo con monsignor Vecchi feci un viaggio di esplorazione pastorale in Francia perché, pur in quel contesto di abbandono della pratica religiosa, in Francia c’erano anche delle punte di diamante che pareva avessero molto da insegnare. Mestre deve a quel viaggio apostolico la nascita della “Borromea” e dei “bollettini parrocchiali”. Alla conclusione di quell’esperienza con Monsignore siamo arrivati a questa conclusione: “Dobbiamo riuscire a portare la nostra gente ai livelli più avanzati della Chiesa francese senza però cadere nell’inferno della scristianizzazione di massa”. Non ci siamo riusciti e ora le parrocchie della nostra città stanno slittando progressivamente, in maniera ineluttabile, verso il vortice dell’indifferenza e dell’abbandono.

Questa è una tristissima constatazione, è ancora peggio però non notare alcun segnale dei tentativi di contrastare questa catastrofe. Qualche giorno fa ho appreso da una “soffiata” che Gente Veneta, l’unico giornale d’ispirazione cristiana, a Mestre ha una tiratura di poco superiore alle 1000 copie. Ciò significa che, se fosse vera la più lusinghiera delle ipotesi e cioè che la presenza di fedeli al precetto festivo raggiunge forse il 15%, e quindi solo questo 15% ascolta un discorso religioso attraverso il sermone del parroco, il restante 85% dei mestrini non è raggiunto da alcuna proposta religiosa. Da questi dati mi sono reso conto della grande responsabilità che noi de L’Incontro abbiamo nel continuare a diffondere le 5000 copie del nostro settimanale. Sono corso ai ripari chiedendo a sacerdoti e laici collaborazione perché suddetta proposta possa mantenere il suo standard elevato e magari migliorarlo ma finora non ho ottenuto alcun risultato positivo.

Un dono non sufficientemente apprezzato e amato

Io, dopo un evento che mi ha coinvolto e che mi ha fatto soffrire, non riesco a voltare pagina facilmente. I mass-media, che per due giorni mi hanno “tormentato” con interviste e domande sulla tragica morte dell’ingegner Cecchinato e di sua moglie, certamente domani saranno alla ricerca di un’altra notizia che possa interessare l’opinione pubblica ma per me le cose non vanno così.

Il sapere che una persona, che ho incontrato e conosciuto anche se superficialmente, si è tolta la vita non mi lascia e non mi lascerà indifferente per molto, molto tempo. Il pensiero poi che questa persona sia “naufragata” perché non aveva l’appiglio della fede, quell’appiglio che tante volte mi ha salvato e per il quale io sono stato scelto come prete per offrirlo a chi mi sta accanto, è qualcosa che mi turba e mi costringe a riflettere.

Ricordo sempre Bernanos che nel suo “Curato di campagna” fa dire al prete protagonista: “Non è colpa mia se vesto da beccamorto (allora i preti portavano la tonaca nera) ma comunque io offro la speranza a chiunque me la chieda”. Io avevo ed ho ancora, per grazia di Dio, quel dono di cui anche l’ingegner Cecchinato aveva bisogno e mi addolora moltissimo non essere riuscito a trasmettergli quel dono a cui avrebbe potuto aggrapparsi in quel triste momento della sua vita.

In questi giorni di turbamento una volta di più ho capito quale ricchezza sia stata offerta a noi credenti, ricchezza che talvolta non apprezziamo e non testimoniamo quanto sarebbe giusto e doveroso.

Proprio ieri mi è capitato di leggere una pagina ingenua e candida che mi ha aiutato a capire ancora meglio quanta sicurezza, coraggio e serenità porti nell’anima la fede in Dio. La offro perciò anche a voi amici perché abbiate quell’appiglio che l’ingegner Cecchinato non è riuscito a trovare.

“Mamma!” una vocina chiama dal bagno. “Sono qui, tesoro”, risponde la madre. Anche se la bambina non la vede si calma subito udendo la voce in cui ha fiducia. Poi, improvvisamente, la porta si chiude sbattendo per una corrente d’aria. Il rumore inatteso scuote la bimba. “Mamma? Sei ancora lì?” dice con voce tremante di paura. “Sono qui, amore! Ti prometto che non ti lascerò”.

Come la bambina, a volte anche noi ci troviamo in situazioni che incutono timore. Non possiamo vedere Dio, non possiamo sentire la sua presenza, cadiamo nel panico, temendo che ci abbia abbandonati in un territorio sconosciuto. Ma quando gridiamo “Abba!” Dio ci assicura: “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò”. La fede nella parola di Dio fa cessare le nostre paure. Tra le Sue braccia amorevoli troviamo la forza per affrontare i momenti più difficili della vita, sapendo che Lui non ci abbandona.

Il dramma che mi pesa nel cuore ma non mi toglie la speranza

L’intera città è rimasta sconcertata dal tragico evento che ha coinvolto l’ingegner Ernesto Cecchinato e sua moglie. È stato estremamente difficile per tutti comprendere il gesto del nostro concittadino che, dopo aver ucciso la moglie, ha posto fine alla sua vita ma è stato ancora più difficile capire perché egli si sia fatto portare da Abano a Mestre ed abbia scelto il giardino pensile del nostro ospedale per mettere la parola fine a due esistenze.

Queste domande comunque sono oziose e per nulla utili, l’importante è chiederci come mai nessuno si sia reso conto della disperazione che ha portato a questo dramma e non gli abbia offerto quella solidarietà che forse l’avrebbe aiutato a superare lo sconforto e la solitudine interiore.

I giornali mi hanno descritto come “il suo amico sacerdote”, in realtà non è stato così. L’ingegner Cecchinato l’avevo conosciuto quando mi donò, per il Don Vecchi, prima 150 suoi dipinti accompagnati da 5 milioni di lire e poi lo incontrai nuovamente quando, un paio di anni fa, mi offrì sempre per il Don Vecchi 100.000 euro. Sono certo che nutrisse fiducia e stima nei miei confronti, da parte mia fin dal primo incontro provai simpatia per questo uomo intelligente, generoso ed onesto.

Una mia vecchia parrocchiana, che conosceva l’ingegner Cecchinato meglio di quanto non lo conoscessi io, avendo saputo del suo dono mi disse: “Don Armando, gli stia accanto perché sta molto male e non ha il conforto della fede”. Molti pensano che una “buona parola” possa “convertire” una persona ma purtroppo so per esperienza che solamente una testimonianza coerente ed un’amicizia sincera forse può generare in un non credente una crisi positiva capace di aprire uno spiraglio di speranza. Ho fatto qualcosa ma non è stato sufficiente, forse perché era gravemente ammalato e sua moglie lo era molto più di lui ma soprattutto perché vivevamo molto lontani l’uno dall’altro e oltre alla stima reciproca non c’era molto altro. Io desideravo offrirgli conforto e speranza lui invece nutriva la curiosità di sapere come procedeva la realtà del quartiere Don Sturzo per il quale aveva lavorato e penato alquanto.

Sono estremamente addolorato per la tragica fine di questi due anziani coniugi ma non ho perso la speranza sia perché condivido il pensiero di Sant’Agostino che afferma che “ci sono uomini che Dio possiede e la Chiesa non possiede” sia perché il Dio in cui credo e che amo ha il volto del padre del figliol prodigo. Queste verità mi offrono la certezza che anche queste due care creature troveranno la pace.

I miei dubbi

Qualche tempo fa, pur cosciente di essere un semplice untorello di periferia, riflettendo sulla questione terribilmente complessa dei profughi, anche se in maniera faceta, sono arrivato a proporre soluzioni concrete. In quel momento non ho riscontrato alcuna reazione perché i lettori de “L’incontro”, che sono persone buone ed intelligenti, certamente avevano capito che le mie esternazioni di vecchio prete non avevano la presunzione di far credere che avessi la soluzione del problema in tasca, soluzione che pare non abbiano neppure i massimi responsabili ed esperti sia nazionali che mondiali. Credo che tutti abbiano capito che si trattava solamente di una provocazione per stimolare chi ha competenze e responsabilità a impegnarsi più sollecitamente almeno per approcciare il problema in maniera più seria. Nella mia proposta, come ultimo punto, auspicavo che la Guardia di Finanza, un giorno sì ed un giorno sì, facesse delle verifiche sul comportamento delle cooperative e degli enti pubblici perché non lucrassero più di tanto sulla disperazione dei profughi. Il mio discorso non era poi così ballerino e personale perché ormai l’intera nazione è venuta a conoscenza del comportamento e delle truffe che certe cooperative romane, in odore di mafia, hanno perpetrato ai danni dello Stato e sulla pelle di quei poveri disperati che purtroppo si illudono che l’Europa darà loro accoglienza per trovare finalmente un po’ di serenità.

Ora vengo al motivo di questa lunga premessa. Il giorno dopo l’invito del Papa, rivolto ad ogni comunità cristiana, di offrire un alloggio ad una famiglia di profughi, si è riunito il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum. Io, pur non facendone più parte, ero stato invitato a partecipare a quella riunione di Consiglio. In quell’occasione si è discusso dell’invito del Pontefice e, anche su mia pressione che poi si è rivelata superflua, il Consiglio, seduta stante, ha messo a disposizione due alloggi. Il primo – che è al Don Vecchi – è già stato fatto ridipingere mentre per il secondo, che si trova alla Cipressina, si stanno spendendo euro 20.000 per la ristrutturazione. Di tutto questo mi sento veramente orgoglioso. Ho comunicato al Patriarca la disponibilità della Fondazione però sono passati quasi due mesi e nulla si è mosso. Non vorrei che la mafia fosse giunta anche a Venezia! Tra un po’, in mancanza di segnali positivi, proporrò di ritirare la disponibilità perché per quel che mi riguarda è doveroso pretendere serietà sia dallo Stato che dalla Chiesa!