Il domani di Dio

Mi pare di aver capito che i problemi della vita hanno di certo una loro oggettività, però nel valutarli influisce in maniera notevole la psiche personale e lo stato d’animo con i quali si affrontano.

Faccio questa premessa volendo riflettere, tenendo ben conto della mia pochezza intellettuale, su un problema che pare interessi un po’ tutti, ma in maniera particolare il prete, perché su questo problema egli ha investito tutta la sua vita e che col tempo è divenuto il motivo e il supporto più importante della sua esistenza.

Eccovi quindi il problema: il domani di Dio, o meglio ancora, il tema del futuro della religione e della fede. Hanno un domani queste realtà o sono destinate, in tempi più o meno brevi, all’estinzione?

Ai tempi del sessantotto avevo affrontato e sofferto questo problema, ma ne ero uscito vittorioso. Allora i giovani cantavano, perfino in chiesa, nelle canzoni d’avanguardia: “Dio è morto”, però si intendeva la fine di un dio della reazione, del passato e di una religiosità arretrata che sopravviveva e si muoveva faticosamente, perché aveva mani e piedi legati dalla palla di piombo di una tradizione oscurantistica, reazionaria e formale! Tutti sappiamo com’è andato a finire il sessantotto; forse era solamente il dramma di una gioventù che si sentiva soffocata da norme, mentalità, ed autorità che non avevano intuito che la vita non sarà mai un fatto statico, perché la continua evoluzione è una legge connaturale all’esistere.
In questi ultimi tempi, poi, il divenire ha accelerato in maniera esponenziale i suoi ritmi, spiazzando un po’ tutti e in tutti gli aspetti della vita, scientifici, culturali, religiosi ed esistenziali.

Ora, però, questo problema mi pare mi si ripresenti come un fatto che coinvolge non solamente le generazioni emergenti, ma riguardi pure gli adulti e perfino gli anziani, che sono ancora “vivi” e non intendono giocarsi la vita senza pensare, indagare e discutere. Provo a riferire alcune esperienze e letture che hanno riacutizzato questa preoccupazione già presente nel mio spirito.

Recentemente ho letto una inchiesta sul domani delle religioni in “Il nostro tempo”, rivista di un circolo cattolico di Torino. In quel giornale, si riporta un’inchiesta condotta da gente intelligente ed obiettiva, che ha interrogato un numero quanto mai significativo di giovani dai 18 ai 35 anni su questa tematica e il risultato emerso è che il problema religioso per loro non esiste, perché ininfluente nella vita ed ormai insignificante.
Ai miei occhi di prete questa lettura è risultata alquanto agghiacciante.

Pochi giorni fa ho letto pure l’articolo di fondo de “Il Messaggero di Sant’Antonio” di settembre, rivista, che sotto il titolo “Omelia ai banchi vuoti della chiesa”, fa una analisi per me pressoché angosciosa, perché enumera il crollo delle vocazioni maschili e femminili, la chiusura di parrocchie, asili ed opere religiose per mancanza di personale.
Constatazione questa che è poi sotto gli occhi di tutti.

Ma voglio riferire su due altri dati, che mi sono stati offerti da persone più vicine, e l’impatto con queste considerazioni diventa più sentito, quando proviene da qualcuno che conosci e che è impegnato nel campo della pastorale. Mio fratello don Roberto, parroco di Chirignago, lascia trasparire una settimana si e l’altra si, sul suo periodico, la delusione e lo sconforto nel constatare che ragazzi, con i quali ha vissuto delle esperienze formative e religiose veramente forti, scompaiono dalla pratica religiosa e nella stragrande maggioranza non si sposano né in chiesa né in municipio. Leggendo gli scritti di don Roberto, prete convinto e ricco di intelligenza e di iniziativa, mi pare di avvertire il fiato grosso e la sensazione dello smarrimento e della fatica di tirare avanti!

In un numero di “Lettera aperta”, settimanale della parrocchia di Carpenedo, di un paio di settimane fa, don Gianni Antoniazzi, mio successore in quella parrocchia, ha infilzato come nello spiedo alcuni altri fatti, tra i quali: la chiusura del convento delle suore di clausura, perché le monache sono ridotte a due, l’annunciato abbandono dei frati antoniani della parrocchia del Sacro Cuore ed altre notizie ecclesiali poco esaltanti.

Infine ho letto nel bollettino parrocchiale di Santa Maria Goretti un corsivo di don Narciso, altro mio cappellano a Carpenedo, nel quale si annuncia in tono quasi trionfale il ritorno delle suore nella parrocchia; il guaio è che esse sono suore indiane, che cercano probabilmente l’America in Italia!
Mentre le ragazze italiane pare pensino ad altre cose piuttosto che alla religione.

Quale pensate possa essere il risultato nello spirito di un prete quasi novantenne di fronte a tutto ciò!?
Tutti potrebbero pensare che mi sento distrutto!

Invece no, proprio no!
Credo che questo crollo religioso sia solo, o quasi, apparente.
Sono convinto che solo dopo la morte c’è la resurrezione più bella, più sfavillante, e più preziosa. E’ successo così per Gesù, pietra angolare della nostra fede e così sarà anche per la nostra fede, siamo vicino all’alba di un nuovo giorno, questi per me sono i sintomi della primavera!
Gli uomini avranno sempre, prima o poi, la nostalgia della Casa del Padre.
Ricordate il figlio minore della parabola, sbatte in faccia di suo padre la porta di casa, “dammi ciò che mi aspetta”, “voglio vivere la mia vita”.
I fiori del male sono sempre smaglianti, però quando si trovò a doversi sfamare col cibo dei porci, disse: “Mi alzerò e tornerò da mio Padre”. L’uomo ha bisogno di Dio, nessuno gli potrà mai dare quello che solo Dio gli ha dato e gli da ancora.

Confesso, quindi, che, nonostante questi fatti assolutamente negativi, rimango sereno e essi, anzi, mi fanno guardare al domani con esaltante speranza, con felice certezza che andiamo, non verso il peggio, ma il meglio, il positivo.

Per quanto riguarda la religione, ossia quel complesso di pratiche, di istituzioni, di culture e di prassi di vita, sono ancor più sereno per quello che riguarda la fede.

Qualche giorno fa, preparandomi per il commiato di un concittadino, chiesi alla moglie se egli fosse stato praticante?
Ella, con onestà, mi rispose che di certo era credente, ma non praticava, però viveva da vero cristiano; e che cosa di diverso possiamo desiderare noi preti?
Don Gino, uno tra i migliori collaboratori del mio passato di parroco, si doleva nel suo periodico perché una coppia dei suoi ragazzi, felice e positiva, non s’era sposata in chiesa; leggendolo mi sono detto: “E’ più importante un matrimonio con la corsia e la marcia di Mendelssohn, o una coppia di giovani felici che vivono con ebbrezza il meraviglioso dono dell’amore?
Io, vecchio prete, opto per questa seconda ipotesi!

Concludo dicendo: non vorrei che qualcuno mi pensasse un nuovo Martin Lutero che affigge le sue tesi contro la Chiesa; rimango invece un povero prete che cerca il bene vero.

In questo versante mi pare di vedere, in lontananza, una luce tenue, luce che ci garantisce una uscita da questo tunnel, il quale preoccupa giustamente vescovi, preti e credenti.
Per me, oggi più che mai, la fede ha un domani!

Preti, come!

Domenica 11 settembre è scoppiata una piccola “bomba” nella chiesa veneziana; don Marco Scarpa già mio cappellano nella parrocchia di Carpenedo, alla fine della messa celebrata nella sua parrocchia di San Pantalon della quale era parroco, ha comunicato ai suoi fedeli e alla Chiesa veneziana che da quel momento smetteva di fare il prete.

Don Marco ha inquadrato la sua scelta con l’armamentario proprio del politichese cattolico, rinnovando il suo affetto per i fedeli e colleghi, ha chiesto scusa ed ha promesso preghiere per tutti, finendo col dire che continuerà ad essere cristiano anche se con modalità diverse di quelle usate finora.

Il modo con cui don Marco ha presentato la sua scelta gli ha accattivato un largo consenso nell’opinione pubblica locale, quasi che la gente riconoscesse nella sua scelta non il venir meno l’impegno preso in maniera solenne ma una decisione di una persona onesta, corretta e credibile e quindi meritevole di encomio.

Un mio amico de “Il Gazzettino”, il signor Fenzo, conoscendomi come la “Betta dalla lingua schietta” mi ha chiesto con tanto garbo un’opinione; gli risposi che da un lato la cosa non mi sorprendeva più di tanto perché già da un paio d’anni m’erano giunte voci da parte di un mio collega più informato sulle vicende del clero veneziano. Comunque sono profondamente convinto che sempre si devono rispettare le scelte o i drammi personali, nostro Signore ci ha chiesto di non giudicare sapendo quanto sia difficile entrare nell’intimo della psiche umana.

Ne mi ha sorpreso la reazione positiva e quasi entusiasta da parte di qualcuno, a motivo che il processo di secolarizzazione è quanto mai avanzato e il superamento della sensibilità religiosa della tradizione è mutato ancor di più, nonostante che la prassi religiosa in pratica è ancora molto ancorata a questo passato ed è quanto mai lenta ad evolvere in rapporto alla sensibilità e la cultura del nostro tempo.

Confesso però che di istinto sono andato a ricordare un bel film di 30-40 anni fa, il cui protagonista era un celeberrimo attore francese e il cui titolo era: “Lo spretato”. La presentazione, la cornice, l’opinione pubblica d’allora era diametralmente opposta a quella attuale e si rifaceva ad una atmosfera di tradimento, di sconfitta e di fallimento.

Tanto che lo “spretato”, uscendo in strada, dopo una notte passata in un locale notturno, dice allo spazzino che scopava foglie secche e cartaccia: “Tu non raccogli rifiuti d’uomo?” Così era pressappoco stimato allora il prete che appendeva la tonaca al chiodo.

Io, ben s’intende, sono con le reazioni fatte in calle dalle donne e dagli uomini di Venezia, pur adoperando toni meno entusiasti, perché, dalla frequentazione, di sacerdoti che hanno lasciato conosco il dramma, perciò che hanno lasciato, perché in ogni modo a parer mio si tratta di una sconfitta, anche se oggi, influenzati da un laicismo strisciante, spesso la si definisce come una vittoria, una liberazione ed una scelta di onestà.

Non è però di questo che volevo parlare, ma approfitto della mia età, quasi di novantanni, che mi garantisce il disinteresse personale su queste vicende per dire la mia sul problema del celibato dei preti, che non è proprio un problema marginale nella vita della chiesa.

Il mio contributo discreto, rispettoso, ma convinto vuole essere un piccolo apporto per affrontare con più decisione un ansioso problema che pare appeso sulle nuvole e si teme che provochi un cataclisma qualora lo si calasse a terra.

Io sono del parere che prima o dopo la loro consacrazione i preti possono rimanere liberi nelle loro scelte di rimanere celebi o sposarsi.

Mi pare bello, affascinante ed opportuno che nella chiesa vi siano creature che facciano la scelta di dedicarsi “corpo ed anima” alla chiesa e ai fedeli da celibi.

Però penso pure che non vi sia motivo di alcun genere anche se chi sceglie di fare il prete lo faccia pure da coniugato.

Tutte le motivazioni contro questa tesi mi sembrano antistoriche e non religiose.

A questo aggiungo pure con estrema franchezza che ritengo che è giunto il tempo che pure le donne nubili o coniugate possono fare la scelta di servire Dio e il prossimo all’interno della comunità cristiana esercitando il ministero sacerdotale; gli argomenti contro sono per me futili, arretrati, e minimamente religiosi.

Queste scelte cambieranno la situazione precaria e preoccupante delle nostre parrocchie, creeranno discussioni e scontri, ma mi pare che questo non sia un problema. La legge della vita non è staticità ma evoluzione! Termino dicendo che se i discepoli di Gesù si ostinano a proporre il mistero cristiano con la modalità del passato finiscono per soffocarlo e tradirlo! Aggiungo in fondo che non credo che queste cose si debbono fare per trarre vantaggio e avere più fedeli nelle nostre chiese, anzi sono convinto che saranno indifferenti, vedi la situazione delle chiese protestanti, che queste riforme le hanno fatte da secoli però hanno un numero di fedeli come noi e forse meno di noi.

Queste scelte religiose vanno fatte solamente perché questa è la regola della vita che rimarrà tale perché Dio l’ha voluta cosi.

Queste sono le mie opinioni personali, però ritengo che sia l’intero corpo ecclesiale con i suoi responsabili a dover prendere le decisioni riflettendo sulla Parola del Signore e pregando lo Spirito Santo. Io mi voglio attenere alle scelte della Chiesa con fede, amore ed umiltà.

Gli incidenti di percorso ci sono sempre stati, credo che si debbono affrontare con rispetto, fraternità e preghiera non rompendo comunque mai la comunione anzi rendendola più forte e più vera.

Riflessioni estive

Il mestiere del diavolo rimane sempre lo stesso: tentare al male gli uomini, ed anche i preti fan parte di questa categoria.

Sento il bisogno di parlarvi di una tentazione che ho subito durante le ferie estive e che per fortuna l’apostolo Paolo mi ha aiutato a respingere.

I lettori de “L’incontro” di certo ricordano che qualche anno fa me la sono presa col Papa perché sono venuto a sapere da “Il Gazzettino” che le vacanze del Papa a Lorenzago di Cadore o in Val d’Aosta venivano a costare dieci, venti milioni, e con la sventatezza, che mi è congeniale a-vevo scritto che non era lecito neppure, o meglio soprattutto al Papa spendere tanto quando aveva la villa di Castelgandolfo con il suo magnifico parco per passare qualche giorno di riposo. A dirla poi tutta ho pure scritto che sarebbe stato ancor meglio se se ne fosse rimasto nei “sacri palazzi” del Vaticano facendosi mettere un condizionatore dove era solito lavorare. Non l’avessi mai fatto; la segreteria di Stato temette perfino che ci fosse a Mestre un nuovo Martin Lutero che contestava il riposo del Pontefice.

Alla stampa poi non parve vero montare uno scandalo tanto che andai a finire perfino in “Le Monde”.

Il patriarca Scola, non “mi chiamò a palazzo”, mi tenne però il muso almeno per un paio d’anni, ed in seguito affermò che le vacanze non sono un lusso, ma un dovere!

Non mi convinse tanto, anzi mi sembrò di essere quasi un mezzo eroe perché nella mia vita sono andato in vacanza soltanto in colonia ad Asiago con i balilla, e da prete in tenda con gli scout a mangiare quello che i ragazzini riuscivano a cucinare e tormentarmi l’anima vedendoli da mane a sera trafficare con coltelli ed accette per “fare le costruzioni”, e per procurarsi il legname da bruciare.

Il modo di passare le vacanze di Papa Francesco non solamente mi rasserenò, ma mi convinse, semmai c’è ne fosse stato bisogno, che ero dalla parte giusta.

Il diavolo si insinuò in questa crepa ricordandomi con astuzia che non solo non sono mai andato e non vado ancora in vacanza, ma che pure non ho mai diminuito il numero delle messe durante l’estate, che ho sempre continuato a stampare le stesse copie de “L’incontro”, che traffico personalmente per la sua distribuzione, che tengo la chiesa sempre aperta da mane a sera e poi sommessamente aggiunse che mi alzo alle cinque del mattino per dire il breviario, che non ho mai comperato una automobile nuova e che quella che adopero è usata e che per di più mi è stata donata, che rispondo sempre al telefono assicurando gli interlocutori che un prete non si disturba mai, che uso i miei soldi per i centri don Vecchi e qualche altra cosetta!

Queste osservazioni melliflue ed accattivanti mi facevano quasi sentire che, tutto sommato, posso considerarmi un buon prete, che la città e la chiesa può essere contenta di poter disporre di un sacerdote di questa taglia.

Non sono arrivato a sentirmi “Luigi Gonzaga” né un “Padre Pio” ma perlomeno un prete da tenere in considerazione per la sua coerenza, anche se i patriarchi e la curia pare non si siano accorti di tutto questo!

Tutti sappiamo però che fortunatamente ogni uomo e quindi ogni prete gode pure dell’aiuto del suo angelo custode; personaggio serio e soprattutto onesto e senza complessi nel dire le cose come stanno.

Stamattina il mio angelo custode forse s’è stancato del mio sognerellare poco serio, e durante la recita del breviario m’ha costretto a leggere queste confidenze di San Paolo, il quale non so bene se per la categoria del diritto canonico, si appartenga alla categoria dei vescovi o dei semplici preti. Comunque San Paolo è un discepolo di Gesù quanto mai qualificato!

Sentite cosa mi ha detto della sua vita da ministro di Gesù, quale sono pure io:

Dalla lettera ai Corinzi di San Paolo

Fratelli, ho forse commesso una colpa abbassando me stesso per esaltare voi, quando vi ho annunziato gratuitamente il vangelo dì Dio? Ho spogliato altre chiese accettando da loro il necessario per vivere, allo scopo di servire voi. E trovandomi presso di voi e pur essendo nel bisogno, non sono stato d’aggravio a nessuno, perché alle mie necessità hanno provveduto i fratelli giunti dalla Macedonia. In ogni circostanza ho fatto il possibile per non esservi di aggravio e così farò in avvenire. Com’è vero che c’è la verità di Cristo in me, nessuno mi toglierà questo vanto in terra di Acaia!

Questo perché? Forse perché non vi amo? Lo sa Dio! Lo faccio invece, e lo farò ancora, per troncare ogni pretesto a quelli che cercano un pretesto per apparire come noi in quello di cui si vantano.

Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere.

Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri come un pazzo, o se no ritenetemi   pure come un pazzo, perché possa anch’io vantarmi un poco. Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare, Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io. Infatti voi, che pur siete saggi, sopportate facilmente gli stolti. In realtà sopportate chi vi riduce in servitù, chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia. Lo dico con vergogna: come siamo stati deboli! Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?

Finita la lettura di S. Paolo, mi sono sentito come il più indegno discepolo di Cristo.

Quindi non mi resta altro che spen-dere gli ultimi giorni della mia vita per una conversione radicale a livello personale e per non azzardarmi per alcun motivo di giudicare i fratelli.

Non lasciatevi rubare la speranza

Una delle frasi ricorrenti nei discorsi di Papa Francesco, oltre a quelle che si riferiscono alle “periferie” delle nostre città, della nostra cultura, della nostra chiesa ed altre infinite esortazioni a credere nel Dio della misericordia, è quella ribadita spesso con convizione di “non lasciarci rubare la speranza”.

Papa Francesco, a differenza di tantissimi pontefici, pur santi, è un Papa del tutto declinato al positivo, e sta finendo per passarci alcuni principi “chiari e distinti”.

L’ammonimento del Pontefice a non farci rubare la speranza dai pessimisti, dai burocrati, dai politici corrotti, dagli ecclesiastici di mestiere e dai nichilisti del nostro tempo, è per me, e penso per l’umanità, uno dei regali più belli e più preziosi ch’egli ci possa fare.

Ho la sensazione che questo seme sparso con tanta convinzione e tanto coraggio, stia mettendo radici e qualche germoglio anche in me, piuttosto fragile e pessimista. Chiedo a voi miei amici di darmi un minuto per confidarvi come ho felicemente scoperto che la semente del Papa pare stia attecchendo anche nel mio animo.

Il discorso è povero e quasi banale, però per me è stata una felice scoperta.
Eccovi la piccola storia: in una delle mie rarissime visite a mio fratello Roberto ho notato che aveva in giardino un arbusto fiorito con delle campanule bianche, gialle e rosa che pendevano dal ramo con la testa all’in giù. Amante delle piante, ne chiesi un paio a mio fratello, appresi poi in seguito ch’erano piante lacustri e che non sopportavano ne il sole ne il gelo. Queste piante da un paio d’anni rallegrano il parco del don Vecchi. L’autunno scorso, essendosi riprodotte in esubero, pensai di non portarle dentro casa ma di lasciarle accostate ad una parete a sud, protette dal tetto e dai poggioli, sennonché mi accorsi che erano state bruciate dal ghiaccio.

La cosa mi dispiacque quanto mai, ero amareggiato di non poter più godere di quel bel fiore. Sennonché suor Teresa, nel cui cuore il germe della speranza del Papa ha attecchito più che nel mio, mi rassicurò che il gelo non aveva intaccato le radici. Cosicché tagliai il fusto esterno e misi al sole questi vasi con i soli monconi di ramo, apparentemente secchi.

A metà maggio, con i primi tepori primaverili spuntarono dei germogli, che ora sono quanto mai rigogliosi. Ogni volta che guardo questi vasi mi pare che mi ripetano: il secco, il guasto è quello che appare, ma nel cuore della nostra gente le radici cristiane prima o poi metteranno germogli!

La Comunione al separati

Io non sono né un teologo né un esperto di morale cristiana, però non sono mai riuscito a comprendere perché il peccato del divorzio, ammesso che esso sia sempre peccato, sia l’unica infrazione alla legge del Signore che non poteva essere perdonata, con la conseguenza che molti cristiani per tanti decenni si sono sentiti degli esclusi, tenuti fuori dalla porta della chiesa e dalla misericordia del Signore!

Un tempo, quando i cristiani si confessavano con una certa frequenza, mi sono spesso imbattuto in queste situazioni di disagio spirituale, ritenute insanabili dalla chiesa ufficiale. E’ vero che da qualche decennio gli uomini di chiesa hanno cominciato a dire che le persone che si trovano in queste condizioni potevano e dovevano pregare e non allontanarsi ulteriormente dalla chiesa e dal Signore, comunque questi discorsi da parte degli esperti, rappresentavano poco più di “pannicelli caldi” per la loro guarigione.

Da confessore non ho mai in verità presentato ai penitenti in difficoltà per questioni di coscienza, come risposta ai loro drammi interiori, le pagine del libro di morale, ma ricordandomi molto bene che l’ultimo giudice titolato e competente ad emettere sentenze in rapporto alla propria condotta, rimane sempre e per tutti la propria coscienza, ho sempre consigliato che se questi penitenti erano convinti che il buon Dio li comprendeva e li perdonava s’accostassero serenamente al Sacramento.

Confesso però che un piccolo margine di scrupolo o di dubbio me lo sono sempre portato addosso. L’ultimo intervento, in proposito alla comunione dei divorziati, seppur cauto e condizionato, di Papa Francesco, mi ha liberato anche da questa piccola spina che talvolta pungeva la mia coscienza.

Sono ben cosciente di quanta difficoltà e di quanta opposizione il nostro Papa abbia incontrato nel suo cammino di misericordia e di liberazione, comunque pare che l’abbia spuntata senza rotture e lacerazioni e per questo gli sono infinitamente grato e gli voglio ancora più bene. Il Papa piano piano sta liberando il cristiano dai lacci e laccioli e sta sempre più aiutando l’uomo d’oggi ad amare e ringraziare il Signore per la sua immensa bontà.

Una strana scoperta

Forse stavo frequentando il liceo quando qualcuno, che non ricordo più chi sia stato, mi ha passato il quindicinale “Adesso”.

Ho cominciato fin d’allora a leggere con tanta passione questo periodico, diretto da Primo Mazzolari; per quei tempi era un periodico assolutamente d’avanguardia nel campo cristiano.

Ho poi continuato a leggerlo in maniera un po’ clandestina perché anche la gerarchia locale del tempo era molto sospettosa nei suoi riguardi. Ho avuto poi modo quindi di seguire le vicissitudini di don Mazzolari, che da prete aperto ai tempi nuovi subì una vera “persecuzione” da parte del cosiddetto Sant’ufficio della curia vaticana, tanto da costringerlo prima a chiudere il giornale per poi riaprirlo facendone direttore responsabile un suo amico, e continuando a scrivere nascondendosi dietro un pseudonimo. Comunque la mano della curia vaticana è stata particolarmente pesante, arrivando a proibirgli non solamente di scrivere, ma perfino di predicare, confinandolo a Bozzolo una piccola parrocchia di campagna.

La venuta del Concilio però ridimensionò il concetto di chiesa, ma soprattutto l’avvento di Papa Giovanni al soglio pontificio riabilitò questo prete, che soffrì in silenzio gravissime umiliazioni da parte di un’organizzazione ecclesiastica, ottusa, chiusa al domani e burocratica quanto mai.

In questi giorni m’è capitato di leggere “Impegno” il periodico edito dalla Fondazione don Mazzolari, ove ancora una volta sono venuto ancor più a conoscenza della “persecuzione” subita da questo prete intelligente ed obbediente fino all’impossibile. Riflettendo su questa vicenda ecclesiastica è venuto da pensare di quanto io sia stato fortunato di vivere nella stagione di Papa Francesco. Se fosse continuato lo spirito inquisitore di un tempo, credo che date le mie intemperanze almeno una scomunica l’avrei presa!

Ai nostri tempi si è amareggiati per il calo dei fedeli o per qualche altro scandalo che continua a sporcare il volto della chiesa, ma quanto più bella, più viva, più evangelica è la chiesa dei nostri tempi!

Ora capisco l’ottimismo di Papa Giovanni, che da studioso di storia della chiesa qual’era, ci diceva quando era nostro Patriarca, che mai come ora la comunità cristiana vive momenti inebrianti.

La lettura poi delle vicende di don Mazzolari con i dicasteri della Santa sede mi ha ricordato pure che in tempi lontani un parroco a cui ero sembrato troppo avanzato di idee, per alcune domeniche mi proibì di predicare; mi faceva dir messa, ma predicava lui! Comunque la cosa si concluse presto e per mia fortuna senza sanzioni canoniche!

La “religione” di Papa Francesco

La catechesi di Papa Francesco si esprimono soprattutto con i gesti e le scelte pastorali.

Mi pare che al primo posto ci siano le sue prese di posizione a favore degli “ultimi”, delle “periferie” e le sue iniziative, pur minimali, ma di grande significato, che sono sempre a favore di quelle creature che egli afferma che la società attuale definisce “gli scartati”, ma che lui coerente con la logica del vangelo ritiene invece “pietre d’angolo!”

Ho letto con estremo interesse la notizia apparsa su l’ultimo numero de “Il Cenacolo”, la bellissima rivista dei padri sacramentini, l’ultimo gesto di carità cristiana di Papa Francesco. Il nuovo “parroco” in tonaca bianca della comunità cristiana de “Il Vaticano” giorno per giorno sta portando avanti con estrema coerenza e con gesti sempre più in linea col Vangelo e una sua linea pastorale che privilegia la solidarietà, annunciata mediante il suo insegnamento papale, immediatamente tradotta con queste scelte pastorali.

E’ da una vita che vado ripetendo che per la quasi totalità delle parrocchie mestrine “la Carità” rappresenta la cenerentola delle attività pastorali, e che è tempo che sia le singole comunità per conto loro, che assieme alle altre, comincino a dar vita a sempre nuove iniziative a favore dei concittadini in disagio.

Solamente allora il volto di Gesù sarà visibile nella Chiesa di Mestre.

Bisogna che ci convinciamo sempre più che se la fede in Dio che non si traduce in gesti concreti di carità cristiana, si riduce ad una pia illusione che può essere ritenuta tutto, ma non proposta evangelica.

 

Ambulatorio in Vaticano per i poveri

Ambulatorio medico-sanitario, recita la targhetta su un portone ligneo sotto il colonnato di piazza San Pietro. È il dono fatto qualche mese fa da papa Francesco ai senzatetto romani, avviando un nuovo servizio accanto a quelli già attivi, e sempre molto frequentati, delle docce e della barberia. Il servizio è stato affidato all’associazione Medicina solidale onlus. “Siamo grati a papa Francesco per aver voluto, ancora una volta, dare un segno concreto di misericordia in piazza San Pietro alle persone senza fissa dimora o in difficoltà”- ha dichiarato in una nota Lucia Ercoli, direttrice dell’associazione. “I nostri medici insieme a quelli del Policlinico di Tor Vergata hanno accettato con grande passione questa nuova sfida che unisce idealmente il lavoro fatto in questi anni nelle periferie con il cuore della cristianità.”

L’ambulatorio, come già accade a Tor Bella Monaca, Tor Marancia, Montagnola e Regina Coeli, garantirà visite, analisi e terapie per i più bisognosi. Il lunedì i circa 150 beneficiari dei locali docce e barberia, inaugurati lo scorso anno, vanno a cambiarsi i vestiti, lasciando gli indumenti sporchi e indossando quelli puliti messi a disposizione dal reparto biancheria. Servizi potenziati con la casa-alloggio per ricoveri notturni nella sede aperta pochi mesi fa a via dei Penitenzieri.

Fuoco sotto la cenere

Ormai m’ero rassegnato. Da almeno vent’anni avevo sognato che a Mestre parroci e parrocchie sentissero il bisogno di avere un centro che da un lato razionalizzasse e controllasse tutte le associazioni e le “agenzie” cattoliche che sono impegnate sul fronte dei poveri, e dall’altro lato fosse pure operativo concentrando in uno stesso luogo le attività più consistenti in maniera che ai concittadini in difficoltà fosse facile trovare una grande istituzione dove sia possibile avere risposte adeguate alle necessità più diverse. Non è che in questi anni sia stato con le mani in mano, tanto che nel seminterrato del don Vecchi c’è già un abbozzo di questo centro, che io ho denominato con una certa enfasi “il polo solidale del don Vecchi”.

Però è una struttura ancora troppo piccola ed inadeguata. Nel recente passato vi fu un momento in cui mi illusi che il progetto prendesse corpo, tanto che avevamo individuato un terreno e si aveva incominciato a disegnare quella che sognavo fosse intitolata la “cattedrale della solidarietà”.

Il Patriarca Scola s’era lasciato coinvolgere, dando appoggio e facendo promesse, però m’accorsi quasi subito che l’ambiente cattolico non era maturo, a cominciare dalla Caritas che affermò di non crederci, e don Franco che mi disse: “Bello, don Armando, però per i soldi dovrai arrangiarti!”

L’uscita poi di scena del vecchio Patriarca e l’insorgere dei guai finanziari della diocesi, che già era poco convinta e propensa di imbarcarsi in un progetto così nuovo e impegnativo, mise una grossa pietra tombale sopra al mio sogno.

La Fondazione poi si impegnava in quello che doveva diventare un progetto pilota per prolungare ulteriormente l’autosufficienza; sennonché la scelta dell’assessore della Regione Senargiotto di candidarsi per il parlamento europeo, pur avendo promesso appoggio finanziario, impegnò a fondo la Fondazione per tentare di portare avanti senza alcun aiuto pubblico suddetto progetto.

Dati i miei quasi novant’anni m’ero rassegnato a lasciare in eredità ai posteri il sogno di razionalizzare e concentrare in una struttura polivalente uno dei più rilevanti problemi di qualsiasi comunità cristiana e in particolare della Chiesa di Mestre, che è costituito di dare autentica consistenza al progetto della carità. Sennonché qualche giorno fa è morta una persona che aveva fiducia in me tanto che aveva deciso di lasciarmi ogni suo avere, ma che per mio suggerimento aveva scelto la Fondazione dei centri don Vecchi.

Data la consistenza del patrimonio ereditato, la brace, che era ancora viva pur sotto la cenere del mio sogno, cominciò a brillare, tanto che da ora in poi ho deciso di non perdere occasione per suggerire e premere sul Consiglio di amministrazione ed impegnarmi su questo progetto.

Ora mi trovo molto di frequente a pensare: “Vuoi vedere che se le cose andranno per il giusto verso e se il Signore avrà ancora un po’ di pazienza a mandarmi “la cartolina di precetto” avrò anche la grazia di vedere questa lungamente sognata cittadella della solidarietà?

Se poi non sarà una cittadella mi accontenterei anche che fosse un piccolo borgo o un villaggio solidale!

Lavoro e “lavoro”

In quest’ultimo tempo ho fatto due esperienze assolutamente contrapposte su quell’attività umana che il vocabolario definisce: lavoro.

Veniamo alle due prime esperienze di lavoro nel quale mi sono imbattuto. La prima: essendo guastato l’impianto di amplificazione sonora della mia “Cattedrale fra i cipressi” sono ricorso ad una ditta del settore.

Penso sia una pìccola azienda formata dal “padrone”, tutto impegnato a reperire lavoro e dal “dipendente” che segue le installazioni e le riparazioni richieste.
Non so se ammirare più il primo che il secondo o viceversa!
Puntualità, disponibilità, competenza, impegno e cortesia!

M’è parso tutto questo un mix veramente meraviglioso, e sorprendente perché non è facile trovarne un altro pari.

Secondo esempio di lavoro, ossia di un impegno serio, competente e generoso: al don Vecchi abbiamo un centro cottura del catering “Serenissima ristorazione” nel quale lavora una cuoca di mezza età, che veramente sarebbe giusto offrirle una croce al merito o il titolo di “maestra del lavoro”. Arriva presto ed ogni giorno cucina dai 150 ai 200 pasti, con una bravura, un senso del dovere, ed una amabilità e generosità pressoché illimitata. Io non l’ho mai sentita lagnarsi, sentirsi vittima e sfruttata dai “padroni”, anzi pare che ci trovi gusto d’accontentare i suoi numerosi clienti diversificando perfino il menù. Credo che la stima l’affetto e la riconoscenza di noi utenti la gratifichi e l’aiuti a lavorare come se andasse a divertirsi.

In contrapposizione a questi esempi purtroppo vengo a conoscenza di “lavoro” apprezzato e sorretto da parte dei sindacati, che avallano i fannulloni, quelli che timbrano il cartellino e poi vanno dal parrucchiere, quelli che pare facciano di tutto perché la loro azienda fallisca, quelli che non accettano uno straordinario per morte a morire, quelli che si nascondono dietro il mansionario e i diritti del lavoratore, quelli che pare siano impegnati a produrre miseria e disoccupazione, quelli che perfino protestano perché altri, “vedi Reggia di Caserta” lavorano troppo!

Da qualche tempo penso che il dizionario dovrebbe descrivere il lavoro serio come attività umana tesa a soddisfare i bisogni e creare benessere, e “il lavoro” concepito dai sindacati e da certi dipendenti dagli enti statali e parastatali che in questo caso potrebbe essere definito: un modo comodo per sbarcare il lunario senza far niente!

L’eremita trevigiano

Per una giornata ha tenuto banco sulla prima pagina de “Il Gazzettino” la notizia che un nostro conterraneo da trent’anni vive solo, senza contatti con la gente, nutrendosi con quello che gli offre il campo, e rinunciando a tutto quello che la tecnica ci mette a disposizione e che tutti ritengono  assolutamente necessario; energia elettrica, acquedotto, telefono, radio, televisione e quant’altro.

Immagino che la stragrande maggioranza dei lettori del nostro quotidiano locale avrà giudicato questo nostro concittadino come uno svitato, maniaco, affetto da qualche psicosi occulta.

Il fatto poi che venga a mancare anche la componente religiosa che ha motivato la quasi totalità degli eremiti ha reso ancor più incomprensibile questa scelta esistenziale così anomala e che a parere di tutti sembra pressoché impossibile ed assurda!

Confesso che questa notizia mi ha fatto riflettere, non arrivando a comprendere ed avvallare questa scelta, ma mi è parsa utilmente provocatoria per la grande parte di noi che viviamo in maniera artificiosa, carica di bisogni imposti dalla pubblicità, sommersa dal rumore e dai messaggi più contrastanti e più fasulli, caricandoci di una infinità di esigenze costose e spesso perfino rovinose sul nostro equilibrio fisico ed esistenziale.

Per associazione di idee questa notizia mi ha riportato ad una frase del lavabo posto all’ingresso del grande refettorio costruito dai padri Somaschi e che il seminario di Venezia ha ereditato. Su quel lavabo c’era scritto in latino: “beata solitudine o sola beatitudine!”

Noi, uomini del nostro tempo, di certo pecchiamo per mancanza di silenzio e di momenti di riflessione personale, cosa che spesso ci rende superficiali, poco pensosi e meno saggi!

Prima di addormentarmi ho detto una preghiera per “l’eremita laico” di Preganziol, lui forse esagera da un lato, ma noi di certo esageriamo per il lato opposto!

Ho capito da questa riflessione che ho poco silenzio nella mia giornata!

Diciamo una preghiera!

Abbastanza di recente ho scritto che mi faceva bene, a livello spirituale, la lettura di un periodico di testimonianze di cristiani della chiesa metodista d’America.

Il periodico è uno degli strumenti pastorali di quella comunità cristiana offerto ai fratelli di fede. Nella sostanza si tratta di considerazioni, o meglio ancora di confidenze, da parte di fedeli comuni che tentano di leggere gli eventi quotidiani alla luce delle verità contenute nella Bibbia, per trovare in questa lettura: pace interiore e serenità.

Non è che io rimanga colpito dalle argomentazioni teologiche, perché i loro discorsi sono quasi sempre molto elementari, ma dallo spirito di fede con cui essi trovano nella Bibbia la possibilità di una interpretazione cristiana degli eventi ed uno stimolo per viverli in maniera coerente.

Credo che questo mio entusiasmo per la semplicità, il candore e la fiducia con le quali questi cristiani confidano ai fratelli di fede le loro esperienze spirituali, derivi dal constatare che noi invece abbiamo troppo pudore ed estrema riservatezza nel confidare agli altri i nostri tentativi di carattere ascetico.

Perfino per noi preti riesce difficile trattare di queste cose quando non parliamo dal pulpito.

Sennonché qualche giorno fa è venuto al don Vecchi a far visita ad una sua vecchia parrocchiana un mio cappellano di molti anni fa; in quell’occasione egli ha approfittato per venire a trovare anche me. Dopo i soliti convenevoli e lo scambio reciproco di qualche notizia, questo prete, che penso abbia almeno una trentina di anni meno di me, prima di congedarsi mi disse: “Diciamo una preghiera assieme per i sacerdoti e per noi!”
Naturalmente accettai e finita l’Avemaria diede la sua benedizione a me e alla sua vecchia parrocchiana che l’aveva accompagnato nel mio alloggio.

Nell’andarsene, poi, chiese dove era la cappella perché sarebbero andati colà a recitare il rosario. Don Umberto, così si chiama il mio visitatore, l’ho conosciuto fin dai vecchi tempi come uomo semplice e di fede.

Comunque la preghiera detta assieme e la sua benedizione mi hanno fatto molto bene perché testimonianza di una spiritualità che nonostante i miei più di sessantanni di sacerdozio non ho ancora raggiunta.

Mea culpa, nostra maxima culpa

Le denunce che le cose non vanno bene, né nel mondo né nel nostro Paese, sono infinite e continue tanto da far apparire la situazione peggiore di quanto non sia nella realtà. L’immagine di Carnelutti, il celebre “principe del Foro Veneziano”, quando affermava che anche pochi papaveri danno l’impressione che il campo di grano sia completamente rosso mentre in realtà non è così, mi colpisce ancora perché anche ai giorni nostri sono infinitamente di più le cose che funzionano rispetto a quelle guaste anche se queste ultime ci colpiscono maggiormente.

Resta comunque la cattiva abitudine di reagire di fronte alle difficoltà attribuendo le colpe e scaricando le responsabilità di tutto quello che non funziona, di tutto quello che non riteniamo giusto sui nostri politici che di colpe e di difetti ne hanno tanti ma la responsabilità non è solo loro anche se è certamente più comodo crederlo perché giustifica la nostra inerzia.

A me è di costante monito la solare affermazione che a questo riguardo fa Don Mazzolari nel suo famoso volume Impegno con Cristo: “Come la notte comincia con la prima stella che si accende in cielo e la primavera con lo sbocciare del primo fiore, così il mondo si fa nuovo quando ognuno si fa nuova creatura”.

Detto questo vorrei insistere su un altro aspetto che per me è determinante. A livello civile troppi pensano di esaurire con il voto, anche se espresso dopo una seria riflessione, il loro impegno e il loro dovere nei confronti della società. A livello religioso invece spesso un cristiano ritiene che per seguire l’esempio di Cristo sia sufficiente frequentare la Messa e osservare le principali regole morali senza pensare di avere anche dei doveri verso la comunità ecclesiale.

Se è vero che sia in campo civile che religioso l’esempio e la testimonianza personale sono importanti, è altrettanto vero che non sono sufficienti e sia il cittadino verso il proprio Paese che il cristiano verso la Chiesa hanno il sacrosanto dovere di partecipare, di intervenire costantemente e con decisione esprimendo critica, protesta o consenso su tutti gli aspetti della vita sia civile che ecclesiale.

Quindi, dopo aver tentato di essere noi per primi cittadini e cristiani coerenti, ci rimane l’obbligo di incalzare i responsabili della politica e della religione correggendo, insistendo, segnalando e offrendo il nostro contributo di pensiero. Tutto questo naturalmente non può ridursi ai soliti quattro gatti che protestano sempre per partito preso: vedi i centri sociali o gli altri soliti pochi che scrivono sulle rubriche “Lettere al Direttore”.

Sono convinto che se ai nostri sindaci, ai nostri parlamentari e ai nostri vescovi giungessero migliaia o decine di migliaia di lettere di protesta o di incoraggiamento per le loro decisioni le cose andrebbero ben diversamente da come vanno lasciando i “governanti” soli nelle loro scelte, in caso contrario dovremmo batterci il petto e confessare: “mia colpa, mia colpa, mia massima colpa”.

La povertà dignitosa

Io, sia alla San Vincenzo che in parrocchia e soprattutto alla mensa di Ca’ Letizia, ho toccato con mano che cosa sia la povertà con poca o con nessuna dignità: poveri grami, drogati, senza tetto, gente con poco comprendonio,viziosi, fannulloni, rissosi e via di seguito; sembra infatti che fra Mestre e Venezia vi siano almeno alcune centinaia di soggetti del genere. Sono comunque sempre stato convinto che si debbano aiutare anche questi fratelli meno fortunati o meno dotati d’intelligenza e di volontà.

Le prove di questa convinzione sono la mia pluridecennale militanza nella San Vincenzo e il mio impegno nella creazione e nella gestione della prima mensa per poveri a Mestre, con l’apertura del Ristoro di Ca’ Letizia, più di cinquant’anni anni fa assieme al mio vecchio parroco Monsignor Vecchi.

In verità soprattutto nei trentacinque anni in cui sono stato parroco ho incontrato anche qualche “caso” in cui la malattia o la morte del capo famiglia aveva ridotto all’indigenza alcune famiglie e per quanto ho potuto, soprattutto con la San Vincenzo, abbiamo cercato e talvolta siamo riusciti a offrire soluzioni efficaci. Questi casi però sono stati relativamente pochi. Nella mia comunità di quasi seimila anime si potevano contare sulle dita di due mani ma, se si cambia dimensione e ci si riferisce ad una città di 200.000 abitanti, questi “casi” diventano più consistenti.

Con l’apertura del “Ristorante Serenissima” intendevo intercettare questa “povertà dignitosa” e non quella di mestiere o di abitudine ma finora non ci sono ancora riuscito. Sono forse cinque o sei le famiglie in queste condizioni che vengono a cenare nel nostro “ristorante” (dico “ristorante” non per vezzo ma perché è tale!) e forse sono una decina i frequentatori singoli mentre gli altri trenta, quaranta sono “parenti prossimi” di quelli che frequentano le quattro mense per poveri esistenti a Mestre.

Non ho ancora perso la speranza di riuscire ad aiutare “i poveri dignitosi” ma sono vicino a perderla ma per ora mi conforta l’escamotage di offrire la possibilità dell’asporto della cena per consumarla a casa propria in famiglia e ogni sera le cene asportate sono più di una ventina. Confesso che mi sarei aspettato un risultato migliore dai parroci e dall’apparato quanto mai consistente degli operatori dell’Assessorato alla Sicurezza Sociale, comunque sono ancora lontano dallo sventolare la bandiera bianca. La vita è un combattimento!

Voglia di “sinistra”

A scanso di equivoci io sono, per nascita e per convinzione, per un’azione politica che riservi un’attenzione particolare alle classi meno abbienti perché chi governa deve tentare di offrire il necessario per vivere una vita dignitosa a tutti i cittadini.

La proposta insistente dei “Cinque Stelle” di offrire un salario minimo garantito per tutti però non mi convince. Questa soluzione ha già prodotto miseria nei paesi che hanno fatto l’esperienza del comunismo reale e credo che da noi essa riuscirebbe a produrre un numero di fannulloni superiore a quello già presente in abbondanza soprattutto negli enti statali e parastatali.

Ritengo che sia però una verità inconfutabile che, se si aspira a garantire benessere per tutti, prima è necessario produrre ricchezza e per produrla è indispensabile che ciascuno faccia la propria parte impegnandosi nel proprio lavoro sia esso manuale o intellettuale.

Mi sorprendono i discorsi che attualmente ricorrono frequentemente nel cosiddetto centrosinistra, una parte politica in cui abbonda l’irrequietezza e talvolta qualche nostalgia del massimalismo proprio dell’esperienza comunista ormai però storicamente conclusa. Quando sento frasi come “Voglia di sinistra”, pronunciate da frange della minoranza del partito democratico, o accuse, rivolte a chi oggi sta cercando di portare il Paese fuori dal guado, di fare una politica di destra adottando soluzioni caldeggiate un tempo dal centrodestra penso che sia ora di finirla con parole abusate come “destra” e “sinistra” perché sono arciconvinto che siano usate soprattutto da chi ambisce il potere ad ogni costo, imbrogliando gli allocchi. È ormai tempo che poniamo al governo chi ci sa fare, chi ottiene risultati e non chi chiacchiera e ha la testa tra le nuvole.

Mi pare poi sia giunto il momento che insieme si cerchino le soluzioni migliori e più efficaci relegando in soffitta schematismi vuoti ed inconcludenti che sono solo le foglie di fico degli ambiziosi e di chi non ha voglia di lavorare.

Analfabeti dello spirito

Io sono nato in un paese di campagna quasi un secolo fa e ai tempi della mia infanzia gran parte degli anziani di allora aveva fatto per lo più la terza elementare, non erano molti quelli che avevano la licenza elementare; al mio paese poi, su una popolazione di quasi 10.000 abitanti, i laureati si potevano contare sulle dita di una mano, certamente lo erano il medico, il farmacista e il parroco e forse altre due o tre persone che però io non ho conosciuto. Mio padre si gloriava di aver fatto quasi tutta la sesta elementare.

Il fenomeno dell’analfabetismo un tempo era molto diffuso nei paesi di campagna ma fortunatamente un po’ il duce, un po’ la radio e successivamente la televisione, hanno incentivato e spinto molti a sentire la necessità di un po’ di cultura seppure elementare. Tutti ricordiamo il professor Manzi, il conduttore della trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, le scuole per adulti e i corsi serali per le superiori.

Credo che tutto sommato, soprattutto grazie alle leggi che nel dopo guerra hanno imposto l’istruzione fino al diploma di scuola media inferiore, la gente oggi si arrangi alla meno peggio anche se non possiamo affermare di essere un popolo che legge molto; per quanto riguarda la cultura religiosa invece mi pare di registrare un fenomeno quasi opposto. Fino a trenta, quarant’anni fa la quasi totalità dei ragazzi imparava a memoria il catechismo di San Pio X che propinava tutta la teologia, la morale e la Bibbia in una serie di domande imparate a memoria. Al giorno d’oggi invece i ragazzi che frequentano il catechismo sono sempre meno e solo pochi di loro riescono ad avere qualche “idea chiara e distinta” perché se era scadente la pedagogia religiosa di un tempo, quella dei nostri giorni fatta di cartelloni, di recite e di commenti su questioni di attualità è ancora più inconcludente. Nel dopo Concilio, in verità, la Chiesa olandese e successivamente quella italiana hanno realizzato un catechismo per adulti ma si è trattato di un’esperienza di breve durata.

Se posso esprimere un auspicio ritengo di dover suggerire una iniziazione cristiana soprattutto del mondo dei ragazzi passando a tutti i bambini concetti chiari e verità fondamentali. Concetti e verità i cui contenuti possano, con il passare degli anni, essere recuperati nel serio tentativo di far superare agli adulti l’analfabetismo religioso, che oggi purtroppo pare in crescita, attraverso una catechesi sostanziale trasmessa con i periodici parrocchiali che però devono essere in grado di raggiungere la totalità non solo dei battezzati ma di tutti i cittadini.