L’uomo nuovo

Mi ha sempre entusiasmato il discorso di San Paolo sull’uomo nuovo, l’uomo del Vangelo che sa abbandonare la vecchia pelle della cattiveria, del compromesso, dell’acquiescenza alle passioni per diventare una creatura nuova, libera, aperta, felice, sana, pulita e solidale. Però proprio in queste ultime settimane mi è parso d’aver capito che questo processo di liberazione sia, nonostante i venti secoli di storia cristiana, ancora all’inizio e che la Chiesa fino all’altro ieri l’abbia non solo non incentivato ma anzi osteggiato.

In questi giorni, seguendo i programmi che la televisione manda in onda in occasione del centenario della Grande Guerra, ho fatto l’amara scoperta che l’uomo ha ormai accettato passivamente il guinzaglio come il cane, il morso come il cavallo e il giogo come il “pio bove”.

Alcuni anni fa ero rimasto perplesso e stupito dalle parole di Don Milani quando parlava della “santa disobbedienza”, lui, la “santa disobbedienza” l’aveva conquistata pagandola a caro prezzo confinato a Barbiana, un piccolo borgo di quaranta abitanti. Sono arrivato alla conclusione che, finché non avremo acquisito l’assoluta convinzione del primato della nostra coscienza su qualsiasi altra imposizione esterna, saremo costantemente oppressi e schiavizzati da un piccolo mondo di furbi, di esaltati, di prepotenti e di irresponsabili. I programmi messi in onda dalla televisione, appunto per il centenario del primo conflitto mondiale, hanno rafforzato la mia convinzione che gli eroi non sono quelli che sono andati a morire per niente o ad uccidere altri uomini senza alcun motivo ma quei pochi che hanno saputo resistere e che si sono fatti giudicare ed uccidere piuttosto che compiere l’atto più barbaro: quello di sparare ad altre persone assolutamente incolpevoli. Se i nostri fanti avessero rivolto i loro fucili contro i generali, lo Stato Maggiore e il Governo, non solo non avrebbero evitato quell’inutile massacro, ma avrebbero anche liberato l’umanità da personaggi tanto loschi, imbecilli, boriosi e criminali! Ho la profonda convinzione che l’uomo d’oggi debba fare una profonda ed accurata analisi per liberarsi da miti, da pseudo valori, da tradizioni ingiuste, da forme pseudo ascetiche, dal fascino delle divise e dei gradi. È ora che scopriamo finalmente che ogni altro essere umano che Dio ha messo in questo mondo, vale nella misura in cui mi rispetta, mi aiuta e mi permette d’essere uomo!

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Penso che quasi tutti abbiano letto il famoso romanzo di Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

Il titolo nasce da uno di quei soliti bollettini di guerra che, in mancanza di fatti eclatanti, tentano quasi di insinuare che, tutto sommato, si sia in tempo di pace, mentre il romanzo citato narra la storia terribile di ciò che avviene durante i normali bombardamenti.

Un soldato, per ripararsi, si era riparato in una buca provocata da una precedente granata, senonché anche un soldato “nemico” aveva fatto la stessa scelta e in un terribile attimo il protagonista pensa: “Se non lo colpisco a morte sarà lui a farlo!”. Afferrata la baionetta si avventa su di lui ferendolo a morte e per un’intera notte è costretto ad ascoltare il rantolo del “nemico” moribondo.

Gli toglie il portafogli e vede la foto della moglie e dei tre bambini di questo “nemico” che faceva il fornaio. Tutta la notte si tormenta domandandosi: “Perché l’ho fatto? Perché pure lui l’avrebbe fatto.”.

Remarque usa il racconto come una condanna senza appello della guerra! Qualche mese fa hanno cambiato il responsabile della Caritas diocesana ed anche in questo caso potrei usare lo stesso titolo “Nulla di nuovo sul fronte occidentale!” consapevole che in queste parole si consuma il dramma del limite, della disorganizzazione della Caritas diocesana e della mancanza di un progetto.

Sembra che il mondo continui a girare imperterrito; a tutti giova illudersi che ogni cosa vada per il meglio, mentre i poveri soffrono in solitudine il loro dramma!

Suor Cristina

Nella mia prolungata pausa natalizia, a motivo dell’influenza, guardando la televisione ho avuto modo di imbattermi in due esecuzioni canore di Suor Cristina, la suoretta che si è ormai fatta un nome, a livello internazionale, nel campo della musica moderna.

Alle esecuzioni sono seguite delle interviste nelle quali questa suoretta, dal volto bello e pulito, se l’è cavata con onore, senza strafare e senza coinvolgere più di tanto la fede e nostro Signore.

Ho avuto l’impressione che ella sia ancora all’inizio di una carriera quanto mai difficile e pericolosa e che, per ora, sia ancora protetta dall’entusiasmo, dalla buona fede e dalla semplicità di un cuore desideroso di fare opera di apostolato mediante la sua bella voce e la sua gioia di cantare.

Ho sempre affermato che questi modi particolari di lodare il Signore e di testimoniarlo in ambienti totalmente laici, mi fanno piacere e aprono il mio cuore alla speranza di un dialogo vero e rispettoso con il mondo estraneo alla Chiesa. Confesso però che quel salterellare sul palcoscenico e soprattutto quei suoni strani, irrequieti, spesso urlati oltre ogni misura mi hanno indotto a pormi almeno una domanda per la quale finora non ho trovato alcuna risposta: “Ma che cosa canta quella ragazza? Che cosa dice a Dio e agli uomini?”. Io non conosco gli attuali linguaggi musicali, ho però l’impressione che siano sguaiati, senza senso, confusi ed irrequieti proprio come il modo di vestire, di parlare e di comportarsi dei nostri giovani. Non ho la minima speranza che i giovani, che partecipano ai concerti fiume dei più famosi cantanti attuali ne traggano motivi di speranza, orizzonti più aperti e positivi e soprattutto più ordine nel vivere e nell’amare! Non vorrei proprio che Suor Cristina si sgolasse tanto e mettesse in pericolo la sua freschezza umana per risultati così deludenti!

Abbinata Camusso-Orlandini

La Camusso ha un’impostazione facciale, uno sguardo torvo e un parlare così cupo che se facesse l’attrice di cinema o di teatro non potrebbe accettare altro che parti in fosche tragedie.

Un tempo esistevano le tipologie della vecchia zitella, eternamente scontenta e critica, della suocera cattiva e della docente di matematica con una forma di sadismo per i numeri e per le formule algebriche.

Forse la segretaria della CGIL è rimasta una degli ultimi se non l’ultimo epigono di questa categoria.

Per Orlandini le cose stanno diversamente, lui sembra uno di quegli uomini maturi che, nonostante gli anni siano ormai passati, non rinunciano a partecipare ad una partita di calcio nel campetto della parrocchia, questo purché, però, non apra bocca perché altrimenti si trasforma in un vulcano che non cessa di eruttare bordate di lava liquida e ribollente e di lapilli incandescenti! Orlandini sa tutto, lui ha una ricetta per tutto, potrebbe fare da precettore perfino a Domineddio.

Qualche giorno fa mi sono scoperto a pensare che se avessi molto denaro gli metterei a disposizione un centinaio di milioni dicendogli: “Orlandini, facci vedere ciò che sei capace di fare!”. Io so che c’è più di uno che mi ritiene un ingenuo, uno sprovveduto che non ci sa fare con i conti e forse ha ragione, ho imparato però a ripetermi, per non abbattermi, che: “Io, da sprovveduto qualsiasi, sono riuscito a fare in vent’anni quanto è alla vista di tutti” e mi piacerebbe vedere quello che sono capaci di fare gli altri con tutta la loro sicumera!

Credo che Marchionne “sopravviva” facendosi discorsi come i miei!

La scoperta natalizia

Ho confidato, fin troppe volte ai miei amici e fedeli, i tormentoni che mi affliggono ogni volta che debbo rivolgermi al “popolo di Dio” per attualizzare il messaggio di Gesù, tormentoni che crescono di intensità in rapporto all’importanza del “mistero cristiano” che debbo celebrare.

Natale è certamente uno dei pilastri portanti del messaggio di Cristo e l’Incarnazione è uno dei pilastri su cui poggia il progetto della Redenzione.

Nella settimana precedente il Natale di quest’anno mi sono arrabattato fino all’inverosimile per trovare un filone di pensiero che valesse la pena di essere offerto alla mia gente, ho però finito con l’imbarcarmi in un discorso penoso, complesso ed arzigogolato.

La notte della Vigilia mi sono addormentato con fatica per la predica che dovevo fare il giorno seguente, una predica che recuperasse l’incanto e la poesia del presepio della mia infanzia e, contemporaneamente, lo traducesse in un messaggio esistenziale valido e pregnante.

Non so se nel sonno o nel dormiveglia mi è apparso un filone che mi è piaciuto e che mi è stato suggerito dal poverello di Assisi, mi sono ispirato al Presepio e ho fatto delle bellissime scoperte che hanno illuminato il mio spirito e scaldato il mio cuore.

Ho scoperto il silenzio, condizione necessaria per sentire la flebile voce del Bambinello, ho avvertito la sobrietà, condizione assoluta per non lasciarsi travolgere dalla crisi economica che ci attanaglia, ho visto la fiducia assoluta in Dio di Maria e Giuseppe, ho ammirato i poveri pastori che riuscirono a provvedere anche ad uno più povero di loro, mi sono lasciato avvolgere dalla tenerezza della natività che è condizione indispensabile per avere rapporti caldi con gli altri, ho avvertito l’aleggiare degli angeli che ci hanno fatto intuire il mistero in cui siamo avvolti ma, soprattutto, mi sono reso conto che il Figlio di Dio con il Natale è diventato figlio dell’uomo e che soltanto quando mi apro agli altri, dono loro la mia solidarietà e li amo, posso godere dell’incanto e della poesia del Natale perché così mi inserisco nella logica di Dio.

Ho avuto la netta sensazione che i fedeli che gremivano la mia “cattedrale tra i cipressi” abbiano condiviso questa mia “lettura del Natale” e ne sono stato particolarmente felice!

Il Papa in “gabbia”

Mai e poi mai avrei immaginato che nostro Signore ci regalasse un Papa così evangelico qual è Papa Francesco, però mi accorgo che la Curia del Vaticano non perde occasione per ingabbiare anche lui nelle vecchie prassi rituali così lontane dalla sensibilità degli uomini d’oggi.

Purtroppo penso che, pur con amarezza e riluttanza, talvolta lo stesso Papa debba accondiscendere alle scelte e alle manie di quella legione di Monsignori e Liturgisti che pare non abbia altro da fare che organizzare riti variopinti e macchinosi. Può anche darsi però che il Pontefice cada nei loro trabocchetti, mi riferisco alla Messa di Natale cui ho assistito dopo cena in poltrona davanti alla televisione.

Ho visto il Papa fare sforzi disperati per non addormentarsi mentre una bella ragazza, in mezzo ad un esercito di orchestrali, emetteva dei gridolini seguendo di certo uno spartito di musica polifonica. Forse in un teatro, a persone del mestiere, potranno anche piacere quei canti ma, per la gente come me, essi sono dei potenti sonniferi che fanno addormentare o, nel migliore dei casi, certamente annoiano.

Spero che, in uno dei prossimi sinodi o delle prossime riforme, Papa Francesco allontani dai sacri riti, canti, vesti e gesti che risultano assolutamente incomprensibili alla gente come me e spero anche che in Vaticano ci sia qualche soffitta in cui collocare “liturgie” vecchie di secoli.

I profughi

Su quest’argomento sono già intervenuto più di una volta nel passato mettendo in luce due aspetti: il primo di non facile soluzione ed il secondo necessario, impellente perché assolutamente scandaloso.

Per quanto riguarda il primo aspetto del problema, mi pare ovvio che l’Italia non possa accogliere una massa di disperati senza definire cosa farne e come integrarli nella nostra società. Di certo non possiamo mantenerli in eterno sia perché costano sia perché un uomo che non lavora diventa facilmente preda della delinquenza ma, purtroppo, a questo riguardo, non ho mai letto né un progetto né una proposta.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, partendo da evidenze a livello locale, ho sempre sospettato che un po’ tutti, non solo nel mondo civile ma anche in quello religioso, lucrassero su questo dramma sociale.

Lo scoppio del bubbone di Roma me ne ha fornito una conferma fin troppo evidente: tanti, troppi hanno fiutato, tentato e colto l’affare.

Qualche domenica fa, durante la trasmissione “L’Arena” condotta da Giletti, che va in onda nel primo pomeriggio di domenica, ho appreso che, a dispetto dei cinquanta euro al giorno che lo Stato versa all’ente preposto, ciascun profugo riceve solo 2 euro e mezzo!

Mi domando ancora una volta cosa ci stiano a fare le moltitudini di magistrati, finanzieri, poliziotti e burocrati se non riescono a controllare un malaffare di questo genere.

Mi pare che oggi si parli della possibilità di un trasferimento per i dipendenti dello Stato però solo entro un raggio di cinquanta chilometri, altro che cinquanta chilometri, bisognerebbe trasferirli al Polo Nord!

L’automobile

Io ho preso la patente per guidare l’automobile venticinque anni fa, ormai sessantenne. Confesso che ho fatto un po’ di fatica per ottenerla, la prima volta fui rimandato perché non ho saputo destreggiarmi nel labirinto di strade di Marghera, da ripetente poi non è andata meglio perché per miracolo, nella seconda prova, non ho investito un giovane che portava il latte. Ho però incontrato, fortunatamente, un funzionario devoto che mi ha detto: “Padre, veda d’essere prudente quando guida”.

Credo d’aver fatto tesoro di questo saggio e doveroso consiglio, anche se, neppure oggi, dopo venticinque anni di guida, sono un autista provetto.

I miei rapporti con l’automobile non sono mai stati molto rispettosi nei riguardi di questo mezzo di locomozione, sia perché non ho mai comprato o posseduto una macchina nuova o di valore e sia perché non ho mai servito l’automobile ma mi sono sempre fatto servire da essa “educandola” al mio modo poco rispettoso delle sue esigenze.

Confesso che spero di essermi comportato in questo modo per una scelta di sobrietà e di coerenza. Ultimamente il comportamento e le parole di Papa Francesco mi hanno molto confortato e le ho avvertite come un’approvazione che mi ha gratificato a livello di prete automobilista.

Per Venezia non c’è salvezza

Mi rattrista il dover parlar male ancora una volta di Venezia perché, nonostante tutto, l’amo e sono orgoglioso di abitarvici, però ogni giorno di più mi convinco che per questa città non c’è più salvezza.

Voglio evitare di ripetermi sulla cattiva amministrazione, sulle occasioni perdute, sul mal governo e sull’acqua alta, ma vorrei richiamare la vostra attenzione sullo sconfinato esercito di burocrati impietosi, stupidi ed irresponsabili che la stanno soffocando.

I motivi di sconforto, di amarezza e di sdegno sono stati tanti, questo è solo l’ultimo.

Una cara signora, che ha avuto l’incarico dalla sorella deceduta alcuni anni fa di distribuire ad opere benefiche il patrimonio che ha lasciato, ha deciso di donare alla Fondazione i proventi della vendita di un “bacaro” che si trova vicino a San Marco.

Si tratta di una cifra ingente con la quale potremo finanziare la struttura per le emergenze abitative destinata a: divorziati, disabili, vecchi preti, operai ed impiegati di altre città che lavorano a Mestre, parenti di degenti in ospedale, giovani che tardano a sposarsi per la mancanza di un alloggio. Un complesso di 65 appartamenti che offriranno un servizio quanto mai necessario e soprattutto creeranno quella cultura e quella mentalità solidale di cui Mestre ha bisogno come il pane quotidiano.

Ebbene i burocrati del Comune, che sono poi gli stessi che hanno fatto perdere a Venezia il grattacielo di Cardin, le carceri, lo stadio e quant’altro, stanno facendo l’inimmaginabile per impedire o ritardare un’operazione benefica di notevole portata culturale e sociale.
Perché? Proprio non lo so!

Soldato semplice

Quando, alcuni giorni fa, ho spedito al Presidente e ai membri del Consiglio di Amministrazione le mie dimissioni da direttore della Fondazione dei Centri Don Vecchi, ruolo da me ricoperto fino al 31 dicembre, per una strana associazione d’idee sono ritornato con il pensiero ad un romanzo della mia fanciullezza: “I ragazzi della Via Pàl”.

I più anziani ricorderanno che in quell’esercito immaginario tutti avevano un ruolo di comando tranne Nemecsek, unico soldato semplice, che riceveva ordini da tutti.

Nella mia lettera di dimissioni ho rimesso nelle mani del consiglio le sorti dei Don Vecchi, la cui costruzione è stata l’impresa che più mi ha impegnato ed appassionato negli ultimi vent’anni della mia vita.

Con suddetta lettera però ho anche dato la mia totale disponibilità alla Fondazione per svolgere, qualora mi venga richiesto, le attività che ancora sono in grado di fare.
Confesso che mi è costato un po’, ma non più di tanto!

Sono ben cosciente che essere fedele a questa scelta mi costerà molto perché da tanti anni mi sono abituato a prendere decisioni ma soprattutto perché da sempre ho portato avanti con tanta e forse troppa determinazione gli obiettivi che credevo giusti, comunque anche questo sacrificio fa parte della stagione che sto attualmente vivendo.

Desiderio di primavera

Il mio tragitto per ritornare al Don Vecchi, dal Cimitero ove si svolge il mio “lavoro” quotidiano, non può che essere quello che passa per Viale Garibaldi, viale che, all’inizio del secolo scorso, fu pensato come il Corso che avrebbe collegato il centro di Mestre con Treviso, città che per molti motivi e per molti anni esercitò un legame ideale con Mestre. Basti pensare che fino al 1926 tutte le parrocchie di Mestre facevano parte della diocesi della Marca Trevigiana.

I miei ripetuti transiti quotidiani mi sollecitano ad osservare i colori e i profumi dei due filari di vecchi tigli che fiancheggiano questo corso che gli architetti hanno progettato ispirandosi nientemeno che a Versailles.

Da qualche settimana è iniziata la caduta delle foglie con i loro mutevoli colori che dal verde cupo dell’estate hanno cominciato a perdere intensità per poi ingiallire, diventare marrone ed infine scomparire lasciando i rami spogli che alzano le loro dita scheletriche verso il cielo.

Ora ogni giorno sogno il verde tenero delle foglioline primaverili ed il profumo intenso di questi tigli. Come ti sogno primavera!

Sarei tanto grato al Signore se almeno per una volta ancora mi permettesse di godere della poesia di questa strada amata.

“L’ultima spremitura”

In questi giorni è uscito l’ultimo volume che raccoglie le pagine del mio diario del 2014 con un titolo significativo e molto meditato: “L’ultima spremitura”.

Quando ho superato gli ottant’anni, alla fine di ogni anno, ho avvertito il bisogno di indicare anche nel titolo del volume il fremito dell’attesa del mio incontro con il Signore. Da questo stato d`animo sono nati i titoli: “Sul far della sera”, “Luci del tramonto”, “Tempi supplementari”, “Vespero”, “L’attesa del nuovo giorno”, “Crepuscolo” ed ora “L’ultima spremitura”.

Se il Signore mi accordasse ancora qualche anno, finirei per trovarmi a disagio e in difficoltà per trovare un titolo adeguato all’età ed al mio stato d’animo.

Quando ho scelto per il 2014 “L’ultima spremitura”, ho preso in considerazione non solamente la mia veneranda età ma, pure il tipo di vita che ormai nonostante tutti i miei sforzi riesco ad esprimere. Sono ben conscio come ho scritto nella prefazione, di essere arrivato al tempo del “vinello”, ossia un prodotto che del buon vino ha quasi solamente il colore.

Spero che questo volume vada in mano solamente agli amici più cari perché con gli altri non mi farebbe fare altro che una brutta figura.

Zappalorto e colleghi

Qualche tempo fa ho parlato bene di Zappalorto, il commissario che governa attualmente il Comune di Venezia, non tanto per le sue qualità ma perché speravo riuscisse a rabberciare alla meglio i danni procurati dalla classe politica che ha portato alla deriva la situazione economica della nostra città.

Pensavo che il commissario, pur deciso nel riassestare la disastrosa situazione economica del Comune, facesse sì dei “tagli” per recuperare il denaro necessario a colmare la voragine provocata dai nostri politici incompetenti e faziosi ma, in maniera intelligente ed attenta ai soggetti da tassare. Senonché il caso dei trentamila euro di tasse sulla spazzatura inflitti alle quattro vecchie suore del Convento di Clausura di via San Donà, quasi siano loro a creare montagne di rifiuti, mi ha fatto venire la mosca al naso.

È pur vero che pare sia quasi un vezzo per gli amministratori pubblici “mungere sempre i soldi occorrenti” dai poveri grami che di soldi ne hanno sempre avuti pochi e non da chi magari ne ha anche troppi ma, che poi lo facciano anche i burocrati che non hanno la necessità di raccogliere consensi e voti è veramente troppo!

Ricorderò sempre mio padre, padrone di una botteguccia di falegname, che ripeteva spesso che pagava più tasse lui di Agnelli.

Un tempo sorridevo di questi suoi sfoghi, oggi ho capito che aveva ragione.

Veronesi, ateo che non mi turba

Qualche tempo fa transitavo a piedi in una viuzza che sbocca in via San Donà per raggiungere le poste di Carpenedo perché oggi è un miracolo trovare un posto per parcheggiare.

Camminavo pensando ai fatti miei quando un signore che abita in quella zona e che vive in maniera pressoché eremitica, mi fermò, mi fece entrare in casa sua e per un’oretta mi intrattenne su argomenti di ogni specie: aveva voglia di parlare con qualcuno. Tra le varie cose mi chiese un parere sul volume di Umberto Veronesi, il famoso oncologo, che non perde occasione per dichiararsi ateo. Il mio interlocutore arrivò a regalarmi la “critica” che Repubblica aveva fatto su questo volume.

Ho letto con una certa preoccupazione la pagina del notissimo giornale, al quale non spiace di presentarsi come laico schierato. La mia preoccupazione nasceva dalla paura che le argomentazioni di Veronesi potessero mettere in crisi la mia fede.

Sul finire della vita diventa preoccupante, almeno per me, che qualcuno ti sfasci tutta la tua “lettura” del mistero della vita stessa! In realtà le argomentazioni di Veronesi, così come mi era già successo con Eco e Scalfari, mi risultarono quanto mai fragili, ingenue, faziose e forse anche arroganti.

Ho concluso che certi atei esibizionisti, tanto critici nei riguardi dei credenti non lo sono per nulla nei riguardi di se stessi.

Questo è per me quanto meno poco serio!

Olmi e la grande guerra

Una volta ancora, uno dei più bravi registi del nostro Paese, ha fatto “centro” con il suo ultimo film “La valle tornerà verde”.

Olmi, in occasione del centenario della Grande Guerra, ha affrontato il tema da par suo e ci ha offerto un film di grande poesia ma, soprattutto ricco di grande speranza.

Ultimamente, in maniera quasi morbosa, ho cercato di vedere svariati documentari sulla prima Guerra Mondiale, avendo modo di toccare con mano l’insipienza “dell’intellighenzia” del nostro Paese all’inizio del novecento, la crudeltà e lo sprezzo per la vita umana dei nostri generali e la brutalità assurda e sanguinaria di quella guerra e di ogni guerra.

Olmi conclude che nonostante tutto le nostre valli alpine torneranno a fiorire. In questo titolo ho ritrovato l’incanto, la poesia e l’estasi di quello splendido volume che lessi da ragazzo: “Come era verde la mia valle”.

Un giorno feci osservare a Monsignor Vecchi come fosse triste la montagna per le ferite di una valanga e il vecchio prete mi rispose: “Se ripasserai tra qualche anno avrai modo di constatare che il verde avrà preso il sopravvento” e poi soggiunse “Il progetto di Dio finisce sempre per avere il sopravvento sulla violenza insensata dell’uomo”.

Sono riconoscente a Olmi e pure a Monsignor Vecchi per questa loro felice sapienza.