La terza fase della mia vita

Sono nato nel ’29 e sono diventato prete nel ’54.

La prima fase della mia vita fu quella della preparazione alla missione umana e sacerdotale. La seconda fase, dal 1954 al 2005, fu il tempo “cuore” della mia esistenza, durante il quale mi sono impegnato per farmi testimone e portavoce di Cristo Gesù. Il 2 ottobre di sette anni fa è iniziata la terza fase della mia vita. Iniziò con la pensione, nel 2005, un tempo che non avevo programmato, motivo per cui mi sono trovato totalmente spiazzato, quasi mi fosse venuta meno la terra sotto i piedi, tanto che arrischiai un esaurimento nervoso.

Inizialmente, annaspando, mi cercai un lavoro “in nero”. Poi, celebrando da quarant’anni in cimitero, mi orientai verso la pastorale del lutto. Nacque con fatica un gruppo di mutuo aiuto per l’elaborazione del lutto, che poi passai all’Avapo.

Per anni celebrai la messa a San Rocco per i genitori che han perduto un figlio in giovane età. Poi sono riuscito ad avere una nuova chiesa di 250 posti in cimitero e soprattutto una comunità che la gremisce ogni domenica. Ho collaborato alla stesura di un volume, “L’albero della vita”, di cui ho curato l’aspetto religioso di “nostra sora morte corporale”, come san Francesco chiamò il lutto, volume diffuso in più di 20.000 copie e che “tira” ancora.

Mi sono offerto di celebrare la messa festiva in due frazioni lontane dalle relative parrocchie, però i parroci declinarono la mia offerta per motivi che sono rimasti sconosciuti. Mi sono offerto, a titolo gratuito di celebrare in una chiesa vicina, guidata da un parroco che non ha cappellani, ma dopo sei mesi sono stato licenziato in tronco, con preavviso di alcune ore.

Ho fondato il settimanale “L’incontro” che esce regolarmente, senza pausa alcuna, in 5000 copie, risultando così il periodico di natura religiosa più letto in assoluto a Mestre.

Nel frattempo ho collaborato alla nascita del Centro don Vecchi di Marghera per il cui finanziamento avevo già provveduto per intero. Ho acquistato il terreno per il Centro di Campalto e collaborato alla sua realizzazione.

Ho dato vita, con la redazione degli amici de “L’incontro”, al mensile “Il sole sul nuovo giorno” e pubblicato una decina di volumi.

Ultimamente mi sono offerto di celebrare una messa settimanale a Carpenedo ed una mensile a Ca’ Solaro.

Sono grato al Signore che ha benedetto ed ha reso interessante la terza ed ultima fase della mia lunga vita e soprattutto mi ha aiutato finora a mettere in pratica il proposito “voglio che la morte mi incontri vivo” e ad impegnare bene “i tempi supplementari”.

Vecchi contestatori con le unghie spuntate

Qualche tempo fa un residente al “don Vecchi” di Campalto mi ha informato che un gruppetto di anziane signore aveva deciso di bloccare il traffico della strada statale via Orlanda con un sit-in, per chiedere al Comune e all’Anas il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso del Centro che attualmente risulta estremamente pericoloso.

Una notizia del genere mi ha evidentemente sorpreso, sapendo che l’età media dei residenti al Centro si aggira sugli ottant’anni. A me, che ho una fantasia quanto mai vivace, l’immagine di un gruppetto di signore col cappellino in testa sedute sull’asfalto, imperturbabili nonostante il suonare dei clacson delle migliaia di auto e furgoni che transitano velocissimi per via Orlanda, faceva immaginare la sequenza di un film alla Mary Poppins. Sapendo però che vivono al Centro almeno tre, quattro sessantenni, quanto mai esperte in queste cose, ero propenso a pensare che la cosa era più vicina alla realtà che alla favola.

All’annuncio dell’informatore seguì la telefonata di una delle protagoniste – una vecchia conoscenza dei tempi di San Lorenzo che aveva militato lungamente in “lotta continua” – che chiedeva il mio parere. Il mio parere non poteva che essere positivo, “a mali estremi estremi rimedi” pensai. Da un anno non abbiamo fatto che produrre carte su carte presso il Comune e presso l’Anas, senza riuscire a cavarci “un ragno dal buco”. Che cosa avrei potuto ancora fare perché gli ottanta anziani potessero uscire ed entrare senza arrischiare la vita ogniqualvolta hanno bisogno di comperarsi il pane o badare ai nipotini perché i figli lavorano?

La cosa si risolse per fortuna in maniera più prosaica. Un certo perbenismo borghese da un lato sconsigliò un’ azione così eclatante che poteva essere paragonata agli interventi dei Black Bloc e dall’altra l’Anas, dopo un anno e un mese ha dato il sospirato OK, a patto che siamo noi “ricchi” ad assumerci tutte le spese spettanti ai “poveri” Anas e Comune.

Ora ho capito fino in fondo che cosa significhi “Vittoria di Pirro”.

“Nessuno è profeta in patria”

Qualche settimana fa è venuta al “don Vecchi” una delegazione della Caritas diocesana di Trieste per prendere visione dell’impostazione del polo caritativo che in questi ultimi anni s’è sviluppato attorno al nostro Centro.

E’ normale che la notizia di certe iniziative di solidarietà si diffonda, portata sull’onda dell’etere o della carta stampata e ci sia chi voglia verificare sul campo la consistenza, le modalità ed i traguardi raggiunti. Chi ha a cuore certi problemi sta con le orecchie sempre tese e lo sguardo aperto per sentire e vedere ciò che avviene fuori dal suo piccolo mondo.

Anche a me capita spesso di apprendere dalla stampa ciò che sì sta facendo altrove e talvolta mi lascio andare a sentimenti di invidia nell’apprendere iniziative più o meno originali, ma sempre utili per chi è in difficoltà e spesso mi angustio per non essere capace di coinvolgere colleghi e comunità cristiane in questo sforzo di affrontare sempre nuovi servizi per tentare di dare dette risposte adeguate alle vecchie e nuove povertà.

Confesso poi che provo una certa amarezza nel constatare come il mondo cattolico della Chiesa veneziana sembri spesso indifferente ai tentativi, i progetti e soprattutto alle realizzazioni di solidarietà che sono nate attorno al “don Vecchi”.

Credo che siano pochi a Mestre che non sappiano dell’esistenza di questa iniziativa a favore degli anziani poveri, della quale s’è perfino interessata una rete televisiva del Giappone, mentre è un numero assai esiguo quello dei concittadini che hanno sentito il dovere di mettere il naso dentro at “don Vecchi” e ancor meno i preti, i responsabili delle parrocchie e degli organismi caritativi ufficiali detta diocesi che abbiano preso visione e si siano confrontati e che abbiano tentato di mettersi in rete per una indispensabile sinergia se si vuole contrastare il bisogno e dar corpo alla carità concreta.

Ho visto con piacere questa gente che, come la regina di Saba, viene da lontano per vedere. Altrettanto mi spiace che i concittadini e i fratelli di fede vi rimangano indifferenti. Quando mi prende questa malinconia mi consolo con la parola di Gesù: “Nessuno è profeta in patria” e tiro avanti in solitudine.

Non c’è rosa senza spine

Spessissimo ho parlato con entusiasmo dell’esperienza del Centro don Vecchi come un’esperienza innovativa a favore degli anziani autosufficienti poveri.

Questo è lo spazio che era scoperto e che abbiamo scelto di occupare, poiché per i non autosufficienti ci sono strutture che in questi ultimi trent’anni si sono collaudate e che offrono un servizio per quanto possibile dignitoso e attento atta disabilità. Queste case di riposo però sono costose quanto mai, comunque i servizi che devono erogare giustificano queste rette.

la soluzione del “don Vecchi” è risultata assolutamente felice per la signorilità dell’ambiente, per i sussidi sociali inerenti alla fragilità fisica e psichica e soprattutto per i costi che sono estremamente inferiori a quelli di qualsiasi struttura esistente sul suolo nazionale.

La nostra struttura ci è invidiata da mezzo mondo e sono innumerevoli gli enti che l’hanno visitata per avere ispirazione per dar vita a soluzioni similari.

Ci siamo preoccupati di “garantire il brevetto” facendo sottoscrivere all’anziano richiedente e ad un garante che, qualora l’anziano non fosse più autosufficiente, il residente sarebbe stato ritirato e collocato in una struttura più adeguata. Purtroppo l’anziano abbastanza facilmente perde autonomia e viene a trovarsi in un luogo non attrezzato e che soprattutto ha scelto di non attrezzarsi per i non autosufficienti.

Ora abbiamo al “don Vecchi” delle situazioni di persone che hanno assolutamente perso la mobilità e che costituiscono perciò un grave pericolo per sé e per gli altri e che caricano la Fondazione di responsabilità umane e legali che non può e non deve addossarsi. Quando si fa presente questo ai figli spesso ci si scontra con una forma di egoismo inconcepibile e pressoché insuperabile e, nonostante gli impegni formali, essi spesso si rifiutano di farsi carico del genitore per non pagare le rette m case di riposo o per non avere in casa il vecchio scomodo. Chi ha offerto anni di vita serena è ritenuto “crudele” perché esige che si rispettino i patti sottoscritti, arrivando a far scrivere all’avvocato o a ricorrere all’ente pubblico e caricando di una responsabilità che potrebbe, una volta capitasse un sinistro, avere conseguenze legali veramente gravi.

In questi giorni sto vivendo momenti di amarezza e di delusione a questo proposito, tanto da farmi concludere che sono stimate le persone che se ne fregano e ritenuto crudele ed ingeneroso chi si è adoperato per il bene dei loro genitori, spesso sottraendosi ai doveri umani di farsi carico delle toro difficoltà.

Il punto ove trovare il cristiano

Qualche settimana fa il parroco di Tessera ha pensato bene, nel quadro dell’anno della fede, di organizzare un incontro nella sua comunità per evidenziare che la fede, per essere tale, deve sfociare nell’alveo della carità.

All’interno di questa paraliturgia ha ritenuto opportuno che io portassi la mia testimonianza per quanto s’è fatto a Mestre negli ultimi cinquant’anni a livello di solidarietà.

Nonostante la cosa mi risultasse gravosa, però a motivo della stima che nutro per questo parroco e della mia totale condivisione per questa linea ideale, ho accettato, pur con disagio per la preoccupazione di poter essere giudicato uno che si fa bello per aver tentato di fare quello che ogni prete deve fare.

Ho iniziato la mia testimonianza dicendo che se si vuole scoprire dove sta il cristiano, nel guazzabuglio di idee che spumeggiano in questo mondo, bisogna usare le famose coordinate: la longitudine e la latitudine. La prima: la longitudine, il cristiano è uno che crede in maniera totale a Dio, a Gesù che ci ha parlato in suo nome e nella Chiesa che custodisce e trasmette il messaggio di Cristo. La seconda: la latitudine è costituita dalla carità, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Nel punto di incrocio fra queste due dimensioni si trova il cristiano.

Ho tentato quindi di parlare degli eventi di solidarietà in cui mi sono trovato coinvolto e a cui ho tentato di dare il mio apporto.

A San Lorenzo dal 1956 al 1971: la mensa di Ca’ Letizia con cena e poi colazione – il magazzino degli indumenti – docce – barbiere – vacanze estive dei vecchi e dei ragazzi – il mensile “Il prossimo” – i gruppi per la casa di riposo e per l’ospedale – il “Caldonatale” – gruppi caritativi nelle parrocchie di Mestre, il settimanale la Borromea.

A Carpenedo dal 1971 al 2005: il Ritrovo degli anziani – Villa Flangini, la Malga dei faggi e il mensile “L’anziano” per i vecchi e la rivista Carpinetum per le famiglie – radio Carpini – il gruppo “Il mughetto” per i disabili – il gruppo “San Camillo” per gli ammalati – i gruppi di adulti e di giovani della San Vincenzo – il gruppo per il terzo mondo – le prime residenze per gli anziani (Piavento, Ca’ Dolores, Ca’ Teresa, Ca’ Elisabetta e Ca’ Elisa).

Da pensionato dal 2005 al 2012: i Centri “don Vecchi” – due a Mestre, uno a Marghera e uno a Campalto. La fondazione del settimanale L’Incontro, Il polo solidale del “don Vecchi”, costituito da tre associazioni di volontariato:

  • “Vestire gli ignudi” (i magazzini dei vestiti cui convergono 30.000 persone l’anno);
  • “Carpenedo solidale” per il ritiro di mobili ed arredo per la casa e i supporti per gli infermi e il “Banco alimentare” con 2500 assistiti alla settimana;
  • “La buona terra” per la distribuzione di frutta e verdura (15 quintali al giorno).

In complesso più di 200 volontari sono impegnati in queste attività. Ora stiamo lavorando per il “don Vecchi 5”.

Guardando indietro devo constatare che il buon Dio mi ha donato una bella avventura, so bene che “tutto è grazia” e che basta lasciarsi condurre sempre dalla Provvidenza e divenirne l’umile braccio operativo.

Una decisione lucida

C’è anche chi mi rifiuta e parla male di me, ma per mia fortuna c’è anche chi mi stima e mi usa attenzioni che forse non merito ma che mi fanno piacere.

Quando s’è trattato di formare il consiglio della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi e per la quale il patriarca Scola m’aveva designato presidente, i soci fondatori della stessa – parrocchia di Carpenedo e diocesi – mi hanno cortesemente offerto di potermi scegliere i relativi consiglieri, che poi essi hanno nominato. Quando poi ho ritenuto opportuno di non accettare per un altro mandato la presidenza della Fondazione, il patriarcato mi ha chiesto di suggerire un nuovo presidente. E quando si è installato il nuovo consiglio, esso mi ha pregato di accettare la nomina a “direttore generale”. Non si pensi però che si tratti della direzione della Banca d’Italia! Comunque è stato un gesto di cortesia che ho quanto mai apprezzato e per il quale sono stato riconoscente ai membri di questa Fondazione.

Però in un recente consiglio di amministrazione ho fatto presente il mio desiderio di collaborare da semplice volontario e non più con alcun incarico ufficiale. Ho sempre approvato l’idea che ai giovani appartiene il futuro perché esso sorge ove loro puntano gli occhi. Sono pure convinto che la gerontocrazia, seppur fatta da gente preparata ed intelligente, finisce per rallentare la giusta evoluzione e quindi diventa fatalmente un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Così in politica – io sono per Renzi – come nella Chiesa e così pure nelle strutture di minore entità, tifo per chi guarda al futuro piuttosto che al passato.

Non scelgo né la poltrona né la pantofola, ma penso di usare meglio i miei tempi residui come volontario piuttosto che da dirigente.

Fortunatamente, anche in questi tempi, ci sono state delle bellissime figure di vescovi che, una volta smessi la mitria e il pastorale, hanno scelto di fare i cappellani senza far mancare alla Chiesa il loro apporto. Io, pur conoscendo fino in fondo i miei limiti, sento di dovermi orientare con decisione verso una soluzione simile, servendo il prossimo come l’ultimo “manovale”, lasciando ai più giovani e più dotati, il timone della barca.

I preti che stimo

Una volta una buona signora, che mi stima e mi è affezionata, mi chiese candidamente come mai io ce l’avessi contro i preti.

Non mi è stato tanto facile spiegarglielo. Io ho un concetto molto alto del sacerdote. Di certo non sono un ammiratore dei curatini tutti Gesummaria, meno che meno dei preti “impiegati” dell'”azienda Chiesa”. Neppure mi esaltano i preti “allineati e coperti” preoccupati di eseguire ciecamente tutti i desideri del loro vescovo anche quando fossero insulsi e campati in aria. Detesto ancora i preti in carriera e quelli che vivono in combutta con i faccendieri e compatisco con fatica i “don Abbondio”.

Detto questo, confesso che ammiro quanto mai i sacerdoti credenti, quelli onesti, quelli liberi, quelli generosi e coerenti e “faccio le bave” per quelli folli, ossia quelli che si compromettono, che guardano con fiducia al futuro, quelli che vivono poveramente, quelli che rappresentano la testimonianza e soprattutto la profezia e nella società attuale e si sporcano le mani per gli ultimi. Non faccio nomi solamente perché li ho fatti già infinite volte.

Quando scopro poi dei “tesori nascosti” mi sento felice, mi ritengo fortunato ed entro positivamente in crisi perché essi mi sono di pungolo per la mia coscienza di cristiano e di sacerdote.

Già ho parlato con gli amici più intimi con i quali dialogo settimanalmente con questo mio diario, delle traversie per trovare un prete che dicesse messa nella nuova “parrocchietta” dei settanta anziani del Centro don Vecchi di Campalto, tagliato fuori dal consorzio civile dalla trafficatissima e pericolosa via Orlanda. Ho fatto tre tentativi che, per un motivo o per l’altro, sono andati falliti, tanto che non m’è rimasta se non la speranza che i cristiani copti egiziani, che abitano accanto al don Vecchi, costruiscano la chiesa in preventivo, per suggerire ai nostri vecchi di frequentare almeno la chiesa dei nostri fratelli vicini ma “separati”.

Sennonché un giovane parroco, che mi avevano descritto come un contestatore, si è offerto di farlo lui e quindi, in modo garbato e rispettoso, ho tentato di fargli accettare l’offerta “consacrata dalla tradizione”: l’ha prontamente e cortesemente rifiutata.

Vorrei spiegare quindi alla mia buona signora e a chi la pensa come lei, che questo tipo di preti fa più bene al mio spirito che la “summa teologica” di san Tommaso o gli scritti di mistica di san Giovanni della croce, mentre i primi, di cui ho parlato, li considero una delle cinque piaghe delle quali ha parlato Rosmini.

L’ultimo miracolo

Mi ha amareggiato e preoccupato quanto mai quando una scheggia impazzita è schizzata da una delle associazioni di volontariato che ogni settimana offrono generi alimentari e frutta e verdura a duemilacinquecento concittadini che non hanno denaro sufficiente per sopravvivere in questo tempo di crisi che colpisce soprattutto i più deboli.

Temevo che i contrasti interni finissero per danneggiare la folla di poveri che quotidianamente raccoglie presso il “don Vecchi” la “manna” che fortunatamente cade dal cielo.

Ho tentato con tutte le mie forze e le mie risorse di imbrigliare questa “scheggia” perché non solo non disperdesse la sua energia ma, una volta incanalata, finisse per offrire più luce e conforto. L’impresa non è stata facile, perché è sempre stato difficile guidare quello che nasce dal sospetto e dal dissenso. I primi tempi sono stati tribolati ed incerti, ma poi, pian piano, la cosa ha cominciato a funzionare ed ora sembra davvero promettente, anzi provvidenziale.

E’ vero che la sinergia rappresenta la soluzione ottimale, ma quando risulta impossibile ci si deve accontentare almeno di una concorrenza non belligerante. Così è nata al “don Vecchi” la nuova associazione di volontariato che è stata battezzata col nome augurale e riconoscente “La buona terra”. Essa conta già una quindicina di volontari, ha un presidente, un codice fiscale, gestisce ogni giorno una quindicina di quintali di frutta e verdura, possiede un furgone, ha un “fatturato” di un migliaio di euro mensili e accontenta tre, quattrocento bisognosi alla settimana e, meraviglia delle meraviglie, riesce anche a fornire frutta e verdura alla mensa della San Vincenzo e a quella dei frati.

Una volta tanto una calamità è diventata un’opportunità ed una bella prospettiva per il futuro. Di certo questo evento ha ulteriormente aggravato il cuore già affaticato di questo vecchio prete.

Cronaca di un pomeriggio diverso

Le uscite degli anziani del “don Vecchi” le abbiamo denominate “minipellegrinaggi” perché sono il compendio di due componenti che si completano a vicenda.

La prima componente, della quale mi occupo personalmente, è di carattere religioso. La seconda è un ibrido tra una lunga chiacchierata pomeridiane ed una merenda a base di salame, formaggio, mortadella e bevande varie. Il tutto sotto la copertura formale di un interesse culturale in uno dei tanti borghi, quanto mai interessanti, della nostra regione.

L’ultima uscita ha avuto come meta l’antico porto fluviale di Bussolé, il borgo e il relativo porticciolo ora interrato per l’avvenuta deviazione del Sile, ove un tempo le “peate” della Serenissima portavano, via fiume, il sale che poi veniva distribuito con barche più piccole e carri, in tutto il Triveneto.

Questa uscite sono sempre appetibili perché poco faticose e soprattutto alla portata di tutti: con dieci euro infatti ogni anziano riceve generosamente i conforti religiosi e quelli gastronomici.

Partenza ore 14 con due pullman e 112 “pellegrini”, santa messa con presentazione, preghiere dei fedeli e canti. Meditazione sul tema: le “ricchezze” che anche i vecchi posseggono ancora. Penso di essere stato così appassionato e convincente che, uscendo di chiesa, tutti devono essersi sentiti nel fiore degli anni.

Il giovane parroco che esercita il suo ministero nel comune più piccolo del Veneto – 500 anime -, docente di patristica all’Università di Padova, è stato di un’ospitalità sovrana, mettendoci a disposizione la bella sala parrocchiale. Subito è cominciata la festa: tre panini a testa, bevande a volontà. Penso che i miei vecchi non sarebbero più andati via dal piccolo borgo di case del 1300-1400!

Quando sentii intonare l’inno di san Marco “Viva Venezia, viva la gloria del nostro leon” ho compreso che si era giunti all’apice della festa. Purtroppo, con quel vinello galeotto, i monumenti, il ponte, la torre e il deposito del sale divennero ben poco interessanti!

Il colpo finale è stato un baracchino che una giovane bengalese aveva piazzato proprio vicino al parcheggio del pullman, dove vendeva caldarroste, noci, patate americane.

Il nostro pellegrinaggio è stato anche la sua fortuna perché in pochi minuti avrebbe venduto anche la bilancia e l’arnese per la cottura delle castagne.

Ancora una volta ho capito che la “felicità” è a portata di mano.

Il fine del Centro don Vecchi

Ci sono detti popolari che probabilmente hanno fatto fortuna per l’assonanza o la rima, o perché legati a tradizioni di un mondo rurale dalla cultura povera che poggia su certa esperienza e soprattutto perché quel mondo non possedeva conoscenze scientifiche aggiornate. Però ci sono dei detti un po’ sornioni che evidenziano limiti e debolezze umane. Ricordo ancora una vecchia sentenza in cui si affermava che la moglie che le pigliava ogni giorno dal marito, se un giorno lui non l’avesse bastonata sarebbe stata felice e riconoscente, concludendo che quell’uomo era fondamentalmente buono, mentre quella che non le prendeva mai, se una sola volta lui avesse alzato la mano, l’avrebbe giudicato come un marito cattivo e crudele.

Sono ritornato a questo vecchio discorso qualche giorno fa in merito ad una questione del “don Vecchi”. Abbiamo scelto vent’anni fa di aprire l’esperienza innovativa di una residenza per anziani poveri, ma autosufficienti: un’alternativa alle case di riposo. Per garantirci questa scelta nel contratto di accettazione l’anziano aspirante ospite e il garante hanno sottoscritto una clausola che sempre viene evidenziata: qualora l’ospite perda l’autosufficienza i suoi parenti provvederanno a toglierlo dal “don Vecchi” per inserirlo in una struttura idonea che preveda l’assistenza che da noi non c’è.

Ora pian piano al “don Vecchi” c’è un po’ di tutto perché, col passare degli anni, anche le tempre più forti sono erose. Ci troviamo dunque nella necessità di invitare i figli o i parenti a provvedere per il loro anziano che non deambula, ragiona poco o niente, ha bisogno di assistenza continua. Apriti cielo! Pare che la nostra sia insensibilità o, peggio ancora, crudeltà mentale.

Dopo qualche incontro in cui ho tentato di ricordare l’impegno, mi sono sentito apostrofare quasi fossi un carnefice. Il “don Vecchi” è bello e inoltre si paga poco, però è inconcepibile che qualcuno pretenda che il centro possa offrire le stesse prestazioni delle case di riposo, che pur essendo meno signorili, nonostante ciò chiedono rette quattro volte maggiori di ciò che si chiede dal nostro Centro.

Comunque il Centro don Vecchi è stato pensato per anziani autosufficienti e tale vogliamo che sia.

Dopo aver sofferto, lottato ed essere riuscito ad offrire a mezzo migliaio di anziani cinque, dieci anni di vita serena in un ambiente signorile, mi si accusa di insensibilità. Mentre decine e decine di colleghi, che han pensato ai fatti loro non curandosi dei poveri, diventano dei santi preti, comprensivi e umani. Vallo a capire questo mondo!

La vera crisi è morale

Non c’è italiano che non avverta e non parli della crisi economica; perfino qualcuno ha detto che è la più grave degli ultimi cinquant’anni. Gli analisti affermano che oggi gli italiani si limitano perfino nei consumi alimentari.

Io in verità non sono preoccupato più di tanto, perché registro che lo sperpero era enorme prima ed oggi continua ad essere ancora tale. In ogni caso le chiusure delle piccole e medie imprese, i continui fallimenti, la riduzione di personale anche per le imprese più grandi ed affermate, costituiscono un segno evidente delle gravi difficoltà in cui versa il nostro Paese.

Sono però altrettanto e più convinto che la crisi più grave che mette in ginocchio l’Italia sia quella determinata dagli scandali, dalla perdita di valori, dal malcostume delle classi dirigenti. I politici, a livello nazionale, regionale e comunale, sembrano i professionisti dell’imbroglio, delle ruberie, dell’accaparramento dei posti di prestigio; la magistratura pare quanto mai inefficiente e faziosa. Ogni anno infatti vanno in prescrizione duecentomila cause e gli arretrati sono ormai milioni per inefficienza e lungaggini.

Nel popolo, e soprattutto nelle nuove generazioni, pare che stiano scomparendo sogni e ideali e la volontà di lavorare, mentre la droga, come una peste inesorabile, miete una massa crescente di vittime.

Lo Stato poi è ogni giorno più burocratico, dispendioso e rapinatore del guadagno dei cittadini onesti che ancora sono impegnati per il bene del Paese.

In questi giorni la nostra Fondazione ha subito una “rapina di Stato”, senza che magistratura e carabinieri possano intervenire per evitare “il furto”. Come tutti sanno, abbiamo ottenuto dalla Regione duemilioni ottocentomila euro per i 60 alloggi per anziani poveri in perdita di autonomia, con l’obbligo di restituire questa somma in 25 anni. Ora la Regione, avallata dalle leggi statali, ci ha imposto il pagamento di quasi 130 milioni di vecchie lire per garantirsi che questa somma sia restituita in rate annuali. Fin qui si potrebbe pensare solamente a mancanza di fiducia (e quando mai lo Stato ha avuto fiducia dei suoi concittadini?). Ma tutto sommato, potrebbe essere anche comprensibile, se passati i 25 anni e constatando la regolarità dei rimborsi, si restituisse la somma, ma così non è. Questa somma enorme non verrà comunque mai restituita, perché lo Stato deve racimolare denaro per pagare generali, magistrati e parlamentari.

La “puzza”, una volta ancora, il male viene soprattutto dalla “Testa”!

“Temi lo Stato anche quando ti fa doni”

Un giorno, scherzando con degli amici, sono arrivato a definirmi come un anarchico individualista; poi, a scanso di equivoci, perché non si pensasse che io sognassi di buttar bombe contro le istituzioni, aggiunsi che però, contemporaneamente, credevo e volevo praticare la non violenza gandhiana.

Traduco in chiaro questi discorsi che sanno di paradosso. Lo Stato, così com’è articolato e come si muove attualmente, mi sta molto, molto stretto. Della destra berlusconiana sposo un pezzettino di dottrina, molto piccolo, ma significativo, che si traduce con lo slogan “Meno Stato e più libertà”. Ho la sensazione che la burocratizzazione delle istituzioni pubbliche sia così legnosa, macchinosa ed opprimente che ti avviluppi in maniera tanto ossessiva, così da scoraggiarti in ogni iniziativa e soffocarti con le sue lungaggini, le sue carte, i suoi regolamenti e i suoi burocrati, talmente stupidi da costringerti ad infiniti adempimenti formali piuttosto che facilitate più limpide iniziative di carattere sociale.

Non dico che mi conforta il fatto che gli imprenditori esteri non investono in Italia a motivo delle lungaggini e del balzelli degli enti pubblici, ma ciò mi riconferma nel rifiuto che provo verso questo Stato burocratico.

Vengo al motivo che giustifica questa premessa. La Regione ci ha concesso un mutuo di due milioni ottocentomila euro per l’esecuzione di una struttura “esperimento pilota” a favore degli anziani in perdita di autonomia, ma per darteli realmente e per assicurarsi che tu li spenda come pattuito, ti costringe ad una fideiussione del costo di cinquanta-sessantamila euro, oltre una marea di carte di tutti i tipi.

Quando l’altra sera al consiglio di amministrazione della Fondazione sono venuto a conoscere questi discorsi, m’è venuta in mente una massima dell’antica Roma: “Timeo danaos et dona ferentes”, temo i greci anche quando mi portano un dono!, tanto erano astuti e interessati. Questa volta vedo nei greci la Regione, però di tutti gli enti pubblici si può dire la stessa cosa.

Confesso con amarezza che lo Stato e i suoi derivati sono per me dei “nemici”.

Il seme vive nel tempo

Molti anni fa conobbi in parrocchia una splendida coppia di sposi profondamente religiosi. Mi pare di vederli ancora! Si mettevano ogni domenica nel solito banco e partecipavano devotamente alla santa messa. Lui era un ottimo medico, lei, nata in Algeria o in Tunisia, s’era convertita da adulta al cristianesimo, però aveva una fede tanto semplice, ma altrettanto luminosa. Crebbero tre figli, come si diceva un tempo, “Nel santo timor di Dio”.

Una volta in pensione il marito fece volontariato, dedicando mezza giornata alla settimana al Ritrovo parrocchiale degli anziani. I miei vecchi gli chiedevano consigli sui loro immancabili acciacchi e lui, con voce pacata e sommessa, dava delle indicazioni, che di primo acchito sembravano elementari, ma in realtà erano ricche di saggezza. Egli, da medico, usava poco le medicine, convinto che il paziente ha in se stesso le risorse per reagire ai suoi malanni.
Morirono tutti e due santamente.

Ebbi modo di conoscere i figli, riscontrando sempre in loro lo stile sobrio e sereno dei loro genitori. Recentemente cercavo un negozio per aprire un mercatino in occasione del Natale per finanziare la nuova struttura per gli anziani in perdita di autonomia. Un’azienda ci ha donato una camionata di addobbi natalizi e perciò pensavamo di venderli a prezzi simbolici perché le famiglie possano dare un tono festoso alla loro casa in occasione della nascita di Gesù.

Fortuna volle che puntammo gli occhi su un grande negozio libero in una zona centrale della città. Altra fortuna: ci imbattemmo in un amministratore che dona tempo e capacità alla parrocchia e perciò ci rese facile il contatto con i proprietari che scoprii essere i figli dei due vecchi parrocchiani che, nel frattempo, avevano raggiunto i loro cari in Cielo.

Essi ci offrirono il negozio quasi fossimo noi a far loro un piacere. L’iniziativa ha ottenuto un buon risultato.

Comunque ritengo già un dono aver incontrato persone così disponibili e fiduciose che aprono il cuore per consentirci di impegnarci a favore di chi ha bisogno. Una volta ancora sono riconfermato nella validità dell’invito di Cristo a seminare sempre, comunque e dovunque, perché il seme prima o poi attecchisce e produce frutto.

Credo che i miei vecchi amici dal Cielo saranno di certo felici della scelta dei loro figli.

Il Seniorestaurant si apre alle famiglie

Qualche giorno fa abbiamo avuto un incontro perché il Catering “Serenissima ristorazione”, che da qualche anno fornisce i pasti ai Centri don Vecchi, possa approntare un centro di cottura presso la cucina del Seniorestaurant. Si trattava di accordarci sul come impostare questo nuovo rapporto.

Da parte del “don Vecchi” erano presenti don Gianni, il nostro giovane presidente, un nostro tecnico preparato nel settore della ristorazione e due nostri consulenti nel campo amministrativo. Con noi il dirigente di questa azienda che si occupa della ristorazione e che sforna ogni giorno più di venticinquemila pasti.

L’incontro è stato quanto mai positivo perché m’è parso che il dialogo per trovare il punto di incontro sia stato portato avanti con estrema correttezza e con un senso di calda umanità. M’è parso che nessuno volesse “fare l’affare” e che si cercasse veramente una soluzione che potesse andar bene per tutti.

Io sono stato particolarmente felice del risultato sia perché avremo “in casa” un servizio quanto mai importante, ma soprattutto per due aspetti collaterali al problema che qualificheranno ulteriormente il polo solidale del Centro don Vecchi.

Ho chiesto se ci avrebbero messo a disposizione ciò che avanzava delle vivande e questo responsabile ha accettato con calore e positivamente la richiesta. Attualmente riusciamo a destinare ai poveri ogni giorno una trentina di confezioni, avendo una quarantina di commensali, spero che in futuro, con 300 pranzi, gli “avanzi” siano in quantità veramente maggiore.

Abbiamo inoltre abbozzato il progetto per offrire alle famiglie di modeste condizioni economiche l’opportunità di poter pranzare, in occasione di battesimi, prime comunioni, cresime e nozze, compleanni ed onomastici, al Seniorestaurant, con menù di tutto rispetto per la cifra di 10-15 euro a persona.

La cosa mi ha fatto veramente felice perché oggi possono dirsi veramente poveri anche gli operai con uno stipendio di 1000-1200 euro al mese. Con un po’ di buona volontà le possibilità di far del bene sono pressoché infinite.

P.S. Purtroppo l’operazione non è andata in porto a causa della solita burocrazia, pignola e ottusa.
Speriamo però di “salvare” almeno “i pranzi low cost” per feste e ricorrenze famigliari della povera gente.

Un cittadino benemerito

Io non ho mai saputo che in via Zanella n°6 vivesse, fino ad un paio di anni fa, un agente di finanza in pensione. Ma un bel giorno un amico di questo concittadino, radioamatore come lui, mi telefonò raccontandomi che questo suo amico gli aveva confidato di voler lasciare la sua casa in eredità al Centro don Vecchi.

La cosa era vera, infatti un paio di mesi dopo la morte, avvenuta a Tolmezzo, suo paese natio, il notaio del luogo mi comunicò che la Fondazione aveva ricevuto in eredità dal defunto Enrico dei Rossi, la sua casa in via Zanella 6 a Mestre.

La pratica seguì il suo iter burocratico, tortuoso come sempre, comunque all’inizio di quest’anno siamo entrati in possesso della villetta. “Villetta” è forse un termine un po’ esagerato, perché chiamare con questo nome vezzoso che ti fa pensare ad un edificio di pregio con giardino, è certamente esagerato per questa casetta, un modesto fabbricato in malarnese, bisognoso di un restauro radicale; pur tuttavia la vicinanza al centro, l’entrata unica, l’ambiente medio-borghese, l’hanno reso appetibile fin da subito.

Abbiamo incaricato un’agenzia che ha valutato l’edificio in 170.000 euro, importo a parer mio un po’ esagerato sia per la condizione dello stabile, ma soprattutto per la crisi attuale dell’edilizia.

Comunque abbiamo concluso il contratto per 124.000 euro – contento l’acquirente e più contenti noi, che disponiamo così di denaro sonante per il Centro don Vecchi 5 per anziani in perdita di autonomia.

Ho fatto un po’ di conti: tenendo conto che il “don Vecchi 5” verrà a costare quattro milioni, ognuno dei 60 appartamenti costerà 50.000 euro. Col suo testamento il concittadino Enrico dei Rossi metterà quindi a disposizione di anziani poveri e in difficoltà, a rotazione, quasi due alloggi e mezzo, in una struttura con servizi e spazi comuni, per almeno cent’anni.

Notizie come queste dovrebbero occupare le prime pagine dei nostri giornali, al posto di quel ciarpame e quella spazzatura di cui sono pieni!