Detesto la guerra e chi la fa!

La mamma di Monsignor Vecchi era una donna intelligente, volitiva ed arguta. Essendo rimasta vedova ancora abbastanza giovane, si rimboccò le maniche ed affrontò con coraggio la vita, lavorando sodo riuscendo così a laureare ambedue i figli, ma soprattutto dando loro un’educazione ricca di valori essenziali. Non so quale titolo di studio avesse perseguito, comunque era veramente intelligente e saggia, di una saggezza concreta che la teneva con i piedi a terra.

Io la conobbi quando era già anziana e veniva in seminario dal figlio, don Valentino, dandogli una mano sugli acquisti. Nonostante fosse una donna concreta, amava la lettura e quando le capitava sotto mano un volume che le sembrava interessante, lo prendeva, ma era solita dire “Ora non ho tempo, ma lo conservo per quando…” ed aggiungeva sorniona e con un pizzico di amarezza: “non avrò più occhi per poterlo leggere!”

A me non è capitato proprio così per quanto riguarda i libri, i films, la musica … però mi accorgo che non è proprio facile scegliere qualcosa che valga la pena di leggere o di vedere.

Talvolta però mi capita questa fortuna.

Qualche sera fa ho visto alla televisione un bel film d’amore, inquadrato ai tempi della guerra di secessione tra gli stati del Nord e del Sud America. Una bella storia, ben condotta, con tanta poesia, con immagini struggenti, personaggi ben definiti, linguaggio e soprattutto denuncia decisa dell’assurdità della guerra e di tutte le magagne umane che fatalmente l’accompagnano.

Il protagonista riesce a tornare a casa a riabbracciare la ragazza tanto amata, se non che un colpo di coda della cattiveria scatenata da quell’amaro conflitto, lo uccide.

Da sempre detesto la retorica, le ragioni di Stato, la logica della forza che sacrifica, senza batter ciglio, la vita, i sentimenti e le cose belle della persona. Ora detesto, rifiuto e odio chi adopera ancora questo strumento anche se si tratta di far valere anche le cause più nobili, l’uso della forza è sempre incivile e soprattutto disumano!

La morte delle persone care, realtà amara e misteriosa

Qualche settimana fa, essendo andato a benedire una salma presso l’obitorio dell’ospedale all’Angelo, obitorio che si trova nel retro della porta principale della bella struttura, quasi ad illudere che chi entra da quella porta ne esce sempre guarito, mentre invece si vuol purtroppo illudere i cittadini, facendo uscire i morti dalla porta di servizio; ebbi una brutta sensazione.

In una delle porte della stanzetta accanto a quella in cui giaceva la salma del defunto che ero andato a prelevare c’era la foto di una persona che rassomigliava alla figura di uno dei miei ragazzi che mi erano stati affidati in seminario, più di cinquant’anni fa.

Lessi frettolosamente il nome, avendo poco tempo, e fortunatamente c’era scritto Evelio Miatto, mentre io avevo conosciuto Bepi Miatto!

Cercai di rassicurarmi che non era quel ragazzo di un tempo con cui avevo mantenuto rapporti, seppur saltuari di amicizia. Infatti durante l’estate, quando celebravo all’aperto e non c’era nessuno a leggere le letture della messa, saliva all’altare e con voce pacata e partecipe leggeva il testo sacro per l’assemblea.

Per me poi, nonostante avesse i capelli grigi e sapessi che era ormai in pensione da anni, lo vedevo con gli occhi dell’assistente che giocava assieme con lui, in maniera appassionata, nei cortili del seminario.

Me ne andai tentando di convincermi che non si trattava del caro amico. Se non che, qualche giorno dopo, mi si presentò, dopo la messa celebrata nella cappella del cimitero, una signora dimessa, vestita di nero, assieme a due figlie dicendomi: “Ha saputo, don Armando, della morte di Bepi?” Gli raccontai del mio dubbio ed ella mi informò che suo marito tutti lo chiamavano Bepi, ma in realtà all’anagrafe era stato denunciato come Evelio.

La risposta al mio dubbio mi rattristò alquanto. Purtroppo la morte quando è un’espressione generica è anche facile denominarla con Francesco d’Assisi “nostra sora morte corporale”, ma quando riguarda una persona cara è soltanto morte, realtà amara e misteriosa, almeno per me!

La giuste parole di Obama sulla crisi economica

Qualche tempo fa, quando qualcuno cominciava già ad essere preoccupato perché pareva che calassero i consumi, scrissi un mio modesto parere in proposito. Dissi che il segnale a me sembrava promettente ed incoraggiante, un po’ perché convinto che lo spreco sia veramente un sacrilegio in un mondo in cui una notevole parte dell’umanità muore letteralmente di fame e dall’altra perché sono decenni che si levano voci per condannare il nostro mondo consumistico ed ora che pare che cominci a perdere colpi non c’è che da esultare.

Quando scrissi però queste mie considerazioni, lo feci con preoccupazione e in punta di piedi perché, a cominciare dal nostro capo di governo e per continuare con illustri economisti, si sentiva un coro di voci che invece invitavano ad avere fiducia e a continuare a sostenere i consumi!

Non è che io mi lasci condizionare troppo da quello che pensa l’opinione pubblica, però sono stanco di sentirmi isolato e solitario nel presentare le mie opinioni, non essendo nè un sociologo nè un economista.

In verità sono convinto che potremo benissimo dimezzare i consumi, così non si perderebbe tempo per frequentare le palestre per diminuire di peso, le città non sarebbero intasate all’inverosimile di automobili, l’aria sarebbe più respirabile e la coscienza più tranquilla verso chi mangia troppo poco perché il mondo occidentale, che è lo sprecone e il dissipatore di ricchezza, lo depreda dei suoi prodotti e lo ha ridotto alla fame.

Oggi però mi è giunta una voce che mi ha confortato alquanto e mi ha fatto sentire meno solo e meno ingenuo. I soliti osservatori sociali affermano che una delle parole più usate in questo tempo da Obama, il neo presidente americano che rappresenta il Mosè del nostro tempo che tutti sperano che ci aiuti a passare il Mar Rosso, è la parola “sobrietà”

Bravo presidente se continuerai su questo tono faremo tanta strada assieme!

La presenza cristiana nel mondo della cultura costa!

A motivo di un funerale ho “scoperto” la figlia e il marito di una mia “antica” collaboratrice di Radiocarpini, l’interessante avventura radiofonica che mi coinvolse, in maniera forte e talvolta drammatica, per una ventina d’anni del mio recente passato. Col mio abbandono dell’emittente, prima il piccolo esercito di quasi duecento collaboratori si sciolse rapidamente sostituito da un piccolo staff di professionisti pagati, poi è scomparso il marchio ed infine si è annacquata l’identità, tanto che dell’avventura radiofonica non è rimasto quasi più neanche traccia.

Comunque la mia collaboratrice recentemente si è rifatta viva, in occasione di una intervista, poi, in occasione del funerale di un suo congiunto, ho finito per conoscere il marito e la figlia che vive a Milano e lavora all’Università Cattolica.

La mamma, come sempre fanno le mamme, mi ha presentato il suo “gioiello”, in verità credo che sia veramente tale, una ragazza giovane, piacente, sciolta e laureata che lavora nel settore dell’attività bibliotecaria alla Cattolica di Milano

La conversazione si accese subito con naturalezza, soprattutto per il fatto che mi confidò d’appartenere al movimento di Don Giussani.

Comunione e Liberazione e l’Università Cattolica sono stati due temi su cui ho riflettuto recentemente per motivi diversi, per primo, avendo incontrato una “Memores Domini” e per secondo, ho intenzione di dedicare un editoriale su Padre Gemelli, fondatore di tale Università.

Alle mie richieste sull’identità culturale ed ideologica della Cattolica, ella mi disse che purtroppo sta annacquandosi l’identità cristiana di suddetta università, essendo venute meno le offerte dei fedeli e subentrati gli aiuti dello Stato. Peccato!

S’arrischia ancora una volta che la presenza cristiana nel mondo della cultura sbiadisca perché i cattolici non sembrano disposti a pagarne il prezzo necessario!

“Come sarebbe la mia vita se quella culla di Betlemme fosse rimasta vuota?”

Certi peccati, particolarmente gravi, pur confessati, riaffiorano sempre, per cui nasce quasi il bisogno di confessarli ancora. Questo stato d’animo si ripete, per me, non solo per i peccati, ma anche per certe carenze “professionali”.

Predicare, per me, rappresenta un tormento, predicare poi durante le grandi feste cristiane, il tormento diventa sempre più un tormentone. Come fanno tanti preti a ripetere pensieri banali, verità scontate, discorsi fuori corso e per nulla incidenti sulla coscienza e sulla vita della gente normale?

Motivo per cui la ricerca di un qualcosa di valido e convincente diventa affannosa, piena di preoccupazione insistente.

Quest’anno per Natale il problema si ripetè come al solito finché il Signore volle che un filo di luce illuminasse il mio spirito e pian piano approdassi su un terreno che mi è parso solido.

“Gli amici del presepio” portarono il presepio, da metter sotto l’altare della cappella del cimitero, poco dopo l’Immacolata. Così che per una quindicina di giorni sono passato davanti alla culla vuota che attendeva Gesù per il 25 dicembre. In verità mi faceva un po’ di tristezza quella culla vuota, tanto che una mattina, mentre solo soletto, nella chiesa deserta e fredda, guardavo Maria e Giuseppe, che a loro volta erano accanto a quella culla vuota, mi dissi: “Come sarebbe la mia vita se quella culla di Betlemme fosse rimasta vuota?” la mia mente si mise in moto: non saprei da dove sono venuto, perché sono a questo mondo, e a che parasse il mio vivere. Mai avrei potuto immaginare che in Cielo ci fosse qualcuno che mi vuole bene, mai avrei potuto pensare di poterlo chiamare io “Padre”, mai avrei potuto immaginare che Egli è disposto a perdonarmi, ad aspettarmi in fondo alla strada della vita, ad’accogliermi ancora nella sua “casa”! Il mondo senza Gesù sarebbe ben squallido, pieno di mistero e di desolazione.

Quest’anno per Natale dissi ai miei fedeli che ci è stato dato un autentico tesoro e noi corriamo il pericolo di comportarci come sia un mucchio di pietre false.

Un doveroso riconoscimento

Per Natale è venuto a farmi gli auguri Tobia Zordan, uno degli adolescenti che don Gino ha lasciato in eredità alla parrocchia, quando il Patriarca l’ha mandato a Mira a fare il parroco.

La notizia del trasferimento mi giunse inaspettata ed amara mentre il mio giovane cappellano era alla Malga dei Faggi con uno splendido gruppo di una quarantina di adolescenti, tra cui c’era anche Tobia, il ragazzo che ha mantenuto anche dopo vent’anni quel suo volto innocente e sempre trasognato.

Il tutto mi pare cosa dell’altro ieri, mentre in realtà Tobia ha fatto in tempo a laurearsi in architettura, crearsi uno studio in cui lavorano una quindicina d’architetti, vincere un concorso perciò ogni mese insegna una settimana nell’Università cinese di Shangay. Sposare una gentile collega e mettere al mondo un angioletto di bimba che porta un nome da amazzone, troppo impegnativo per una bimba fragile e bella: Camilla.

Tobia come sempre è stato caro e gentile con quel suo parlare accattivante, dal tono caldo e sommesso.

L’incontro si svolse nella hall del don Vecchi, ma durante tutto il tempo un pensiero mi frullava insistente in testa, tanto insistente che dovetti dargli voce: “Tobia, ringrazia tuo padre per non avermi dato il permesso di fare la trentina di stanze progettate nell’interrato sottostante alla hall”. A quel tempo l’architetto Zordan era assessore ai lavori pubblici e, per quanto avesse voluto aiutarmi, le norme erano decisamente contrarie. Avrei costruito una polveriera sotto ai piedi dei 250 anziani del don Vecchi. A quel tempo ci rimasi male, ora finalmente ho capito che facendo il proprio dovere si aiuta il prossimo!

Il riconoscimento della dirittura professionale dell’assessore è giunto tardi, ma era doveroso riconoscerlo!

Povero me! Mi affido alla Provvidenza e navigo a vista!

Don Abbondio si sentiva un fragile vaso di terracotta in mezzo a vasi di ferro e provava tutta la paura di andare in frantumi al primo scossone che fosse capitato nella strada sconnessa e piena di buche che stava percorrendo. Don Abbondio in verità non aveva tutti i torti, lui povero curato di campagna che a mala pena riusciva a tenere a bada la lagnosa e intraprendente Perpetua, aveva ben ragione di preoccuparsi dell’Innominato, di don Rodrigo e dello stesso Cardinale Borromeo. Loro erano gente di mondo, scaltra, forte, abituata a destreggiarsi in una società che era difficile anche a quei tempi.

Io come volete che mi senta tra personalità quali il direttore della ULSS 12 dottor Padoan, del sindaco filosofo Cacciari, che da mane a sera imparte lezioni a Venezia come a Roma, della Regione o della Immobiliare Veneziana?

Chi ha seguito le vicende del “Samaritano” si è certamente accorto come sono stato sbatacchiato qua e là, è già un miracolo che non sia andato tutto in cocci!

Causin vuole donarmi 10.000 metri di terreno a patto che… L’architetto Zanetti mi dice che anche la famiglia Bovo sarebbe stata disposta a fare altrettanto a patto che… Altri affermavano che avrei dovuto consorziarmi con i militari che avevano diritto a costruire… L’Immobiliare Veneziana mi   offre 10.000 metri di terreno. La ULSS con il dottor Padoan interviene dicendo “Costruisco io e poi do la struttura in gestione!” un giornalista del “Gazzettino” scopre poi che il Comune, per non far brutta figura, vuole costruire lui! L’Ive afferma che in un paio di settimane mi avrebbe fornito il cronoprogramma della costruzione che farà l’ente stesso. Ora pare che il dottor Padoan mi anticipi quattro appartamenti e che abbia trovato chi paga l’affitto per un anno, ma il benefattore che l’affianca pare che si fidi di più di un altro ente per la gestione!

Povero me, vecchio, senza soldi, senza veri appoggi, senza chi badi alle mie spalle, e con altri pensieri, mi sento in balia di tutti!

E’ già un miracolo che non sia andato finora in frantumi!

Mi affido alla Provvidenza e navigo a vista!

Dio ci chiede di fidarci di Lui

Tutti sono convinti che un prete più diventa vecchio e più gli riesca facile predicare, potendosi rifare a discorsi già fatti in precedenza.

Per me le cose non stanno proprio così, anzi confesso che più vado avanti con gli anni e più mi diventa difficile e faticoso commentare la parola del Signore.

Nel passato, come d’altronde continuo a fare, quando preparo la predica fisso in un foglio gli appunti, lo schema del discorso che sto per fare. Un tempo li custodivo sperando che mi potessero tornare utili, poi avendo capito che non mi sarebbero più serviti a nulla perché mi sembravano pensieri morti o perlomeno avvizziti, finii per buttarli via.

Anche oggi continuo a fissare i pensieri sulla carta, ma ora a differenza del passato, butto subito gli appunti nel cestino, sapendo con certezza che il pensiero vivo si sviluppa, cresce, si modifica, si adegua alle attese della gente, che vive oggi e poi muore e non serve più!

La quarta domenica di avvento si è letto la pagina di Luca che racconta l’Annunciazione, ossia la proposta che Dio, per mezzo dell’Angelo, fece a Maria. Ho tentato con tutte le mie risorse di aiutare la piccola assemblea, riunita in ascolto attorno all’altare, a decodificare il messaggio, di liberarlo da tutte le impalcature fatte dalla tradizione dalla letteratura e dalla teologia, riducendo l’evento ad una illuminazione integrale, che una brava ragazza ebrea ebbe, illuminazione che sconvolgeva tutti i suoi progetti. Parlai del suo disagio della sua paura e delle sue perplessità, finendo ella però con un atto di fiducia, dicendo a Dio “Eccomi, sono pronta, mi abbandono a te!”

Conclusi tentando di far fare anche agli ascoltatori l’esperienza di Maria che determinò la salvezza.

“Oggi l’Angelo parla a noi, ognuno ha i propri progetti, i propri sogni, la paura, la preoccupazione e la coscienza della propria fragilità. Dio ci chiede di fidarci di Lui, di adeguarsi al suo progetto, di seguirlo sulla sua strada, a noi non resta che dirgli di sì e di fidarsi di Lui”.

Quando terminai non si sentiva neppure un respiro, spero proprio che tutti i presenti abbiano detto di sì al progetto di Dio nei propri riguardi!

Il buon Dio scrive bene anche con la mano sinistra

I regali e le testimonianze di affetto mi giungono sempre graditi, ma ci sono certi doni che veramente mi toccano il cuore.

Quest’anno me ne è giunto uno particolarmente gradito.

Qualche giorno prima di Natale, un’agenzia di spedizioni, mi ha portato, al don Vecchi un dolce ed una serie di confezioni di olio di oliva, tra i più pregiati, prodotti dalla ditta Carli.

Immediatamente ho cercato di scoprire chi mi aveva mandato questo dono natalizio. Con mia sorpresa c’era nella bolla di accompagnamento solamente il nome della famiglia senza ulteriori note, il nome poi di questa famiglia, di primo acchito, non mi diceva nulla. Sì c’erano alcuni cognomi, di gente conosciuta, che gli assomigliavano, ma normalmente chi fa un dono non gioca sulle lettere!

Pian piano emerse il nome di una famiglia con cui ho avuto qualche rapporto, ma precario e certamente tale da non poter immaginare che ci fossero dei motivi per un gesto tanto generoso.

D’altronde sarebbe stato tanto scortese non tentare di ringraziare chi era stato tanto caro nei miei riguardi. Con comprensibile imbarazzo dissi a questa famiglia con discrezione cosa mi era capitato e se loro avessero potuto darmi qualche aiuto.

Compresi immediatamente che il dono veniva proprio da loro. Tale signora mi aveva, nel passato, dichiarato il suo poco entusiasmo per la chiesa, per la fede e per il mondo dei preti. La conversazione che ne seguì è stata ancora più bella del dono; questa creatura mi confidò la sua simpatia per questo povero vecchio prete, un po’ fuori dalle righe, e mi confidò ancora che quello che di buono aveva imparato gli veniva dalla cellula o dalla sezione del partito comunista, che aveva lungamente frequentato!

Per me, che ho frequentato sezioni ben diverse, questa notizia mi è giunta particolarmente cara ricordandomi ancora una volta che il buon Dio scrive bene anche con la mano sinistra!

La televisione che farebbe bene a tutti!

Alla domenica pomeriggio sono sempre combattuto tra il desiderio di concedermi la visione di qualche rubrica televisiva che mi interessa e la necessità di lavorare per “L’incontro”. Normalmente finisco sempre per optare per questa seconda soluzione anche perché al mattino di ogni lunedì si va in stampa!

In occasione delle vacanze natalizie ho fatto un’eccezione, concedendomi il lusso di guardare una parte della rubrica “Alle falde del Kilimangiaro”, condotta da una brava, intelligente e simpatica giornalista televisiva.

Quando ho aperto la trasmissione era già in corso ed ho poi chiuso prima della fine, sempre per lo scrupolo di perder tempo e di non fare fino in fondo il mio dovere.

La ventina di minuti di svago mi ha permesso di vedere due “pezzi” che mi hanno fatto del bene ed hanno favorito la dolce atmosfera natalizia di cui pur io sono desideroso.

Il primo episodio riguardava una cooperativa, sorta all’interno di un carcere italiano, che descriveva la vita di un gruppo di detenuti impegnati nel settore della pasticceria.

Un detenuto, dopo aver vissuto cinque anni in isolamento (penso che la deve aver fatta proprio grossa!), arrabbiandosi con il mondo intero, ha trovato un motivo per vivere e per rigenerarsi, con questo lavoro. Le parole semplici e sentite di questo detenuto, mi hanno letteralmente commosso e convinto che veramente il Verbo ha scelto di abitare nel cuore dell’uomo, di qualsiasi uomo; l’incarnazione è veramente una bella e splendida realtà.

Il secondo episodio, che ha commosso la giornalista Licia Colò che ama veramente gli animali, ci ha mostrato come un cane ha tentato di trascinare in zona di sicurezza un altro cane investito da un auto ed un leone allevato in casa da due fratelli, messo poi in libertà nella foresta, dopo un anno di vita selvaggia, abbraccia con commovente tenerezza i fratelli che si erano presi cura di lui.

Questa è la televisione che amo e questa è la televisione che farebbe bene a tutti!

Cosa significa oggi “buon Natale”?

Il mio rapporto con l’Annunziata, la giornalista della televisione, potrei definirlo con una frase fatta “un rapporto di odio ed amore”.

Ben si intende che nessuna formula riesce a definire qualcosa di personale che in realtà è unico e irripetibile, comunque, tutto sommato, spesso l’ammiro, questa donna, per la sua intelligenza e la sua preparazione professionale e talvolta la rifiuto per la sua faziosità.

L’ultima volta che l’ho vista e sentita, conduceva un dibattito sulla moralità dei politici tra Violante e Flores D’Arcais. Si è destreggiata con abilità ed intelligenza tra Violante, che ora fa il moderato e D’Arcais che fa il massimalista nella maniera più intransigente ed assoluta.

Comunque a parte l’argomento e gli interventi intelligenti ed arguti, mi ha fatto pensare la conclusione, quando come commiato ha augurato più volte ai due contendenti “Buon Natale”, augurio ricambiato con calore e cordialità sia dall’uno che dall’altro, fatto che mi ha posto una domanda che è abbastanza naturale per un prete quale io sono: che cosa significa “Buon Natale” per l’Annunziata, per Violante e per Flores D’Arcais? Tutte e tre militanti nella gamma ormai sfumata e vasta della sinistra italiana, che naturalmente non si evidenzia per l’aderenza al messaggio cristiano. Cosa significa il Natale per la massa di gente che si è messa in viaggio, anche in questo anno di crisi economica, per quella più grande ancora che ha affollato ipermercati e botteghe per festeggiare il Natale, per chi ha affollato la chiesa per la messa di mezzanotte, per chi, incontrandosi, si è stretta la mano e fatto gli auguri, per chi ha parlato dell’incarnazione rifacendosi a vecchi schemi spesso ininfluenti sulla vita reale?

Io non so rispondere a queste domande così complesse. Spero solamente che il Natale di quest’anno abbia perlomeno ridestato il desidero di solidarietà, di attenzione ai deboli, di speranza e di desiderio di un mondo migliore.

Spero che almeno sia nell’Annunziata che in Violante, che in Flore D’Arcais, che in ogni uomo abbia almeno fatto emergere la parte migliore del cuore che spesso è seppellita sotto tanti fallimenti e tante cattiverie!

Il matrimonio oggi

Una quarantina di anni fa una signora di una buona famiglia di Mestre, notoriamente cattolica, mi confidò un suo profondo turbamento perché un suo congiunto aveva invitato ad una festa di famiglia una signora che era sposata solo civilmente con chi la presentava come sua moglie.

Non ricordo bene ma mi pare che per questo motivo suddetta signora si sentì in dovere di abbandonare la festa di famiglia per non avallare un rapporto che la chiesa non poteva ritenere valido non essendoci stato il sacramento.

Sono passati neanche cinquant’anni e il costume civile e religioso è mutato in maniera radicale. Ora per le convivenze c’è perlomeno il pudore o forse una forma di presunta professione di fede laica nel chiamare compagno o compagna il partner, ma per il matrimonio civile ormai non si avverte alcuna differenza dal matrimonio religioso, mentre i rapporti sentimentali non dichiarati sono coperti dalla foglia di fico chiamata amicizia.

Questo vale negli ambienti estranei alla chiesa, ma sono pure pratiche e comportamenti usati anche negli ambienti di carattere religioso.

Un tempo le deroghe al matrimonio religioso erano eccezioni, ora sono diventate prassi consolidate ed accettate sia dalla gente lontana dalla chiesa, ma anche dai praticanti.

Questa mentalità è stata certamente determinata da un secolarismo diffuso, ma anche favorita da una esasperata pretesa del clero di corsi di preparazione spesso inconcludenti ed artificiosi, che si rifanno ad un clericalismo che la gente normale non sopporta più.

C’è da augurarsi che pian piano si arrivi ad un equilibrio di rispetto, e a pretese sacerdotali meno rigide e più duttili e comprensive della sensibilità personale di ogni individuo.

Il Signore evidentemente chiama ancora!

Qualche giorno fa ebbi modo di avere un colloquio con un personaggio di rilievo nel mondo delle aziende cittadine di pubblico interesse.

In quell’occasione questo personaggio mi presentò un funzionario di grado elevato dell’Ente da lui diretto. Il discorso verteva su un servizio che da molto tempo mi sta a cuore perché rappresenta una delle tantissime tessere carenti nel mondo della solidarietà a Mestre.

Da tanto tempo vado ribadendo che la nostra città, relativamente giovane, è carente di tantissimi servizi dei quali altre città, più antiche, più intraprendenti e più generose, ne sono fornite da tantissimi anni.

Mestre a questo riguardo è assolutamente svantaggiata, non solamente per la sua “giovane età”, ma pure per la carenza di una classe dirigente locale, di un ceto di benessere economico consolidato, di una amministrazione pubblica che vive in isola e, non da ultimo, di una chiesa che ha i responsabili a Venezia e perciò lontana dai problemi reali del popolo mestrino. Ebbene questo funzionario, per farmi capire che condivideva le mie istanze, in un momento confidenziale, mi disse che apparteneva ad una associazione di laici consacrati; la cosa mi fece tanto piacere perchè potrebbe sembrare che in questo momento storico, le scelte integrali dell’ideale evangelico stanno letteralmente scomparendo.

La sera dello stesso giorno, alla trasmissione della rubrica di Santoro, venni a sapere che un magistrato, di cui si stava parlando, anche lui disse candidamente di appartenere alla stessa associazione a cui mi si fece cenno al mattino e a cui pare appartenga pure il Governatore della Lombardia.

Il Signore evidentemente chiama ancora e sembra che le risposte giungano da un mondo che un tempo era di esclusivo appannaggio dei laici, dei massoni o dei beneficiati della sinistra!

Impegnarsi per gli altri è sempre più difficile in questa società

Mi pare che Cuccia, proverbiale governatore di Medio Banca, rappresentasse l’icona eterna del responsabile di questa prestigiosa banca alla quale facevano riferimento le principali aziende del nostro Paese.

Un vecchio, curvo, metodico, assiduo al lavoro che per infiniti anni governò con saggezza e determinazione questo istituto bancario. Arrivò a tarda età, sempre più curvo e taciturno, ma infine dovette cedere anche lui lasciando ad altri questo compito immane. La fatica, la costanza e la determinazione di Cuccia non fu però inutile.

Io non ho nulla della austera ed emblematica figura di Cuccia, ma sento ogni giorno di più il peso e la responsabilità di portare avanti nella nostra città e soprattutto nella nostra chiesa il compito complesso e gravoso di rendere  visibile e fattiva la carità predicata da Cristo e lasciandola come eredità inamovibile. Predicare la carità cristiana nei fervorini e nei sermoni religiosi spesso è pressoché inutile e talvolta perfino ipocrita, tradurre il messaggio cristiano della solidarietà in operatività, in strutture, in servizi è terribilmente impegnativo.

Comunque è bene che tutti ci ricordiamo almeno due passaggi del discorso di Cristo a questo riguardo: “Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre” e noi sappiamo fin troppo bene quale esso è. Il secondo: Gesù nella parabola approva il figlio che dice di no d’andare a lavorare nella vigna, ma poi pentitosi ci andò.

Oggi calate delle nubi della mistica l’impegno a “farsi prossimo” è terribilmente difficile e complicato: si parano subito davanti i soldi, le pratiche burocratiche, i permessi, i consigli di amministrazione, la politica, la burocrazia, i vicini di casa, i professionisti, i colleghi, i giornali e soprattutto le norme!

Ne so io qualcosa con Campalto, sono passati sei mesi abbiamo impegnato un sacco di riunioni, di parole e di progetti e non solamente non abbiamo messo giù una pietra, ma neanche ne abbiamo tolta una sola della struttura che dobbiamo abbattere per iniziare la costruzione.

Prima della fine ne dovremo fare di sacrifici!

“Sono troppo giovane per fare cose troppo grandi”!

Ricordo di aver letto che l’abitudine è un nemico sempre in agguato, pronto a svuotare di contenuto anche i segni più sacri e più sublimi, riducendoli a dei banali gusci vuoti.

Un gesto umile, quale può essere un bacio pulito e casto, più esprimere il sentimento più alto e nobile qual è quello dell’amore umano. Se però quel bacio diventa una pura formalità o lo strumento per provare solamente una sensazione gradevole scade della sua sacralità per ridursi a qualcosa di banale ed insignificante.

Se tutto questo vale per gli aspetti del sentimento, dei rapporti umani, a maggior ragione l’abitudine diventa un nemico insidioso e pericolosissimo per quanto concerne i riti religiosi ai quali si rifanno i più grandi misteri cristiani.

I riti di culto sono estremamente ridotti all’essenziale e quindi quasi disincarnati e riassuntivi e soprattutto sono ripetitivi e perciò il pericolo che non veicolino più ricchezza umana e spirituale è veramente estremo.

Talvolta mi capita di vedere alla televisione riti suntuosi celebrati nelle cattedrali in cui pare emergere forte il senso del mistero e del divino, ma quando invece la celebrazione e spoglia di ogni suntuosità e la cornice è estremamente povera, quale può essere quella della mia povera cappella cimiteriale, viene a mancare anche lo sfondo che dà suggestione!

Tutte queste carenze possono essere supplite solamente dalla fede e dalla tensione interiore del celebrante, dalla proprietà delle vesti e dell’ornato e dalla capacità appunto del sacerdote di trasmettere alla comunità degli oranti la ricchezza e la sublimità del mistero che si sta celebrando.

Quando penso a questa responsabilità, a tale compito, mi sento impaurito, angosciato ed indignato sapendo che le mie parole ed i miei gesti debbono almeno far intuire che in quel momento e in quel luogo avvengono cose sacre e sublimi!

Come capisco Geremia il quale dice al Signore: “Sono troppo giovane per fare cose troppo grandi, almeno il tuo angelo bruci con il carbone ardente le mie labbra perché possano dire le tue parole, Signore!”