Non sono di sinistra, di destra e neppure di centro

Quando studiavo filosofia al liceo, fui molto colpito da una lezione di don Vecchi, in cui con quell’estro che gli era proprio, ci spiegava e poi ci metteva in guardia dalla realtà che egli definiva nominalismo.

Chi vuol ragionare bene deve mettersi d’accordo non tanto sui termini, quanto sui contenuti di certe parole.

Ad esempio parlare di amore è la cosa più difficile di questo mondo, dietro quella etichetta ci possono essere i contenuti più diversi, anzi opposti, motivo per cui dialogare con parole che non hanno lo stesso significato è quanto di più assurdo ed inutile che ognuno possa fare.

Per non parlare di democrazia, di libertà, di progresso, di bellezza e di quant’altro. O prendi in mano lo Zingarelli e t’accordi sul significato dei vocaboli, o altrimenti perdi tempo inutilmente ed arrischi di baruffare.

In merito a queste mie povere riflessioni, nel mio “diario” di vecchio ottantenne, con poco retroterra culturale, nascono delle reazioni.

Questo è normale. La maggioranza ammira, forse l’unica cosa pregevole: l’onestà.
Qualche altro il coraggio di dire la propria opinione, ma questo lo ritengo un dato scontato perchè, almeno in Italia, tutti dicono ciò che pensano; ci vorrebbe altro che un prete avesse paura di farlo. Poi più volte ho affermato che non godo di rivelazioni, non pretendo di dire verità assolute, non ho soluzioni miracolistiche da proporre.

C’è invece un signore, che mediante messaggi su internet tenta di incasellarmi come un prete di sinistra. Non lo sono, non sono neanche di destra e neppure di centro. Sono solamente un uomo che cerca la verità, che ama la povera gente concretamente che se scopre qualcosa di buono, con entusiasmo infantile, lo dice a tutti, che è infastidito dalla burocrazia e dal formalismo, che ama una chiesa povera e libera, che rifiuta la violenza, che non ha paura di nessuno, che non vorrebbe far del male neppure ad una mosca, che ama il Signore, il prossimo, e che sogna un mondo nuovo.

Durante tutta la mia vita c’è sempre stato qualcuno che ha tentato di mettermi in uno di quei scomparti della cassettiera della vita, non ci sono mai stato e per scelta e convinzione ho mantenuto la mia libertà. Ognuno è libero di classificarmi come gli aggrada, ma io rimarrò comunque me stesso, gli piaccia o no!

Non serve ed è stolto essere troppo apprensivi!

Siamo in tempo di grandi cambiamenti non credo che i laboratori pastorali stiano lavorando su un nuovo progetto di comunità cristiana a livello diocesano, anzi sono più propenso a pensare che invece stiamo rattoppando un tessuto sdrucito e con grossi strappi su modelli sorpassati ed ormai impossibili.
La realtà invece costringe i responsabili a nuove strategie.

Io sono completamente all’oscuro di tutto; conosco appena le difficoltà, le forze di cui dispongono gli strateghi della pastorale veneziana e le motivazioni delle scelte.

Riesco solamente ad intravedere i cambiamenti, le sostituzioni, l’assemblaggio delle comunità parrocchiali e non sempre riesco a connettere le scelte, ad intravedere le motivazioni del movimento delle pedine sulla scacchiera diocesana.

Talvolta ho perfino vergogna di sentirmi quasi felice per essere in panchina e fuori gioco e quindi non più responsabile.

Qualche giorno fa mi è venuta la tentazione di invitare a pranzo un mio vecchio collaboratore, che normalmente è estremamente aggiornato sulle vicende dei preti e della chiesa, perché mi informi e mi aiuti a capire le “mosse”. Poi, punto dal rimorso e dalla vergogna, vi ho rinunciato pensando al proverbio spagnolo: “Il Signore riesce a scrivere diritto e bene anche su righe storte”.

La provvidenza spesso, o molto di frequente, guida e porta al bene anche le mosse più sbagliate dei giocatori.

In questi giorni penso e traggo grande motivo di consolazione constatando che un prete che era stato messo fuori gioco, perché non se ne condivideva l’impostazione e le scelte, in realtà nel nuovo ruolo si sta rivelando un ottimo operatore, intelligente, capace di leggere gli eventi e capace di anticipare con scelte oculate i tempi nuovi.

Ho concluso che è assolutamente stolto essere esageratamente apprensivi e spaventati da quella che può sapere di sconfitta irrimediabile, perché in realtà è solamente il buon Dio che aggiusta la lentezza e la poca apertura dei suoi ministri!

Ammiro il giornale-rivista “Piazza Maggiore” e i fini che si propone!

Mi hanno appena portato “Piazza Maggiore”, il grande giornale-rivista edito dalla Fondazione Duomo.

Monsignor Bonini, due-tre anni fa, ha dato vita a questo periodico che favorisce il dialogo tra la civica amministrazione, le migliori realtà culturali ed economiche della città e la chiesa mestrina.

Quella di don Fausto è stata una intuizione intelligente e felice, creando uno strumento nuovo, sotto ogni punto di vista, che mette a confronto gli uomini, le idee dei protagonisti della vita cittadina e le tessere del vasto mosaico che compone sia la società civile che quella religiosa in maniera tale che pian piano, da questo confronto emerga il volto di una città nel senso completo del termine e di una chiesa, che pure faticosamente e in maniera forse non del tutto consapevole, sta cercando un progetto ed una voce comune e soprattutto faccia dialogare queste due realtà prima sul piano delle idee e dei progetti e poi in quello delle opere.

Mestre si trova veramente in una situazione paradossale; una non città ed una non chiesa, che mai, per vie istituzionali, avrebbero trovato un volto comune, perché Venezia, la vecchia suocera, non favorisce, per motivi anche comprensibili, la maturazione di una Mestre adulta e con coscienza cittadina.

L’escamotage del parroco di San Lorenzo, è stato quanto mai saggio ed intelligente favorendo la crescita reale, perché una volta maturata la coscienza civica ed ecclesiale, non ci sarà di certo legge che tenga per non riconoscere una realtà ormai matura.

E’ stato perso tanto, troppo tempo e nonostante gli sforzi dell’avvocato Bergamo e di qualche altro esploratore solitario, per ottenere una autonomia formale, che Venezia non ha mai voluto e Mestre non era pronta a ricevere.

L’opera discreta e concreta che il parroco del Duomo sta realizzando gli obiettivi che gli altri si sono posti, ma che sempre sono miseramente falliti.

Per quanto mi riguarda, non provo che ammirazione ed entusiasmo di fronte ad un progetto ambizioso, ma necessario ed invito i concittadini a leggere “Piazza Maggiore” che è lo strumento altrettanto intelligente che lo sta maturando.

Parrocchie: catechesi, liturgia e… una carità zoppicante

Da un paio d’anni raccogliamo gli strumenti di supporto per gli infermi per metterli a disposizione di chi ne ha bisogno senza ricorrere a compilazioni di moduli, di presentazione di ricette mediche e di Cud e di mercanzia del genere.
Le cose vanno benino!

Pian piano pare che riusciamo ad ottenere quello che poi ci è richiesto, ma mentre abbiamo una certa carenza per gli esterni, in compenso c’è sovrabbondanza di comode, di stampelle e di treppiedi.

Qualche giorno fa, facendo visita al magazzino, piuttosto angusto, di questo materiale, mi accorsi che in un angolo c’era un treppiedi con una gambetta spezzata, non serve a niente bisogna che lo buttiamo perché solamente l’appoggio su tre gambe offre la stabilità richiesta.

Mentre pensavo di chiedere al responsabile di portare alla Vesta lo strumento che non poteva più servire, per una strana associazione di idee, ho pensato alle molte, troppe parrocchie che dovrebbero, se fosse possibile, essere mandate alla Vesta per essere rottamate perché sono mancanti di un elemento del treppiede che è parte integrante della sua struttura.

Notoriamente i tre supporti della parrocchia sono: catechesi, liturgia e carità. Il peduncolo della carità per molti sembra però quasi un optional e perciò o manca completamente o è sostituito malamente con rimedi di fortuna, tanto che un elemento qualificante la comunità cristiana, anzi uno dei più apprezzati dall’uomo d’oggi per alcuni sembra non importante tanto da essere abbandonato senza tanti drammi interiori.

Qualcuno si illude che debba provvedere lo Stato, qualche altro lo delega a strutture diocesane e qualche altro lascia che cammini come uno sciancato, tirandosi avanti zoppicando.

Non so se questa mancanza sia ritenuta da Rosmini una delle cinque piaghe della chiesa dei tempi nostri, se non lo fosse bisognerebbe denunciarne la presenza, perchè è certamente una causa dei suoi malanni.

“Primo obiettivo è fare il bene, ultimo chiacchierare sul bene da fare!”

L’amicizia è un modo per stabilire rapporti cordiali e fiduciosi verso tutti, ma in particolare verso chi avverti abbia una consonanza di idee e di convinzioni. Tutto questo vale per le persone del nostro tempo, ma egualmente anche nei personaggi del passato.

Io, per esempio, mi sento molto vicino alla sensibilità e al pensiero di Sant’Agostino, meno per San Tommaso, il grande filosofo e teologo, provo tanta simpatia per l’apostolo Giacomo, uomo concreto e con i piedi per terra piuttosto che per l’apostolo San Giovanni, che mi pare abbia sempre la testa tra le nuvole! Non penso che con ciò faccia un torto né a San Tommaso D’Aquino né a San Giovanni evangelista, l’apostolo tanto amato da Gesù.

La mia amicizia scaturisce probabilmente da un’assonanza di sensibilità e di idee.

In queste ultime settimane una delle tre letture domenicali della S. Messa, è dedicata a San Giacomo e mi fa felice che egli, pur senza saperlo, faccia da supporto ai miei convincimenti più profondi e mi garantisca che non sono fuori strada.

In questi giorni credo debbano fischiare le orecchie a San Giacomo perché lo penso cento volte al giorno per quella sua frase: “La fede senza le opere è sterile!”

Quante volte ho pensato che al buon Dio gli debba interessare proprio ben poco l’acqua santa, l’incenso, gli inchini e le cerimonie in genere, ma invece gli sia quanto mai gradito ed approvi chi si occupa degli ultimi, si fa carico dei fragili e di quelli che non contano.

Al Padre non può che essere gradito che le sue creature si aiutino, che chi è più intelligente, più forte, più ingegnoso si dia da fare anche per chi è incerto ed impacciato, per chi non tiene il passo, per chi non sa sbrogliarsela da solo.

Il mio esercito di volontari zoppica alquanto a livello della frequenza al culto, della comprensione della liturgia e del tempo dedicato alla preghiera, ma in compenso sgobba, fatica e s’impegna!

Talvolta penso perfino di fondare una nuova congregazione che abbia come prima regola: “Primo obiettivo è fare il bene, ultimo chiacchierare sul bene da fare!”

Non sono però proprio sicuro di ottenere l’avallo pontificio!.

Comunque possiamo procedere anche senza avallo perché all’ingresso del Cielo ci sarà San Giacomo a farci entrare!

Almeno ammettessero gli errori…

Ho letto con una certa curiosità qualche articolo sulla vicenda del direttore dell’Avvenire. Confesso che non sono riuscito a capire cosa ci sia sotto a questa vicenda e i motivi che ha determinato questo mezzo uragano sociale all’inizio dell’autunno.

Meno ancora ho capito che la vita privata non debba essere una componente che misura la consistenza morale e sociale di un uomo impegnato nelle vicende del nostro Paese.

Che Berlusconi non sia un santo l’ha detto lui stesso, non credo neanche che si debba pretendere la “santità” da un capo di governo, basterebbe l’onestà, il rigore morale la correttezza familiare, questo dovrebbe essere il minimo requisito per porsi a capo di un popolo che ha soprattutto bisogno di serietà morale e di testimonianza.

Forse neanche Boffo, da quel poco che ho capito, pare sia un santo anche se ha sempre bazzicato per le sacrestie e nelle Curie vescovili.

A differenza di Berlusconi, lui mi pare abbia l’aggravante di non ammetterlo pur di fronte ai documenti del tribunale. I vescovi poi, che almeno all’inizio della loro carriera, dovrebbero aver confessato qualche volta, avrebbero dovuto sapere quanto fragile sia l’uomo, se anche la Bibbia afferma che anche il giusto pecca sette volte al giorno!

Perciò hanno fatto una figura un po’ pellegrina dando patenti di moralità solo perché l’interessato era un loro dipendente.

La sinistra a sua volta ha fatto ancora una volta una brutta figura pretendendo che la destra non faccia quello che essa ha sempre fatto e la destra non si è dimostrata migliore seguendo anch’essa i cattivi esempi della sinistra.

La misericordia di Dio è, come si sa, tanto grande, io assolverei tutti se si dichiarassero pentiti e decisi di non ricorrere negli stessi peccati o almeno tentassero di non farlo!

Una lettura che m’ha fatto riflettere

C’è tutta una letteratura che riguarda le abitudini, i pensieri e i comportamenti degli anacoreti e dei monaci del medio oriente, vissuti in solitudine, penitenza e preghiera, prima che nascessero i cenobi e i monasteri dei grandi ordini monastici quali i benedettini, i francescani i domenicani, i Servi di Maria e di altri ancora.

Di solito sono racconti, aneddoti, leggende assai piacevoli, che si rifanno a certi clichè e che normalmente vertono sull’ascetismo cristiano, maturato in relativa vicinanza alle origini di quel mondo che si rifaceva ai consigli evangelici: povertà, castità, obbedienza.

Ogni tanto mi capita di incontrarmi in qualche volumetto riguardante questo singolare aspetto del cristianesimo, più spesso mi capita di leggere qualche pezzo riportato da periodici di ispirazione cristiana.

Confesso che leggo volentieri questi discorsi perché sono spesso soffusi di saggezza e di una sana spiritualità.

Ultimamente mi è capitato di leggere il dialogo di un giovane aspirante con un vecchio monaco carico di anni e di sapienza.

Il giovane chiedeva al maestro quale fosse la formula migliore di preghiera gradita al Signore. Era la preghiera fatta con i salmi, era la preghiera del cuore, era la preghiera comunitaria, era la preghiera che nasceva dalle circostanze? Il vecchio monaco tentennava il capo un po’ perplesso ad ogni indicazione, facendo osservare i limiti e le insidie di quelle forme di adorazione. Poi, pensoso disse al giovane fratello in ricerca spirituale: “L’altro giorno ho visto e sentito un contadino, che aveva un campo vicino al mio romitorio, che imprecava contro il cielo e se la prendeva con Dio con parole amare, astiose e quasi di sfida per l’arsura che gli stava bruciando il campo. Vedi forse quel contadino stava pregando davvero!”

“Ma padre, quello l’ho sentito anch’io, ma bestemmiava, non pregava!” – “No figliolo, quel contadino credeva veramente in Dio, dialogava con parole vere e sentite, non recitava parole colorate inviando in cielo bolle iridiate di sapone, come fan tanti uomini di chiesa!”

Il discorso mi è interessato e piaciuto assai; se la preghiera non è un dialogo vero, con parole serie su problemi sentiti, con sano realismo, sono del parere che è un perditempo inutile ed illusorio.

Se noi poveri uomini non sappiamo che farcene delle chiacchiere fatue ed inconcludenti, al Signore credo piaceranno meno ancora!

Il catechismo e una cristianità in difficoltà

Non ho abbandonato la vecchia abitudine di leggere i bollettini parrocchiali delle varie comunità cristiane della nostra città.

Talvolta sono stato forse troppo esigente nel pretendere idealmente che questi strumenti di informazione e formazione siano fatti bene, tengano conto della sensibilità della gente del nostro tempo e contemporaneamente ottemperino alla regola fondamentale di questi strumenti di comunicazione di massa.

Ad esempio che la “predica” non occupi tutto lo spazio, ma non manchi l’informazione specifica della comunità da cui il foglio è espresso.

Ho notato in queste ultime settimane di inizio di autunno, d’apertura delle scuole, e d’avvio dell’anno pastorale che, in quasi tutti i fogli che mi sono capitati tra le mani, i parroci pretendevano che i genitori iscrivessero i loro ragazzi alla scuola di catechismo, fissando per questo adempimento giorni ed orari.

Qualcuno ha motivato questo invito perché, non potendo la parrocchia attingere i dati dall’anagrafe del comune a motivo delle norme sulla privacy, erano costretti a fare queste richieste, altri invece sembravano voler sottolineare che i genitori dovevano fare una scelta ben precisa da onorare.

Io non sono mai stato di questo parere, finchè sono riuscito a convincere i miei diretti collaboratori, scrivevo ai genitori fornendo loro il giorno, l’ora del catechismo, il nome dell’insegnante e la classe del patronato dove si sarebbe svolta la lezione e questo per i bambini della prima elementare ai giovani universitari.

Da un lato perché la visita annuale a tutte le famiglie della parrocchia mi permetteva di avere un’anagrafe parrocchiale assolutamente aggiornata e da un altro lato davo per accertato che la scelta di istruzione ed educazione religiosa del figlio i genitori l’avevano fatta chiedendo il battesimo.

Il provocare i genitori a scegliere continuamente, da un lato costringe la gente infastidendola, perché già tanto impegnata, ad una ulteriore incombenza burocratica, da un altro dato arrischia di svuotare di significato scelte ben più importanti prese precedentemente.

Che la nostra società stia progressivamente secolarizzandosi è un dato di fatto, ma ho l’impressione che molti preti stiano dando una mano a smantellare la cristianità nel tempo; la stragrande maggioranza dei battezzati non ha poi troppa fretta di uscire dal grembo della chiesa, e se talvolta lo manifesta non è detto che sia dalla chiesa di Cristo, ma invece da quella costruita da una certa società e da una tradizione, che forse appartengono solamente al passato.

Fare nostra la Parola, non solo ascoltarla ma viverla come sprono!

Questa mattina mi sono imbattuto in uno di quei brani del Vangelo che fanno accapponare la pelle, tanto sono impegnativi.

Sembra, leggendo le affermazioni categoriche e taglienti di Cristo, che Egli ti voglia veramente provocare e metterti con le spalle al muro: “Amate i vostri nemici – fate del bene a coloro che vi odiano – benedite coloro che vi maledicono – pregate per coloro che vi maltrattano – a chi ti percuote la guancia destra porgi anche l’altra – a chi ti toglie il mantello dagli anche la tunica – dà a chiunque ti chiede – a chi ti prende del tuo non richiederlo – non giudicate – non condannate – date..” ecc.

Ho letto meglio che potevo il testo e le poche creature presenti, quiete e tranquille hanno ascoltato come Gesù ci avesse rivolto delle parole carezzevoli o ci avesse fatto dei complimenti.

Talvolta ho la sensazione che i cristiani non prendano per nulla seriamente quella che noi preti, giustamente proclamiamo con enfasi: “Parole del Signore!”
C’è qualcosa che non quadra in questo comportamento.

Questa mancata reazione e questa, almeno apparente assuefazione, a parole che dovrebbero indicare la rotta ai discepoli di Cristo, costituiscono un problema che credo dovremmo affrontare in maniera tale che la parola di Cristo diventi determinante per chi sceglie Gesù come maestro e guida.

C’è poi da chiarire ed inquadrare queste affermazioni così categoriche di Cristo.

Gesù con queste regole circa la carità, propone la sua utopia, ossia la meta altissima e sublime a cui tendere, anche se consapevole che noi mai la realizzeremo compiutamente.

Noi cristiani, perlomeno dovremmo essere convinti che l’utopia di Cristo è quanto di più sublime si possa e si debba proporre all’umanità, per questo motivo Gesù ha avuto il coraggio di proporla, anche se questa vetta da raggiungere provoca le vertigini.

Secondo aspetto, ognuno dovrebbe maturare la convinzione e il proposito che è giusto e doveroso fare ogni sforzo per procedere verso questa vetta e che è sempre possibile spostare in avanti i paletti, battere i record finora raggiunti.

Salvo d’Aquisto, padre Kolbe, madre Teresa di Calcutta in questi ultimi decenni sono stati dei campioni in assoluto!

Ebbene i cristiani devono convincersi e devono impegnarsi, o per lo meno superare i propri records, pur sapendo che sarà estremamente impegnativo e difficile e perciò ci vorrà uno sforzo continuo e quanto mai serio!

Parole inascoltate ma forse non necessarie

Quando il vescovo ausiliare monsignor Pizziol, ha accettato la proposta del Comune di costruire una chiesa provvisoria affinché anche il cimitero di Mestre avesse una struttura adeguata al numero di abitanti e al ruolo che la città ha, ho supposto che la Vesta-Veritas che realizzerà il progetto chiedesse la collaborazione del sacerdote che la gestirà. Una consulenza e perlopiù gratuita dovrebbe essere una cosa non solo opportuna ma anche gradita.

Preoccupato che non si facessero spese inutili, o non in linea con le esigenze liturgiche, scrissi subito una lunga lettera al responsabile delle strutture cimiteriali per dare qualche suggerimento e per proporre alcune piccole soluzioni migliorative, non onerose, ma anzi tese al risparmio.

Questo avvenne il 4 agosto quando cominciarono i lavori di sbancamento e l’inizio di quelli interessati la costruzione della platea. Attesi una cenno di risposta, ma tra la posta non vidi mai il logo della Vesta-Veritas.

Confesso che cominciai a fare qualche giudizio temerario, supportato dai rapporti precedenti non sempre positivi.

Se non che un mese dopo con estrema sorpresa m’è ritornata la lettera, in cui il postino che neppure s’è degnato di indicare la motivazione della mancata consegna.

Forse mancava il numero civico, ma la Vesta rappresenta in via Porto di Cavergnago una cattedrale nel deserto.

Oggi non si può purtroppo pretendere la serietà professionale specie in certi enti, nonostante le “grida” del ministro Brunetta.

Quello che però mi ha fatto rimordere la coscienza è stata la mia non completa fiducia in chi si è pur sobbarcato un impegno rilevante nei riguardi dei credenti e mio in particolare.

Il buon funzionamento della società ha come base la fiducia tra i vari operatori impegnati per il bene comune e la sinergia degli apporti di lealtà spesso diverse.

Nel lontano passato quando mi parve che certe amministrazioni locali considerassero i cattolici cittadini di serie B, operai per molti anni in maniera totalmente autonoma. Sembrandomi poi cambiato il comportamento del “pubblico”, mi convertii alla collaborazione e tuttora perseguo questo obiettivo, pur provando talvolta tentennamenti e tentazioni come è stato per la chiesa del cimitero.

Intromissioni e colli torti

Ho sempre rivendicato convinto, che la chiesa ha non solamente il diritto, ma anche il dovere di esprimere il suo parere sui problemi dell’uomo e della società ed in particolare ha questo dovere verso i cristiani.

Per gli stati e gli uomini del mondo intero è certamente un vantaggio ascoltare e tenere conto del pensiero di una realtà così antica e così saggia, e per i cristiani, oltre un vantaggio è un dovere preciso ascoltarla, attuare negli ambiti nei quali vivono ed operano quanto essa va insegnando.

Detto     questo, a scanso di ogni equivoco, la società, lo Stato e tutti gli enti impegnati a fare leggi e stabilire ordinamenti hanno tutto il diritto di agire in assoluta autonomia trovando con il dialogo i punti di convergenza tra pensiero e culture diverse che compongono le varie società.

Tutto questo non è una dottrina ma un fatto assodato e ribadito ad ogni piè sospinto fra gli uomini della chiesa e dello Stato.

In pratica però in Italia c’è una situazione particolare, “avendo in casa” la chiesa.

Se posso esprimermi con un’ espressione un po’ fantasiosa, in Italia lo Stato sembra avere una “suocera” in casa che si intromette un po’ troppo e finisce per irritare più che aiutare. Inoltre, continuando con questa immagine pare che alla suocera s’aggiungano interventi, più o meno opportuni, di una serie di “zitelle” ognuna delle quali vuole dire la sua e non sempre opportunamente.

Questa situazione talvolta favorisce un certo anticlericalismo che altrimenti non si capirebbe.
Il caso Boffo, però non è il solo ne sarà l’ultimo ne è una prova!

Pur amando la chiesa, a parer mio, non bisogna chiudere gli occhi sui suoi difetti.

Rosmini con le sue “cinque piaghe della chiesa” credo che abbia fatto più bene che tanti colli torti che non hanno mai trovato il coraggio e capito il dovere di dissentire, che l’amore è una cosa e la discrezione, la saggezza e il rispetto sono un’altra!

Cavour ha proposto una regola con la sua “libera chiesa in un libero Stato!”

Ora però penso sia tempo di fare ancora un passo avanti!

Imparare a vivere appieno l’avventura della settimana

Teologi e liturgisti, con ragionamenti seri e documentati, sono soliti affermare che la settimana comincia con la domenica. Ci sono dei bei discorsi che ho sentito fare per i quali la domenica è la Pasqua della settimana e la celebrazione della resurrezione che illumina il tempo e le vicende dell’uomo.

Io non ho nessun motivo per dissentire da questi convincimenti e da queste argomentazioni e perciò accetto senza difficoltà alcuna questo dato di fatto a livello religioso.

Detto questo, per non scomodare alcuno e per non innescare un dibattito religioso, che poi non mi interessa punto, confesso però che io per istinto e per una strana sensazione esistenziale, che mi pare sia condivisa da molti, sento il lunedì come inizio della settimana.

Alla domenica porto all’altare la fatica e i problemi della settimana trascorsa, per partire al lunedì per la nuova breve avventura settimanale.
Per tutto questo non penso di scomodare la teologia, né tanto meno avverto di peccare.

Molto spesso, nel breve sermone del Vangelo, sento il bisogno di invitare i fedeli, che con me celebrano la lode del Signore, di partire con entusiasmo, di mettere a fuoco gli obiettivi per la breve impresa e di partire con coraggio e con la disponibilità a fare comunque la volontà del Signore.

Questa mattina, buttando lo sguardo un po’ lontano, aggiunsi un pensiero su cui avevo meditato all’alba del nuovo giorno: cioè dissi al mio piccolo gregge, che la vita non procede a casaccio, in maniera fortuita o occasionale, ma sempre rientra nel grande progetto del Signore, perciò invitai a pregare per tutti coloro che avremmo incontrato durante i sette giorni che sarebbero seguiti, avvertendo che ogni uomo o donna, giovane o vecchio che avremmo incontrato avrebbe avuto il compito di offrirci qualcosa di positivo, come noi avremmo avuto il dovere e il compito di ricambiare con un qualcosa che gli altri s’attendevano da noi e di cui avevamo bisogno.

Non so se riuscirò ad avere la lucidità di vivere gli innumerevoli futuri incontri con questo spirito e in questa prospettiva, ma sono però convinto che se anche sarò solo capace in parte di vivere con questa convinzione suddetti incontri, la settimana sarà quanto mai interessante e positiva.

La gente che mi ascoltava raccolta e silente, m’è parsa consenziente a questa proposta, spero ora che essi ed io saremo capaci di viverla con questo spirito.

La fede e la religione devon essere respiro dell’anima, non solo riti!

So che può diventare noioso e ripetitivo ritornare di frequente su certi argomenti, eppur c’è un qualcosa dentro di me che mi costringe quasi a ritornarvi, perché passati un po’ di giorni dall’ultima precisazione, ho la sensazione di non essermi spiegato bene, di non aver illustrato a sufficienza il problema che mi sta a cuore. Sempre gli uomini hanno corso il pericolo di ridurre la fede, soprattutto la religione che la esprime concretamente, ad una serie di pie pratiche, di osservanza di determinate norme morali, di cerimonie, preghiere e gesti di culto che non si coniugano profondamente con la vita reale, con i sentimenti, le attese e i bisogni più veri della nostra umanità.

Io non rifiuto i riti, le gestualità di religione, le vesti e tutta la coreografia cultuale perché fa parte delle esigenze della nostra sensibilità, ma tutto questo deve essere non solamente povero, sobrio, essenziale, in linea con i costumi e i gesti del tempo, ma soprattutto debbono esser profondamente coniugati con la vita, il bisogno di speranza, di valori, di autenticità, di assoluto, di immenso, di verità, altrimenti il tutto si riduce ad un solenne ed ipocrita formalismo privo di anima e di respiro spirituale.

Le mie classi di un tempo alle magistrali erano costituite quasi sempre da una stragrande maggioranza di ragazze, dai quattordici ai ventanni. Allora non avevo assolutamente bisogno che mi confidassero se erano innamorate o meglio ancora fidanzate perché era un dato che coglievo di primo acchito, c’era nel volto, nel portamento un incanto, una soavità, che faceva tutt’uno con la loro bellezza ed armonia di adolescenti che sbocciavano alla primavera della vita. L’amore illuminava i loro occhi, l’avvertivi nel tono della voce, nella flessuosità dell’incedere, nella luce del sorriso.

L’amore cantava nel cuore, ma pure nelle membra di queste giovani donne.

La fede e la religione se non diventano respiro dell’anima, sogno, speranza, certezza di essere amati, ebbrezza del dono della vita, gioia di scoprire un mondo sempre nuovo e popolato da fratelli da amare e con i quali camminare, si riduce fatalmente ad un armamentario da soffitta, o da costumi o scene da palcoscenico!

Oggi mi pare di aver finalmente detto quanto penso, ma sono certo che domani, di fronte ad un rito sontuoso, o di una predica “teologica”, o da un comportamento da funzionario di un’azienda multinazionale sentirò il bisogno prepotente di “spiegarmi meglio!”

L’arte per me è il volto di Dio che si rivela all’uomo

Più volte ho manifestato la mia profonda riconoscenza per i miei maestri.
Quel po’ di positivo che spero d’avere lo debbo ai miei genitori, che mi hanno educato alla concretezza, allo spirito di sacrificio, all’attenzione ai più poveri.

Debbo ai preti che mi hanno educato da ragazzino, da adolescente, da giovane prete, lo zelo per le anime, la dedizione assoluta all’uomo, la ricerca appassionata al dialogo con tutti, la scelta di discorsi attenti alla sensibilità e alle attese della gente reale, la libertà di conoscere sia i profeti del nostro tempo, sia i dissenzienti che guardano i problemi da un’angolatura diversa da quella ufficiale.

Debbo a Monsignor Quintarelli, a Monsignor Niero e soprattutto a Monsignor Vecchi il senso estetico, che per me non è assolutamente una componente marginale nella formazione umana e spirituale di un sacerdote.

Ho ripetuto molte volte e con molta convinzione che solamente i santi, i poeti e gli artisti colgono il volto più profondo, più vero e più bello della vita.

Monsignor Vecchi ha spalancato ai miei occhi la grande finestra dell’arte del passato e soprattutto quella moderna. Monsignor Vecchi ci ha fatto conoscere i maggiori pittori veneziani di questo ultimo secolo da Carena a Cessetti, da Gianquinto a Zotti, da Della Zorza a Vedova ma soprattutto mi ha aiutato ad aprirmi con fiducia e curiosità a quella miriade di artisti che, con più o meno talento, sanno dar volto al colore, al sogno così da scoprire l’immensa bellezza del creato e a far emergere dalla realtà, che ci circonda, le infinite ricchezze che nascoste attendono di venire alla luce e che solo gli artisti sono capaci di far emergere dal grembo della materia.

Per me l’arte è mistica, preghiera, contemplazione, è il volto di Dio che si rivela all’uomo e che illumina lo spirito, la vita e il mondo in cui viviamo.

Il nostro Patriarca Angelo

Il nostro Patriarca è una persona buona e squisita, credo che sia un uomo di valore che è cresciuto alla scuola di don Giussani, ottimo maestro, nutrito fin dalla prima giovinezza dal latte genuino e materno di Comunione e Liberazione e che poi ha affinato la sua cultura nelle aule universitarie più illustri delle più celebri università europee sia come discepolo che come docente.

A me piace il Patriarca, nutro nei suoi riguardi stima ed affetto, non solamente perchè è il mio vescovo, ma anche per motivi meramente umani; lo dico tranquillamente perché non ho bisogno e non attendo nulla da lui.

Ma c’è una cosa che mi sorprende, e non è certamente un dato negativo: il nostro cardinale ha una personalità poliedrica, sia come immagine che come proposta di pensiero.

Per motivi giornalistici, io mi sto costruendo un piccolo ed artigianale archivio sia a livello fotografico che di pensiero. Le foto del Patriarca sono una diversa dall’altra, non tanto perché prese in luoghi diversi, ma perché ognuna ti offre un’immagine molto diversa dello stesso soggetto.
Così avviene per il pensiero.

Il patriarca nel dialogo personale è una persona splendida, squisita capace di una rapporto caldo, scorrevole, che ti mette subito a tuo agio e stabilisce una sintonia quasi immediata anche se ti incontra una volta all’anno.

Quando ti parla a braccio coglie il nocciolo della questione, riassume il tema dell’argomento, si apre al dialogo. Quando però parla dall’ambone il suo discorso diventa di una teologia disincarnata e soporifera. Quando poi tiene lezione, allora viaggia come il concorde nella stratosfera e i comuni mortali non possono che guardare in alto in controluce senza vedere quasi nulla. Normalmente centra i temi, provoca reazione nell’opinione pubblica, si capisce che mette a fuoco i problemi veri anche se si rifà al lessico e allo stile dell’evangelista San Giovanni.

Ho seguito con curiosità l’impatto sull’opinione pubblica del suo discorso ai cittadini veneziani, di non piangersi sempre addosso, di non mugugnare, di non lasciarsi andare al pessimismo perchè tutto sommato Venezia, anche se fosse sulle palafitte, sono secoli e secoli che sta a galla sulla laguna.

Il Patriarca ha ragione, una volta tanto va d’accordo anche con Cacciari, forse se non ci avesse costretti a consultare il vocabolario saremmo stati più contenti, ma forse l’ha fatto apposta perchè senza quella parola da avvocato o da notaio non ci avremmo fatto troppo caso al suo intervento!