Il ricordo dei fratelli Fiozzo

La signora Fiozzo, moglie del carissimo ed indimenticabile “Checco”, il parrocchiano che mi voleva un bene del mondo, che si mostrava entusiasta per ogni mia iniziativa e che approvava con candore e letizia le mie scelte, mi ha chiesto di celebrare la messa per i quattro fratelli che ora con i loro papà e mamma sono una delle più belle famiglie di Carpenedo che ora abitano in cielo.

Ho aderito immediatamente alla sua richiesta; mi fa immensamente piacere passare un’oretta con Francesco, il consigliere del Piavento, di Piergiorgio, l’Achela dei lupetti, di Paolo, il componente soave e silenzioso della Corale Carpinetum e di Raffaella, che spese una gran parte della sua eredità per comperare i cani pastore per i ciechi.

Parlare di messa di suffragio o di esequie mi è parso fin da subito un’espressione inadeguata e formale.

Mi è parso subito bello di pensare ad una riunione di famiglia, ad un incontro tra amici.

I Fiozzo sono venuti tutti, dal più piccolo alla moglie di Francesco, di Paolo e Piergiorgio, già suocere da parecchi anni. C’era nella cappella del don Vecchi un gran ventaglio di volti, di età, di professioni, ma s’avvertiva che il denominatore comune era evidente, il calore umano, la simpatia, la fraternità dei Fiozzo, ereditata da papà Attilio, parroco laico di Carpenedo e da sua moglie, la maestra per antonomasia.

Queste celebrazioni domestiche in cui lo spirito e l’umanità si fondono, si completano e si arricchiscono sono l’espressione più alta, più vera e più nobile della liturgia.

Una lettera di Cristo

Ho letto in questi giorni un bel commento alle parole che San Paolo ha indirizzato ai suoi amici di Corinto: “Voi siete una lettera di Cristo, scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente”.

Il commento a questo pensiero luminoso ed incisivo si articolava pressappoco in questi termini:
“Nel nostro tempo di corrispondenza elettronica non dedichiamo più tempo a scrivere una lettera. E’ più veloce e forse anche meno costoso, semplicemente inviare delle e-mail. Si preme un tasto del computer e la comunicazione è istantanea. La nostra vita può essere una lettera istantanea al mondo, indirizzata a chiunque incontriamo ogni giorno. Questa lettera è breve e va subito al dunque. Essa può essere letta istantaneamente da coloro con i quali veniamo a contatto: da un negoziante, da un collega di lavoro, da un altro autista sull’autostrada, da un bambino che tira calci dietro a noi, da qualcuno in chiesa. Cristo vuole servirsi di noi per comunicare amore a coloro che incontriamo. Facciamo in modo che Cristo comunichi tramite noi il messaggio che vuole trasmettere, oppure permettiamo che i nostri desideri, i nostri umori e le nostre manovre sostituiscano quel messaggio? Non siamo lasciati soli in quest’opera di comunicazione dell’amore. Dio ci dona lo Spirito Santo per rinnovare le nostre menti così che diventiamo quel messaggio vivente ed amorevole come Dio lo desidera”.

Questo è un bel discorso se lasciato volare in cielo come un aquilone o un palloncino multicolore.

Se però lo tiro giù dalle nuvole, dai pii desideri o dai propositi fatti a tavolino durante la preghiera o la meditazione le cose sono ben diverse.

In questi giorni ho riletto la presentazione del mio diario del 2007. Ho riflettuto una volta ancora su quello che ho sentito l’impellente bisogno di premettere per i probabili lettori. Nelle mie povere parole introduttive, emerge tutta la mia preoccupazione di non scandalizzare, di non voler sformare il messaggio di Gesù, la paura che la gente non mi prenda troppo sul serio solamente perché sono un vecchio prete. Mi pesa veramente sul cuore il timore di non essere una lettera fedele di Cristo, di non pronunciare le sue parole, di non manifestare appieno la sua buona notizia!

Temo che nel mio messaggio non siano pochi gli sgorbi e gli scarabocchi!

“Sia fatta la tua volontà!”

Nota: questo appunto nel diario di don Armando risale ai primi giorni di dicembre 2008.

Ieri sera ho avuto la visita del mio medico curante, una carissima signora della mia vecchia parrocchia.

La dottoressa, pur usando un linguaggio scientifico, mi ha informato dello stato della mia salute con tono affettuoso e rasserenante e nello stesso tempo onesto ed obbiettivo. Gliene sono riconoscente per l’una e per l’altra cosa.

Il carcinoma, che ha dato di se la prima avvisaglia ben cinque anni fa e che innumerevoli volte gli urologi hanno tentato di decapitare, pare non abbia voglia di andarsene neanche dopo le ultime instillazioni chemioterapiche.

Lo confesso che la notizia non mi ha lasciato indifferente, anche perché le persone che mi stanno curando, pur trattando innumerevoli volte dell’argomento, me l’hanno presentato come un ospite indiscreto e non desiderato, ma neanche troppo preoccupante!

Il pensiero dello sgomento del Cardinal Martini, già arcivescovo di Milano e le parole forti e taglienti di padre Maria David Turoldo, mi hanno confortato e mi hanno aiutato ad accettare con più serenità anche la mia preoccupazione.

Se poi ci penso bene dovrei soltanto benedire e ringraziare il Signore; sono giunto agli ottanta anni, vent’anni fa il buon Dio mi ha graziato da un tumore, da cinque anni, nonostante il guaio che mi angustia, ho potuto vivere ed operare senza grosse difficoltà.

Cosa posso desiderare di più, quando in moltissime parti del mondo appena metà o poco più raggiunge l’età che ho raggiunto e so ancora che nella maggior parte sarebbero morti da un pezzo se avessero avuto i malanni che mi hanno colpito?

Stanotte svegliandomi, durante sonni irrequieti, mi è venuto spontaneo dire “Sia fatta la tua volontà!”

“La speranza non delude”

Qualche domenica fa, un gruppo di genitori, che purtroppo hanno in comune la morte precoce di un figlio giovane, mi hanno chiesto di essere ospitati al don Vecchi per una giornata di riflessione e di preghiera.

La cosa era possibile e ben volentieri li ho accolti.

Anche lo scorso anno, era avvenuta la stessa cosa, ma mentre allora erano tutti di Mestre e Venezia, quest’anno provenivano da tutti i paesetti e le cittadine dell’interland.

Il gruppo che incontro mensilmente nella chiesetta di San Rocco, aveva organizzato l’incontro di questa ottantina di genitori, relativamente giovani, che si aiutano con l’amicizia e con la preghiera a rimarginare la ferita mortale e a ritrovare un po’ di serenità e di pace.

Ha celebrato l’Eucarestia don Massimiliano, un giovane ed intelligente sacerdote che con parole calibrate e ricche di fede ha tentato di dare uno sfondo di speranza e di fiducia al dramma di questa povera gente. Al don Vecchi ci siamo fatti in quattro per offrire loro una accoglienza fraterna ed un pranzo confortante.

Oggi, tempo in cui i valori fondamentali e la fede si sono di molto appannati ed indeboliti sono molte le persone che colpite dal lutto, sentono il bisogno di trovare qualcuno che le aiuti ad elaborarlo.

Ci sono psicologi, che a pagamento, applicano le regole del mutuo aiuto, però sono convinto che solo la fraternità e la fede riescono a rimarginare la ferita e a leggerla con frate Francesco, il poverello di Assisi, in maniera positiva.

Andandosene essi mi hanno donato una palla intessuta da fragili fili argentati con una frase di S. Paolo: “La speranza non delude”.

L’ho appesa alla lampada sopra la scrivania per ricordare questi fratelli e per ricordarmi che la speranza è un dono grande del Signore!

Il don Vecchi ter: una piccola Nomadelfia del Veneto

Don Zeno giustamente è passato alla storia per la sua Nomadelfia, la “cittadina” alla periferia di Grosseto, che da un campo di concentramento italiano è diventata “la città dei fratelli”, comunità che ha come obiettivo l’assoluta solidarietà.

A Nomadelfia le famiglie sono composte da un “padre” ed una “madre” volontari che si fanno carico di una nidiata di bambini alla deriva, rifiuti di questa società senza valori e senza ideali.

Il valore fondante di questa singolare comunità, è che l’amore supplisce ad ogni deficienza e risolve ogni difficoltà, questo valore trova la sua pratica attuazione nel “codice civile” che assume come norma di convivenza i dettami del Vangelo.

Attualmente Nomadelfia, mi pare, conta 350 abitanti, divisi in una serie di famiglie, con una scuola autonoma, una economia solidale ed una vita serena che si rifà in tutto al messaggio di Gesù, assunto nella sua integrità.

Don Zeno era un uomo eccezionale, un prete libero, coraggioso e generoso fino alla temerarietà, un prete fuori serie, di una specie rara della quale ne nascono cinque o sei al massimo al secolo!

Io non ho né l’originalità di pensiero, né il coraggio, né la generosità di questo campione; mi limito solamente ad ammirarlo e tentare di copiarlo per quanto riesco. E’ ben chiaro che è l’opera d’arte che ha valore, la copia conta un millesimo soltanto del capolavoro e raramente riesce a riprodurre fedelmente l’originale.

Comunque in via Carrara, 10 a Marghera c’è un paesino minuto chiamato “don Vecchi” abitato da 65 abitanti che vivono in maniera autonoma, si autogestiscono provvedendo al giardinaggio, al pranzo, alla cura degli ambienti, alla segreteria e alle altre mille cose che servono in un paese, pur piccolo. C’è un “pater familias” ed un suo vice che coordinano la vita comunitaria, volontari pure loro.

Mi auguro che questa Nomadelfia del Veneto abbia vita lunga, prospera ed esemplare, almeno quanto quella del grossetano!

Con quale faccia questa gente si presenterà alle elezioni?

Talvolta ti arrivano delle notizie che non solamente ti stupiscono, ti fanno arrabbiare, ma ti provocano indignazione e nausea verso una classe di amministratori e di politici che, in occasione delle elezioni si offrono ai concittadini per risolvere i problemi e per soccorrere i deboli.

Mi è capitato di leggere su “Il Gazzettino” una di queste notizie e il giorno dopo di leggere pure una replica che l’ha ribadita e spiegata con ironia e sarcasmo.

La notizia riguarda la vicenda de “Il Samaritano” la sognata struttura di accoglienza per i familiari poveri dei duemila pazienti che ogni anno sono accolti nell’ospedale di Mestre, benché provenienti da altre regioni d’Italia.

Finora abbiamo tentato di provvedere col Foyer S. Benedetto, ma attualmente esso è inadeguato e decentrato. Il sindaco mi aveva promesso 5000 metri quadrati di terreno ed io con la mia squadra ci saremo impegnati a costruire la struttura con l’aiuto di Dio e della città.

L’estate dello scorso anno è intervenuto il dottor Padovan, responsabile della ULSS, che alla presenza del sindaco e della Regione, propose di farlo a spese del suo ente e che l’avrebbe costruito prima di noi. Cominciarono a passare i mesi senza che nulla accadesse, ci furono illazioni positive dei giornali, telefonai a Padovan che mi rispose laconicamente alla Garibaldi: “Stiamo lavorando!”.

Chiesi ad un amico giornalista di fare un’indagine, pareva che si trattasse solamente che la ULSS aspettava di incassare i soldi della vendita dell’Umberto I° e dell’ospedale al Mare, per poter cominciare. Però una telefonata del dottor Micelli prima ed un incontro con l’assessore ai lavori pubblici, dott.ssa Fincato, mi misero una pulce all’orecchio.

Finché non giunse la notizia bomba firmata dal giornalista esperto sulle vicende dell’ospedale dell’Angelo, dottor Maurizio Danese, che afferma che il Comune (centrosinistra) vuol fare lui il Samaritano perché la ULSS (centro destra) risulterebbe troppo brava di fronte all’opinione pubblica vicina alle elezioni.

Il Comune non ha soldi per la chiesa del cimitero e quei pochi che ha li sta spendendo per quella porcheria che è il piazzale del cimitero e per il “ghetto” per Sinti.

Dire che questo è ignominioso è il meno che si possa dire, forse vergognoso è più adeguato.

Sto attendendo con quale faccia questa gente si presenterà alle elezioni!

La difficile gestazione dell’ostello S. Benedetto

Sto vivendo un tormentone circa la realizzazione di quello, che finora, abbiamo chiamato “L’ostello S. Benedetto”, per indicare una struttura d’accoglienza per cittadini extracomunitari che vivono a Mestre.

L’idea era partita dalla constatazione delle condizioni, a dir poco disumane, in cui dormono certe persone giunte dai paesi dell’Europa dell’est o dalle coste dell’Africa settentrionale, per cercare migliori condizioni di vita nel nostro Paese.

Specie gli ultimi arrivati che riescono a passare tra le maglie larghe dei nostri interminabili confini, spesso con l’appoggio di parenti o compaesani che vivono da anni in Italia, portano con se un gruzzoletto di denaro che esauriscono ben presto mentre si danno da fare per trovare un qualsiasi impiego. Quasi sempre risolvono il problema dell’alloggio facendosi accogliere nell’appartamento di un conoscente che offre loro un materasso steso per terra per 5 euro alla notte, dividendo i 70 metri dell’alloggio di fortuna con altri dieci-quindici ospiti.

Entrano a casa tardi e escono presto, specie se l’appartamento è in affitto,perché il padrone e i condomini non lo vengano a sapere.

L’intenzione di offrire un alloggio umano ad un prezzo corrispondente al rimborso spese è certamente valido però dopo un colloquio con il responsabile di una associazione che si occupa da vent’anni di queste cose, ho capito perfino troppo bene che il mio progetto è un’utopia che non regge all’esperienza.

D’altronde impiegare almeno due miliardi di vecchie lire su un progetto certamente traballante e pericoloso, anche per gli stessi beneficiari, sarebbe un azzardo che non mi posso e non mi debbo permettere.

Sto quindi ripiegando sulla linea del Piave, prevedendo una struttura per anziani autosufficienti, sulla scorta dell’esperienza del don Vecchi, con qualche inserimento prudente di qualche extracomunitario in attesa di fare ulteriori esperienze in merito.

Un club per capelli bianchi!

Mi capita abbastanza di frequente di incontrare qualcuno che mi confessa di leggere con interesse, e qualcuno perfino con edificazione e profitto, il mio diario.

Questo mi fa felice e mi incoraggia, pur caricandomi di una pesante responsabilità perché è mia assoluta volontà far del bene ed edificare e non scandalizzare o distruggere.

So d’altronde che chi non condivide i miei pensieri o non li apprezza punto, si guarda bene di farmelo sapere. Perciò questa considerazione mi tiene coi piedi per terra e mi aiuta a non montarmi la testa.

So anche che gli amici de “L’incontro” gradirebbero che, questo vecchio prete brontolone e talvolta ostico, fosse sempre ottimista ed aiutasse a guardare positivamente la vita e soprattutto a registrare ciò che c’è di bello e positivo perché per le cose brutte ci provvedono bene i giornali a renderle note.

Su queste attese sono totalmente d’accordo, anche se spesso finisco di peccare di pessimismo.

Oggi voglio annotare quindi una cosa bella, che tutto sommato, rappresenta la perla o il fiore più bello colto in giornata. Ho accolto al don Vecchi una “giovinetta” di 94 anni, una splendida mamma, lucida, intelligente, cara e perfino bella! Le vicende imprevedibili della vita l’hanno deposta sul nostro bagnasciuga!

Io sono felice di averla accolta perchè è un vero tesoro di donna, ma quello che mi fa ancora più felice è vedere due suoi “bambini” di circa 60 anni, che quasi ogni giorno vengono a trovarla, ma non si richiudono nella casa della mamma, come fanno molti visitatori, ma fanno crocchio nella hall con una quindicina di altre nonne e tengono banco, chiacchierando spassosamente anche per un paio di ore di seguito.

E’ una meraviglia vedere questo club di anziane con questi due figli che hanno adottato il don Vecchi ed una nidiata di nonne che sono beate nel partecipare a questo club per capelli bianchi!

Una fede che si realizza nella carità

Una signora mi ha chiesto per telefono un appuntamento per un consiglio; io credo poco ai consigli da parte mia, perché non sono nè saggio nè imbroglione e perciò non posso aiutare il mio prossimo solo con le parole, e da parte di chi li chiede perché, più o meno consciamente, uno domanda ciò che ha già deciso o vorrebbe fare.

Incontrai questa signora di mezza età che non conoscevo, lei fece di tutto per farmi capire che era amica di tante persone che mi conoscevano. Mi trovai di fronte una donna piacevole, intelligente ma, nonostante questo, mi sembrava imbarazzata, tanto che dovetti aiutarla per arrivare al dunque.

Mi raccontò la sua vicenda amara e drammatica e intuii l’angoscia per il domani che lei riteneva ancora lontano ma che io sentivo molto prossimo. Le era crollato addosso il mondo intero, perdendo il benessere economico, il marito che aveva amato e che l’aveva tradita, la sicurezza per il domani!

Qualcuno, giustamente, le deve aver suggerito di venire da me per avere un alloggio che le permettesse di avere almeno un punto fermo nella sua vita in cui tutto sembra franare.

Superata l’istintiva e giusta vergogna, mi confidò di lavorare fortunatamente come commessa, di avere 76 anni (ne dimostrava almeno 30 di meno) e di vivere in una casa pagata dal Comune. Provai infinita tenerezza ed una profonda ebbrezza di poterle promettere un approdo, almeno da un punto di vista abitativo, tranquillo.

Mai, come dopo questa visita inaspettata, sentii nel mio animo la gratificazione per essermi impegnato per una fede che si realizza solamente nella carità.

Invidio l’America per Obama!

Io sono uno dei tanti che fortunatamente hanno seguito la campagna elettorale degli Stati Uniti d’America con attenzione e passione e pur non avendo motivi particolari per rifiutare il candidato repubblicano, ho tifato per Barak Obama, il giovane candidato democratico.

Obama rappresenta, per me, il mondo povero che emerge, la persona che punta sul domani, l’uomo che ha dimostrato di saperci fare nella professione e non è nato, cresciuto ed educato a fare il politico (qualche giorno fa un membro dell’amministrazione della nostra Provincia, mi ha confidato che era l’unico che manteneva la sua professione mentre tutti gli altri non sapevano fare altro mestiere se non quello della politica).

Obama rappresenta, per me, l’uomo pulito e sano che si presenta con la sua famigliola: moglie e due bambine, che incanta col suo sognare e il suo sperare.

Obama, l’uomo che il giorno della sua trionfale elezione, termina il suo discorso con queste parole: “Grazie, che Dio vi benedica e che benedica gli Stati Uniti d’America”.

Lo confesso io invidio l’America che sa esprimere uomini del genere, che sanno di pulizia, di novità e di autenticità.

In Italia ci sogniamo questo stile, questi comportamenti e questo modo di concepire il sevizio al Paese.

Berlusconi appartiene all’antico Testamento, sembra un manichino tirato fuori dal primo novecento; Veltroni è nato e cresciuto nel partito e ne mantiene tutti i limiti; Casini insegue il vecchio metodo dei socialisti di comandare con la minaccia di spostarsi a destra e a sinistra come più gli conviene!

Vita e sopravvivenza de l’Incontro

Nessuno mi ha ordinato di stampare “L’incontro”, anzi credo che qualcuno sarebbe più contento se non lo facessi!

Le voci libere sono sempre scomode, anche se esse non contengono livore, non vogliono contrapporsi ad alcuno e sono pronunciate sempre per amore e per costruire.

Andato in pensione tre anni fa, mi pareva di perder tempo, di non adempiere più al mio compito di annunciare la buona notizia, di non poter più dialogare con la gente che ho tanto amato e di non servire più la mia città.

Ho cominciato così questa impresa editoriale che non ha altro scopo se non quello di contribuire, con il pensiero e la parola, a costruire il Regno.

Mi è andata bene!

Col tempo si sono aggregati una trentina di persone di buona volontà, che hanno condiviso questa avventura pastorale. Pian piano abbiamo acquistato macchine povere, ma capaci di stampare in maniera dignitosa, soprattutto abbiamo avuto l’aiuto di tecnici competenti e giornalisti vivaci che hanno dato un aspetto ed un contenuto originale al periodico che ha incontrato il favore della città, tanto che abbiamo ormai toccato la soglia delle 5000 copie settimanali.

Certo che, tolto il costo dell’alloggio e del mangiare, tutto il resto della mia pensione va in carta, matrici ed inchiostro! Ogni tanto arriva qualche contributo. L’altro ieri una signora porgendomi una busta mi ha detto: “Leggo sempre e volentieri L’incontro, però non mi va di leggerlo a sbafo!”

Speriamo che questa scelta sia maggiormente condivisa in futuro!

La desacralizzazione della morte

Ho letto con interesse i pareri di alcuni prelati della chiesa veneziana sugli effetti della secolarizzazione per quanto riguarda il discorso sulla morte e sugli elementi inerenti ad essa.

Che ci sia una cultura che progressivamente desacralizza ogni comportamento umano è fuori di dubbio.

Prima l’illuminismo, poi il comunismo, quindi il radicalismo con la relativa rivoluzione francese, rivoluzione russa, hanno creato un clima per cui l’uomo ha perduto non solamente il senso di Dio, ma anche valori quali il sentimento, la poesia, la sacralità della famiglia, via via fino a ridurre l’uomo come lo definisce il filosofo francese Sartre: “un nervo nudo che si contorce o per il piacere o per il dolore” e nulla più.

Quei prelati, forse per non conoscenza, o forse per quieto vivere, non detto nulla delle responsabilità dei preti a questo riguardo.

I sacerdoti in pochissimi anni, penso abbiano contribuito in maniera consistente e forse determinante, per desacralizzare tutti gli aspetti che riguardano la morte.

Un tempo il clero ha costruito un’impalcatura eccessiva di riti, accompagnamenti, benedizioni preghiere e quant’altro, ora con estrema disinvoltura, forse perché anche loro vittime di questa cultura pragmatica, o forse per comodo, hanno pian piano smontato questo meccanismo complesso e si trovano in mano solamente i rimasugli di una realtà impalpabile e misteriosa che costituiva l’aureola della morte nella concezione cristiana.

Temo che siamo solamente all’inizio di un processo a cui manca veramente molto per toccare il fondo. Il funerale è più indietro del matrimonio, ma però e sulla stessa strada!

Don Adriano

Ho incontrato don Adriano il giovane sacerdote che ebbe un ruolo determinante nei miei primi anni di attività pastorale a Carpenedo.

Nel ’71 infuriava devastante la così detta contestazione parrocchiale; si trattava dei colpi di coda del movimento che aveva colpito nel ’68 i centri urbani e che stava scaricandosi ancora con molta forza nelle periferie.

Don Adriano è stato per me veramente un dono di Dio: prete giovanissimo, intelligente, un carattere d’acciaio, innamorato dei giovani, dalla vita sobria e coerente.

Si impegnò fino allo spasimo e dette vita ad un nucleo iniziale, con solidi anticorpi che non si lasciò influenzare dalle utopie irrequiete e nebulose dei giovani che avevo incontrato entrando in parrocchia. Don Adriano rimase non molto tempo in parrocchia, ma lasciò le premesse perché don Gino potesse sviluppare un movimento, a livello di gioventù, quanto mai valido e numeroso.

Don Adriano operò quindi nell’ambiente per altri versi difficile, a Carole e quindi al Lido per finire parroco a S. Marco a Mestre e per laurearsi in diritto canonico a Roma.

Purtroppo un tragico e banale incidente stroncò inaspettatamente le aspettative della chiesa veneziana nei suoi riguardi.

Me lo sono rivisto in questi giorni, traballante, incerto, spesso risucchiato dal passato e in balia della risacca della vita.

Perché questo destino per questo giovane prete così forte e promettente? Una domanda che non avrà mai una risposta esauriente come tante altre domande non andranno più in là del punto interrogativo, oltre quel punto interrogativo c’è spazio solamente per la fede nella Divina Provvidenza!

“prega e lavora”

Da sempre sono un ammiratore di San Benedetto, della sua regola e dei benedettini. Questo ordine religioso è antico, nato in un contesto storico enormemente diverso da quello in cui noi viviamo, eppure i valori portanti su cui poggia sono talmente validi per cui pare che non siano erosi dai secoli che passano: la cura della liturgia, il senso dell’ospitalità, la figura paterna dell’abate a vita, l’equilibrio tra contemplazione ed attività, il lavoro manuale sono elementi tali per i quali il monaco benedettino sembra un signore tra i religiosi.

Una delle regole che spessissimo sono citate: “Ora et labora”, “prega e lavora” è la nota più alta di una visione della vita realistica, che esprime una spiritualità, un’ascesi ed un equilibrio spirituale di somma grandezza.

Queste mete poi si traducono in una norma di estrema saggezza imponendo al monaco di dedicare otto ore alla preghiera (compreso studio e meditazione) otto ore al lavoro manuale ed otto ore al riposo. Tante volte ho fatto conteggi per mettere anch’io, nella mia vita irrequieta, un po’ di ordine. Finora non ci sono mai riuscito e non so ancora se ciò sia anche possibile!

I conti non mi quadrano mai, perché per me il lavoro e la preghiera sono quasi due fratelli siamesi che non si possono separare, ma la campana del convento mi difende dalle commistioni che imbrogliano sempre le carte. Probabilmente dovrò abbandonare per sempre l’idea di potermi rifare a certi schematismi irrealizzabili in questa società irrequieta, veloce e sbrigliata, però credo non potrò, senza grave pericolo, neanche abbandonare totalmente l’impegno di ritagliare tempo per lo spirito, per il lavoro e per il riposo, perché senza questo equilibrio ben difficilmente si può fare qualcosa di costruttivo.

Un angioletto per cui pregare

Un messaggio dalla redazione del blog.

Una bambina di 11 anni di Mogliano il mese scorso è stata colpita da meningite.

La malattia é passata ma ha lasciato uno strascico sulla circolazione per cui alcuni tessuti sono andati in cancrena.
Le hanno tagliato le mani. Il 30 dicembre si parla di un’altra operazione, la stessa, sui piedi.
Cosa possiamo fare se non pregare per quella piccola martire?

Fatelo, facciamolo. Nel Dio cristiano o in ciò in cui credete.