Il funerale di un uomo che non rinnegò i suoi ideali

L’unica nota anacronistica e stonata è stata il saluto fascista al momento della sepoltura. Un vecchietto traballante, stendendo il braccio per il saluto romano, ha gridato: «Onore al camerata Orfango Ferrari», ma poi si è corretto soggiungendo «Campigli». Quindi si è risposto da solo tra il silenzio attonito e sorpreso dei cittadini che assistevano piamente alla tumulazione: «Presente!» Anche da questo ho compreso che della “liturgia fascista” nessuno si ricorda più nulla.

Sono stato contento che una concomitanza di circostanze abbia quasi costretto la famiglia a celebrare il commiato del loro caro nella nuova chiesa tra i cipressi del nostro camposanto, e che toccasse a me celebrare il rito religioso.

Io ho sempre stimato e voluto bene a quello che comunemente era ritenuto il fascista per antonomasia del Paese, e certamente ero ricambiato in sovrabbondanza dal signor Campigli.

Il vecchio parrocchiano Campigli non ha rinnegato nulla della sua giovinezza e del suo passato, perché i valori per cui era vissuto e aveva messo a repentaglio la sua vita, erano e sono condivisibili: Dio, Patria, Famiglia. Volesse il Cielo che anche le nuove generazioni facessero propri questi ideali! Credo che in verità Orfango non avesse nulla di cui rimproverarsi, perché questi valori non sono stati per lui una bandiera issata su un monumento, ma erano invece parte essenziale della sua vita di uomo, di cristiano e di cittadino. Il signor Campigli portava nel cuore delle ferite che, seppur rimarginate, sono rimaste sempre ben visibili, ma non odiava chi gliele aveva inferte.

Debbo ad Orfango la conoscenza della parte più fosca e più indegna della “resistenza” rossa. Anche di questo gli sono grato, pur essendo certo che in quella tragica guerra civile, sia da una parte che dall’altra, ci sono state delle magnifiche e stupende creature, per me basti pensare al capitano dei partigiani Bruna Conforti Belcoro. Come in entrambe le parti ci sono stati militanti squallidi, avventurieri, profittatori e criminali.

Sono tanto contento che pian piano il 25 aprile stia diventando la festa della fine della guerra civile, della riconciliazione nazionale, del recupero della democrazia dalla prepotenza alla barbarie, sia nera che rossa.

La storia per fortuna corre, pulisce e rimargina ogni ferita, sia di destra che di sinistra. “Il fascista” Orfango Campigli di certo fu un valido aiutante della storia in questi ultimi sessant’anni.

La burocrazia comunale contro le biciclette dei residenti al don Vecchi

Il riparo per le biciclette dei 230 residenti al Centro don Vecchi ha una storia complicata, aggrovigliata e soprattutto tribolata. La riassumo in poche parole. Gli anziani residenti più che le automobili usano le biciclette. Attualmente penso che ne abbiano cento-centoventi, e gli anziani sono quanto mai gelosi di questi veicoli, forse ricordandosi che nella loro giovinezza possedere una bicicletta era segno di agiatezza.

Abbiamo commissionato ad un architetto noto in città la progettazione di questa “custodia” e abbiamo pagato per il progetto e fatto costruire da un’impresa quanto mai seria. Non so cosa sia successo, di chi sia la colpa, sennonché un “cristiano” del quartiere per ben tre volte ha sporto denuncia ritenendo l’opera abusiva.

Sono arrivati i vigili, hanno riscontrato delle irregolarità. Noi siamo ricorsi al progettista che ci ha rassicurato della validità dell’opera. Però ci è arrivata una contravvenzione di ben cinquemila euro, ben dieci milioni di vecchie lire.

Una volta pagata la multa pensavo di essere finalmente a posto anche se a caro prezzo. “Illusione, dolce chimera sei tu!” Nuovo ricorso al professionista, nuove assicurazioni, tanto che ad un certo momento m’è stato perfino detto che quello che prima era negato ora è imposto dal Comune: la custodia per le bici.

Non sto a ripetere il numero di telefonate, di proposte e controproposte. L’ultima soluzione prevedeva d’attaccare la “baracca” delle biciclette alla facciata principale con un tunnel per girare attorno al fabbricato. «Ferma tutto!» ordinai, «il Comune venga pure a demolire. Troveranno 230 anziani con un prete ottantunenne a guidare la rivolta sulle barricate».

Per ora ho allertato la stampa e la televisione perché informino l’opinione pubblica nazionale della stupidità della burocrazia veneziana: Mi sono detto: «Mi metteranno dentro!» Quella della galera è un’esperienza che finora non ho mai fatto, né desidero in verità farla! Se però è necessario, mi mettano pure dentro, perché ho tentato di tenere al riparo dalla ruggine le “fuori serie” dei nostri vecchi!

Ci sono tante difficoltà ma sono ben determinato a superarle!

Confesso che sto incontrando più di una difficoltà nel portare avanti i progetti che attualmente mi stanno a cuore.

Per il “don Vecchi” di Campalto ormai ho firmato il contratto con l’Eurocostruzioni. 2.870.000 euro, somma a cui si deve pure aggiungere l’IVA; non ci si meravigli che lo Stato tassi anche chi lavora per esso, anzi si sostituisce ad esso. Le tasse sono sacrosante e si devono pagare, anche se poi ci si accorge che chi le evade può concedersi il lusso di regalare appartamenti del costo di milioni e milioni di euro a parlamentari e ministri!

Per quanto riguarda la “struttura pilota” per prolungare l’autosufficienza, con qualche soluzione architettonica migliorativa o qualche persona di servizio in aggiunta, siamo appena all’inizio dell’impresa e prevedo ostacoli, imboscate burocratiche ed inghippi di ogni genere, ma questa è la regola in vigore, guai a fermarsi al primo ostacolo!

Un architetto, a cui manifestavo la mia sorpresa e la mia indignazione per chi non solo non favorisce, ma pare che remi contro, anche quando si tratta di opere benefiche, mi disse con salomonica saggezza: «Don Armando, non c’è da meravigliarsi quando si incontrano ostacoli, il vero motivo di meraviglia è quando non si incontrano gli ostacoli!”

Per quanto riguarda “la cittadella della solidarietà”, opera che è ancora nella fase del sogno e della utopia, finora ci sono giunte più prese di posizione negative di quelle positive. Questo però non mi spaventa. In questi giorni, sentendo che il nostro assessore alla viabilità ha proposto un nuovo progetto per il tracciato del tram, mi sono ricordato di un episodio di cui mi ero dimenticato. Non riuscendo ad ottenere la concessione edilizia dal sindaco che vent’anni fa era appunto l’avvocato Ugo Bergamo (i nostri amministratori sono eterni) per il “don Vecchi uno” avevo minacciato su “Lettera aperta”, il periodico della parrocchia, che se entro una data fissata il Comune non mi avesse dato suddetta licenza, alle 12 di ogni giorno avrei fatto suonare le campane a morto.

Qualcuno, evidentemente, si incaricò di mandare alla vecchia madre del sindaco il periodico con la notizia funebre, al che mi riferirono che questa cara donna si sarebbe rivolta all’illustre figlio supplicandolo: «Ughetto mio, non permetterai mica che quel parroco suoni le campane a morto!»

Mi arrivò la concessione edilizia! Ora mi è motivo di molto conforto il sapere che io sono ancora io, quello di vent’anni fa!

Un pellegrinaggio con pancetta

Siamo andati in pellegrinaggio con due pullman di anziani del “don Vecchi” al santuario della Madonna dell’Olmo, vicino a Thiene.

I nostri pellegrinaggi sarebbe più giusto chiamarli “brevi uscite” dalla monotonia del quotidiano. La meta è un pretesto e la storia del miracolo lontano cinque secoli è meno ancora di un pretesto per incontrare il Signore.

Io ero stato alla Madonna dell’Olmo una ventina di anni fa, sempre con gli anziani, anche se diversi dagli attuali, e ricordavo un ambiente un po’ romantico (i ricordi di esperienze lontane nel tempo giocano sempre brutti scherzi).

La struttura della chiesa, del convento e delle adiacenze si rifanno agli schemi consolidati dei frati cappuccini, che obbediscono ad un cliché ben determinato, sempre funzionale, con un’impostazione sobria, di gusto mediocre, ma di gradimento popolare.

Buona ed efficiente l’organizzazione, anche se il tutto manifesta la vita di un santuario di “seconda classe” che i frati promuovono con tanta buona volontà, ma che non offre quell’aria mistica e diversa che è possibile trovare altrove in ambienti più suggestivi da un punto di vista naturalistico.

Ho celebrato messa con un po’ di disagio perché non avevo previsto l’assenza di chi normalmente sceglie ed intona i canti e perché c’è stato più di un inceppo nelle preghiere dei fedeli e nella “presentazione” che è finita per diventare la “conclusione”. Pazienza! Non tutte le ciambelle riescono col buco!

La merenda invece è andata per il meglio: un prato verde, ombreggiato da alberi secolari, un’arietta fresca e tanti panini alla pancetta, al salame e alla mortadella. Questa parte della “liturgia” dei nostri pellegrini è sempre attesa e vissuta con vera intensità “spirituale”. Soprattutto le signore han cominciato a chiacchierare con tanta intensità e piacere e quando qualcuno fece osservare ch’era prevista anche la visita ad un antico convento di Schio, a stragrande maggioranza si optò per terminare in pace la merenda e continuare i lieti conversari.

La vita riserva anche queste sorprese a livello ascetico!

Il dono di Maria Santi

Un mese fa ho concelebrato con don Gianni, il parroco della comunità di san Lorenzo Giustiniani, il commiato cristiano per Maria Santi.

La signora Maria è stata veramente un dono del Cielo, per come l’ho incontrata, per quello che ha fatto per me e per i famigliari degli ammalati del nostro ospedale, e per il modo con cui ha concluso la sua vita quaggiù. Don Gianni mi ha chiesto se volevo dire una parola durante la celebrazione. Ho detto di no perché ero certo che avrei comunque rimpicciolito la sua bella figura e la sua storia.

L’ho incontrata in un momento di estrema difficoltà; non sapevo proprio come uscire dalla situazione quasi tragica in cui mi trovavo.

L’anziana Cleofe, giustamente, mi chiese di poter terminare il compito di fare la “padrona di casa” al “Foyer san Benedetto”, l’appartamento che offriva, e offre ancora, dieci posti letto ai famigliari che vengono da lontano per assistere in ospedale i loro congiunti ricoverati. Una vicina di casa venne a conoscenza del mio problema e mi disse: «Don Armando, ne parlerò con mia cugina che in questo momento forse potrebbe abbandonare la sua casa». Questa cugina era rimasta sola e con una pensione inconsistente. Venne un paio di giorni dopo, poco più che cinquantenne, vedova con due figlie sposate.

Si liberò di tutto, mi regalò perfino i quadri, pareva che volesse fare una scelta irreversibile a favore degli altri. In realtà si donò senza risparmio, sempre sorridente, mai preoccupata per le difficoltà, e così per una decina di anni della sua ancor giovane vita si donò a persone sempre nuove e mai conosciute, provenienti da ogni regione d’Italia.

Maria aveva sempre posto per tutti, e quando non l’aveva stendeva sul pavimento un materasso per lasciare il suo letto all’ultimo arrivato. Sembrava che non avesse mai un problema, che la vita e i rapporti con gli ospiti fossero sempre entusiasmanti, tanto che l’appartamento di 90 metri quadri pareva un albergo a cinque stelle. Era la sua calda umanità che faceva splendere il sole anche nelle giornate più grigie e nebbiose.

La malattia la colse in modo subdolo, ma ella la vinse col suo coraggio e la sua fede.

Ora che Maria se n’è andata, mi sento molto più povero da un lato, e molto più ricco da un altro, perché lassù in Cielo è certamente una delle stelle più luminose che io possa aver mai incontrato e sulla cui luce io posso contare.

Quella spina che punge

Al “don Vecchi” mi trovo bene, vivo una vita serena, però ogni luogo ed ogni situazione hanno la loro spina, che talvolta punge e fa sanguinare.

Per entrare al “don Vecchi” non serve, come avveniva un secolo fa, che i richiedenti esibiscano un certificato che attesti l’avvenuto adempimento al precetto pasquale o la partecipazione alla vita religiosa, però non si nasconde neanche che la parrocchia ha dato vita a questa struttura per farne un luogo in cui nasca e viva una comunità cristiana.

Al momento della domanda di ingresso tutti, pur non richiesti, snocciolano una serie di motivi veri o presunti che a loro avviso darebbero diritto di entrare in questa struttura voluta dalla comunità per i suoi membri. Quasi tutti si offrono a quella necessaria collaborazione che, sola, può abbattere i costi e rendere possibile la vita anche ai meno abbienti.

L’idillio religioso e di volontariato però dura poco, molto poco, per alcuni neanche inizia. La stragrande maggioranza è immediatamente disponibile e talora perfino avida di accaparrare ogni vantaggio possibile, non solo per sé, ma anche per i figli i quali, in maniera più o meno elegante, li hanno messi fuori di casa perché erano diventati un peso ed un ingombro.

A livello religioso poi, dichiarandosi tutti credenti e cristiani, pur avendo tutte le agevolazioni possibili ed immaginabili, al massimo una metà dei 230 residenti al “don Vecchi” di Carpenedo partecipa al precetto festivo che è celebrato ogni settimana in casa e che si può raggiungere senza alcuna difficoltà.

L’amarezza di questo rifiuto “alle nozze”, con i pretesti più banali, mi ha fatto balenare l’idea, che ancora non ho messo in pratica – ma che prima o poi finirò per attuare – di scrivere: “don Armando oggi celebra l’Eucaristia per i cristiani che abitano in questa struttura”. Non credo però che neanche così metterò in crisi molti soggetti.

L’autorità è sempre e comunque servizio

Spesso ci sono delle persone alle quali capita per caso o per scelta di leggere questo diario, che dimostrano di ammirare quanto mai la mia schiettezza e il mio coraggio.

Io non mi ero mai accorto di possedere queste preziose virtù, ho sempre invece pensato che ogni persona ha la sua dignità, la sua intelligenza e la sua libertà, e perciò ho sempre inteso che sia giusto, anzi doveroso, dare il proprio contributo al raggiungimento del bene comune, senza le pretese d’avere in tasca la verità e, meno ancora, di poterla imporre a chicchessia.

Questo vale per i “parigrado”, ossia per le persone dello stesso ceto e con le stesse mansioni. Con quelle poi che occupano posizioni di potere, sia politico che sociale e religioso, sono convinto che bisogna essere onesti, collaborare al loro servizio con i nostri pareri e la nostra critica, tenendo poi sempre presente che non siamo stati noi ad imporre loro di ricoprire certi incarichi, ma sono stati loro, ritenendosi preparati per questo servizio alla collettività, ad esibirsi, anzi a sollecitarci a suffragare col voto la loro legittima e nobile operazione di porsi al servizio dell’intera comunità.

L’autorità è servizio e il servizio è un impegno a risolvere i problemi degli amministrati. Se i cittadini non acquisiscono questa consapevolezza, viviamo sempre un rapporto equivoco di sudditanza nei riguardi delle autorità. A livello civile poi, il fatto di essere noi semplici cittadini a pagare ai nostri amministratori lo stipendio, ci autorizza, nel limite del lecito, a pretendere che essi facciano il loro dovere e che lo facciano bene, ascoltando anche noi che siamo i loro “padroni”.

Credo che sia doveroso mettere i puntini sulle “i” per evitare un’assurda sudditanza ed ancora una più assurda inversione dei ruoli. Se qualcuno poi ha puntato alla poltrona e ai ruoli che non sa o che non vuole addossarsene la responsabilità e la fatica, è doveroso tirarlo per i piedi e ricordargli che l’autorità è sempre e comunque servizio.

In questo mondo pochi inseguono una vita vera!

Tante volte ho dovuto confessare che il mio è veramente un microcosmo, limitato e monocorde, ma non per questo è meno interessante ed offre meno spunti per la riflessione.

Io ho sempre ammirato il monaco americano Thomas Merton, che elabora una mistica profonda ed una vera spiritualità partendo da episodi, sensazioni o intuizioni apparentemente semplici, quasi banali, però egli, prendendo spunto dalle emozioni che questi impatti con la realtà provocano nella sua sensibilità di santo e di artista viene portato ad una religiosità viva, attuale e convincente.

Io non ho certamente la statura spirituale e letteraria di questo “monaco anomalo” cresciuto in una società ed in una cultura pragmatica, o per meglio dire nevrotica, che apparentemente non sembra possa favorire la meditazione e la mistica. Sta di fatto che egli elabora il suo pensiero e la sua lettura religiosa della vita salendo verso l’alto da questi piccoli gradini.

Qualche tempo fa, dialogando con una relativamente giovane signora istriana, che aveva perso il marito e aveva un figlio fortemente handicappato, ebbi parole di comprensione e di compatimento, ma con mia viva sorpresa ella reagì e mi fece notare: «E’ vero che il mio matrimonio è durato solamente quindici anni, ma in compenso sono stati quindici anni intensi di vero e splendido amore. Non invidio altre signore, il cui matrimonio è durato quaranta e perfino cinquant’anni, ma che ebbero col marito un rapporto meschino, freddo, senza slanci e senza vero amore».

La qualità della vita per ogni persona ha un’importanza fondamentale. Purtroppo viviamo in un mondo in cui la gente non punta ad una vita vera; si lascia purtroppo vivere in una routine senza profumo e senza colore. Questa però è una povera vita alla quale, credo, non bisogna rassegnarci.

L’umanità di San Paolo

Credo che ognuno abbia il diritto di avere degli amici preferiti. Io non ho mai nascosto di avere una preferenza particolare per l’apostolo san Giacomo piuttosto che per san Giovanni. La franchezza e la concretezza di san Giacomo mi hanno sempre entusiasmato perché non la tira mai per le lunghe, non si concede svolazzi mistici, ma va al sodo immediatamente.

Nel periodo dopo Pasqua, quando la Chiesa ci fa leggere per settimane di seguito pezzi di vangelo di san Giovanni, che rimescolano in maniera monotona i soliti concetti, confesso che li affronto talvolta con disagio e talvolta perfino con un po’ di stizza. Spero che san Giovanni non me ne voglia e credo d’avere la sua comprensione, sapendo di poter contare sulla virtù di un santo.

Devo però confessare che non solamente ho le mie marcate preferenze nel mondo dei santi, dei profeti e dei testimoni dei tempi antichi e del nostro tempo, ma pure di certi scrittori sacri prediligo alcune opere piuttosto che altre.

Tutti inneggiano alla sublimità della dottrina di san Paolo e in verità ha delle grandi intuizioni, espone i passaggi fondamentali del pensiero di Cristo con competenza, anche se talvolta indulge con un periodare un po’ aggrovigliato in cui è facile perdere il filo del discorso, ma il san Paolo che prediligo e che amo è quello in cui questo convertito dimostra tutta la sua calda umanità.

La lettera a Filemone in cui Paolo affida alla comprensione e alla misericordia del padrone, ormai cristiano, lo schiavo Onesimo, anche lui convertito, ma sempre reo di fuga e quindi passibile di condanna capitale, è una lettera di una calda e struggente umanità. Così le parole con cui Paolo s’accomiata dall’amata comunità di Efeso, fanno emergere tutta la dignità e contemporaneamente tutta la tenerezza verso questi “suoi figli” che egli aveva generato alla fede.

Questo san Paolo, una volta in più, mi convince che la fede arricchisce quando “il seminatore” ama in maniera vera e profonda le persone alle quali si rivolge; questo san Paolo non è certamente meno importante del san Paolo teologo intelligente ed acuto, però è un santo che scende dalla “stratosfera teologica” per condividere con la gente la sua calda e ricca umanità.

Papa Wojtyla

Papa Wojtyla è stato una persona così profondamente umana, coraggiosa, innovativa e nello stesso tempo così asceticamente forte, che i mass-media continuano ad interessarsi di lui, a scandagliare nel profondo della sua vita.

In questi ultimi anni mi è capitato di leggere articoli su articoli sulla personalità così complessa e poliedrica del Papa polacco, moderno e conservatore ad un tempo, però in dialogo costante col mondo, in posizione di forza, consapevole di essere portatore di un messaggio liberatore di cui l’uomo moderno ha assoluto bisogno.

Nello stesso periodo mi è capitato ancora di frequente di vedere servizi televisivi quanto mai interessanti, seppur di diverso valore, ma sempre testimonianti l’estrema attenzione e il grande fascino che questo Papa ha esercitato, sempre da protagonista, negli ultimi vent’anni del `900.

Quante e quante volte mi sono chiesto quale sia stato il segreto, la sorgente di questa capacità di interessare amici e nemici, di influenzare il corso della storia, di dialogare con i popoli e le culture più diverse. Non è facile dare una risposta a questi quesiti, ma ritengo che sia doveroso porcela, perché Papa Wojtyla ha impersonato il vecchio Cristianesimo in maniera moderna, comprensibile a tutti e condivisibile da molti.

Nel mio animo mi pare di intravedere, magari confusamente, ciò che di questo Papa ha affascinato il mondo. Papa Wojtyla coltivò un sano ed autentico umanesimo, fu un uomo libero fino in fondo, ebbe sempre la consapevolezza di offrire un messaggio valido, il più valido; si pose in dialogo con le nuove generazioni senza complessi e senza concessioni di comodo. Papa Wojtyla rifiutò quei complessi di inferiorità culturale che spesso affliggono gli uomini di Chiesa, si aprì ad un sano rapporto umano con credenti e non credenti, coltivò il suo fisico mediante lo sport, si permise momenti di vita vera, fuori dal mondo artificioso ed incartapecorito del Vaticano, con le sue colazioni con gli amici, tra i monti; infranse tutti gli schemi di quell’ascetismo cristiano artificioso, malinconico e pessimista nei riguardi della società. Papa Wojtyla, pur senza darlo da vedere, “picconò” un certo passato e “seminò” il futuro, o almeno il presente nella Chiesa italiana ed universale.

Non potrò mai tollerare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere di parte del clero!

Quando sono andato in pensione, cinque anni fa, ho dovuto disfarmi della mia “biblioteca” perché, mentre la canonica di Carpenedo è un grande edificio (che faceva esclamare alla mia perpetua, con un pizzico di ironia e di disprezzo, perché non favoriva l’intimità familiare: «Questa non è una casa, ma un municipio!»), la mia nuova abitazione è una specie di cella monacale in cui ci sta solamente l’essenziale. Un vecchio armadio di noce contiene ora tutti i libri in mio possesso.

Confesso però che, mentre non mi è mai costato molto liberarmi di centinaia di volumi, che poi non mi sono mai serviti, come non servono a niente tutte le biblioteche dei preti, ora ho riempito tutto lo spazio con le varie raccolte de “La Borromea”, di “Carpinetum”, de “L’anziano”, de “L’incontro” e dei numerosi volumi che prima con l'”Editrice Carpinetum” ed ora con l'”Editrice de L’incontro” siamo andati a pubblicare in questo mezzo secolo della mia vita pastorale che ha avuto la stampa come protagonista.

Ogni tanto mi lascio risucchiare dai ricordi e dalla nostalgia e sfoglio qualcuno di quei volumi, che tutto sommato fanno un tutt’uno con la mia avventura sacerdotale.

Qualcuno di questi volumi, nonostante io li custodisca con cura gelosa, comincia ad ingiallire nella carta, come pure nei contenuti. La vita, la nostra vita, è quella che pulsa nel cuore e nelle vene oggi, il passato è un po’ il “rudere” di noi.

Qualche giorno fa ho ripreso in mano la raccolta della rivista mensile di quella parrocchia che oggi è chiamata “Il duomo”, mentre ai nostri tempo si denominava più prosaicamente “San Lorenzo”. Quante nottate passate con monsignor Vecchi, che correggeva i testi a non finire, tanto che le pagine diventavano dei geroglifici, un vero rompicapo per i tipografi. Ricordo ancora certi inviti perentori di monsignore: «Armando, fammi una didascalia, scrivimi un pezzo sui giovani e butta giù un po’ di cronaca su quell’incontro».

Ogni tanto qualcuno dei miei vicini mi dice che sono troppo esigente con me stesso e con gli altri, più spesso mi dico che sono troppo caustico con i preti. Credo che questi “critici” abbiano ragione. Da parte mia ho avuto nel mio passato un’avventura sacerdotale con i miei parroci – mons. Mezzaroba, mons. Da Villa e mons. Vecchi – così bella e così intensa che non riesco, non posso e non voglio tollerare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere, che ora mi pare siano imperanti anche nel clero veneziano.

“le corti” e il Vangelo, un rapporto un po’ difficile!

Al mattino ascolto sempre, non perché mi interessi troppo, ma perché l’orario della rubrica coincide con il tempo che dedico alla toilette personale e al rifacimento del letto, “Il santo del giorno” di Rai uno, tenuta dal prelato mons. Cosmo Francesco Ruppi. E’ una rubrica di cui sono poco entusiasta perché è sempre un po’ ampollosa e convenzionale. A parere di questo ecclesiastico, i nostri “vecchi santi” raccolgono ancora grandi simpatie dalla nostra gente e il loro culto è ancora in auge, mentre in realtà essi sono purtroppo relegati nelle guide turistiche delle chiese in cui sono sepolti o di cui sono titolari.

Qualche giorno fa tirai le orecchie sentendo che proprio in quel giorno si celebrava san Celestino V, definito in maniera un po’ sprezzante da Dante, che ebbe motivi in realtà futili, d’avercela col suo successore Bonifacio VIII, “il Papa del gran rifiuto”. Il cronista raccontò sommariamente la storia ufficiale di questo Papa che, unico fra tutti i Papi, rinunciò al soglio pontificio per ritirarsi a pregare in solitudine.

Io non ho mai dedicato tanto tempo ed attenzione a questa vecchia storia, conosco solamente le vicende che vennero prima, durante e dopo questo povero diavolo di Papa, attraverso il volume di Silone “L’avventura di un povero cristiano”. Silone, socialista, pur non intruppato nella disciplina del partito, è rimasto sempre un po’ anticlericale, anche se accolto amorevolmente da don Orione tra i suoi orfanelli.

Mentre sentivo il racconto convenzionale del prete che redige la rubrica, mi venne in mente un episodio del racconto di Silone che scrive che portarono a firmare una serie di documenti a Papa Celestino. Egli pretese che lo si informasse sul contenuto e il segretario gli disse, con candore curiale, che si trattava dell’aumento del tariffario che si praticava nei bordelli degli Stati Pontifici! Povero Celestino! Santo, semplice e povero come era, come poteva coniugare la sua aspirazione ad essere un autentico discepolo di Gesù, con un mondo che era avvezzo a tutti i compromessi?

S’è spento da poco il clamore dello scandalo del vescovo Marcincus e siamo nel 2000, non ai tempi di Celestino, ed ora si parla già di un altro filone di intrallazzi finanziari che pare abbiano a che fare con le banche vaticane! Non so se il Vaticano abbia sfornato tanti santi tra i suoi monsignori, funzionari di curia, ma di certo mi pare che ci sia una qualche difficoltà tra “le corti”, siano pure ecclesiastiche, e il Vangelo.

Quell’intollerabile retorica!

Io odio la retorica, qualsiasi retorica! La retorica patriottarda, che il nostro Capo di Stato pare voglia alimentare, finisce per resuscitare ciò che sembrava, se non morta, almeno in calo. Questo inconveniente ogni tanto fa capolino, ma peggio ancora arrischia di fare i disastri che ha fatto nel passato.

Io ho sempre presente una frase di Pittigrilli, un autore che oggi è pressoché dimenticato. Il quale affermava che dietro a certe parole magiche, quali libertà, democrazia, giustizia, Patria, popolo e via dicendo, si nascondono gravi magagne; esse sono come dei paraventi dietro cui si nasconde tutta la sporcizia di una società falsa e corrotta. Ogni tanto avvengono, per i motivi più diversi, queste sbruffate di retorica della Patria, della resistenza, dei crocifissi, della democrazia, o certi altri valori, certamente nobili e condivisibili, ma che sono usati talvolta con disinvoltura e talaltra con cinismo da parte dei protagonisti, spesso interessati, della vita pubblica del nostro Paese.

Quando apprendo le decine e centinaia di migliaia di crimini derivati dalla “resistenza”, dal fascismo, dal comunismo, mi vengono i brividi, anche se bandiere di diverso colore, bande con musiche diverse e parole bolse tentano di coprire la sofferenza, la morte di tante creature umane.

A me piacciono i giovani che issano il tricolore sul pennone della città, non il tricolore che avvolge le bare di giovani mandati a morire contro altri giovani per gli interessi di altri ancora!

Ad accendere nella mia coscienza questo “odio” è stata una delle lettere dei soldati tedeschi assediati a Stalingrado in partenza con l’ultimo aereo tedesco verso la Germania. Diceva l’autore di una di queste lettere inviata ai suoi amici: “Io sul palcoscenico ho recitato tante volte la parte del soldato che muore gloriosamente per la Patria, suscitando gli applausi della platea. Altro però è vedere i soldati morire qui in mezzo al fango, nelle trincee gelide. L’altro ieri ho visto un soldato impigliato tra i cingoli del suo carro armato bruciare come una torcia umana, mentre chiamava disperatamente sua madre!”

Oggi non posso più sopportare la retorica dei nostri parlamentari o dei nostri presuli, ma non riesco neppure più ad accettare quella che riguarda il passato. Ormai è tempo di essere onesti e di cercare assieme, mediante il dialogo, il bene e la felicità dell’uomo, anche se è tanto difficile farlo. Le scorciatoie tradiscono sempre e non portano lontano!

Il buonsenso perduto

Credo di essere diventato pian piano una specie di “Rifugium peccatorum” per gli addetti ai mass-media. Quando pensano di aver bisogno di un parere da parte di un prete, che non risponde secondo i manuali, ma interroga la sua coscienza e poi dice apertamente il suo parere, ricorrono facilmente a questo povero vecchio.

Io accetto sempre per molti motivi: primo, perché anche questi giornalisti sono fratelli da aiutare, secondo perché ritengo doveroso che ognuno dia il suo contributo alla ricerca del bene e della verità; perché non dovrei contribuire anch’io? Terzo: spesso anch’io ho bisogno di loro e perciò è giusto che “una mano lavi l’altra”! Il guaio è che in certi settori ho acquisito una certa competenza, mentre in molti altri sono anch’io l’uomo della strada che non possiede ricette sperimentate.

Qualche giorno fa “Antenna veneta” mi chiese un parere su un fatto un po’ scabroso. Un quindicenne avrebbe avuto delle attenzioni morbose nei riguardi di ragazzini che andavano al catechismo in una parrocchia. Io, ripeto, non sono né uno psicologo né un sociologo, sono semplicemente un uomo che ha vissuto una vita intera tra gli uomini. Risposi che ritenevo soltanto dannoso che la stampa se ne occupasse, suscitando un altro polverone sui già troppi polveroni che sono per l’aria per la omofobia, la pedofilia, la omosessualità e via dicendo. In queste cose, una volta accertata la verità, senza bisogno di carabinieri, del tribunale e di quant’altro, il parroco metta la situazione sotto controllo, inviti i genitori dell’imputato quindicenne a farlo aiutare da gente esperta e competente e tenti di sgonfiare un problema che può magari essere inesistente.

A questo mondo un po’ di buonsenso conta di più di tutta la “Benemerita”, la polizia di Stato, la magistratura e tutto il resto di un mondo che chiacchiera spesso per niente e mescola aria fritta!

Purtroppo il nostro “Tonino nazionale” ha fatto la sua fortuna elettorale con l’aiuto della magistratura, su un certo legalismo formale, infettando l’intera opinione pubblica su discorsi che finiscono per favorire l’illegalità e la perdita di valori.

Spunti di riflessione davvero preziosi!

Più di qualche amico mi ha fatto osservare che parlo troppo spesso di vecchiaia e di problemi inerenti la morte. Sono d’accordo con loro, però a mia difesa o “discolpa” debbo dire che vivo al “don Vecchi”, luogo in cui tutte le problematiche dei residenti e della direzione vertono quasi esclusivamente sulla vecchiaia e il tempo in cui non sono al “don Vecchi” lo trascorro in cimitero,

In questi ambienti che cosa posso incontrare di esilarante e di molto diverso dalle considerazioni che questi due ambienti mi suggeriscono?

Detto questo, debbo pur affermare che sia la casa degli anziani che quella dei morti offrono degli spunti quanto mai stimolanti per la riflessione, per la saggezza e fors’anche per la santità. Sapeste quante volte mi piacerebbe che qualcuno potesse ascoltare certi discorsi che sento e fare le esperienze che questi ambiti di vita mi offrono.

Da tanto tempo osservavo una signora di mezza età che se ne stava un bel po’ davanti ad uno dei cippi dei “campi comuni” del nostro cimitero. (Fare questa osservazione non è cosa rara, spesso queste care donne puliscono il piccolo marmo, riordinano i fiori, tagliano l’erba con la forbice; in una parola “accarezzano” ciò che copre i resti della persona amata). Però avevo osservato che questa signora, dopo aver fatto queste piccole incombenze per le quali serve poco tempo, se ne stava ancora a lungo borbottando qualcosa. Mi accostai, ormai la mia figura è di casa in camposanto, perché è una vita che lo frequento. Chiesi quale fosse il motivo del parlottare fitto fitto. Lei con tenerezza, e nello stesso tempo con grinta, mi rispose senza batter ciglio: «Sono qui a rimproverare mio marito perché mi ha lasciato troppo presto, con tutte le difficoltà e i guai che una donna sola deve affrontare; i patti non erano questi!» Poi mi guardò perplessa per vedere la mia reazione. Le misi una mano sulla spalla e lei s’acquietò.

Questa è la fede nell’aldilà che mi piace, non quella delle formule mielose di certe preghiere. Da allora m’è più facile dialogare con tutta quella cara gente che riposa accanto alle strade sconnesse del nostro cimitero.