Le persone umili sono quelle che sorreggono il nostro mondo!

So che tanti miei amici e tanti concittadini, che seguono le vicende dell’ultima stagione della mia vita, leggendo “L’incontro” non amano troppo che io parli del cimitero e della morte. Dovrebbero però pensare che essendo “questo mondo” la mia occupazione principale, non posso non esserne toccato e sollecitato. D’altronde dobbiamo pure convenire con il cardinale Roncalli che ripeteva di frequente: «Memento novissima tua et in aeternum non peribis» (ricordati delle ultime cose: morte, giudizio, inferno e paradiso e non perirai in eterno).

Allora, un po’ per il primo motivo ed un po’ per il secondo, spero che mi si conceda di ritornare su queste grandi verità. Comunque oggi vorrei trattare solamente marginalmente questo argomento.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano (traduco: il funerale) di una delle poche donne superstiti che non si sposano o per fare le perpetue – ma questa specie è ormai estinta – o perché sono state a servizio fin dall’infanzia da padroni ai quali si sono affezionate talmente da non riuscire a staccarsi, o perché hanno finito per accudire i nipoti o, infine, perché sono rimaste fedeli ad un amore che non ha avuto sbocchi.

Ricordo una di queste creature da un lato perché aveva un nome strano e raro, Zolema, e un po’ perché al funerale sono intervenuti una ventina di nipoti per i quali lei aveva speso la vita. Purtroppo, nonostante questa dedizione, finì i suoi giorni in una casa di riposo lontano dal luogo in cui visse!

La nipote mi tratteggiò la vita della vecchia zia, me ne parlò tanto bene e con tanta tenerezza che celebrai più volentieri il funerale e invitai con più convinzione del solito i congiunti a raccogliere “la ricca eredità” di valori e di esempi ch’ella lasciava loro.

Mentre, nella breve omelia, dicevo ai presenti di accogliere, custodire e arricchire la notevole eredità che questa creatura buona e generosa lasciava loro, mi sovvenne il pensiero di queste belle creature che, nel silenzio e in una vita modesta e di sacrifici, sono gli elementi più pregiati del nostro mondo. Diceva infatti mons. Vecchi che quando un visitatore entra in una chiesa, cerca con l’occhio i capitelli lavorati e non si accorge che quell’edificio rimane in piedi solamente perché ci sono umili pietre, coperte dall’intonaco, che lo sorreggono.

Mi è stato di grande consolazione e conforto il pensiero delle pietre sotto la malta a confronto di tanta gente vanesia ed effimera che troppo spesso tien banco sull’opinione pubblica offrendo solamente “aria fritta”!

Il primo approccio

Il mio primo approccio col nuovo Patriarca è stato un po’ particolare, tanto che sto aspettando con curiosità di vedere che conseguenze potrà avere. La premessa di questo approccio è stata la seguente: una ventina di anni fa il Patriarca di allora, che penso sia stato il cardinal Luciani, il futuro Papa che guidò la Chiesa per appena un mese, probabilmente essendosi accorto delle iniziative che avevo posto in atto in parrocchia a favore degli anziani (il Ritrovo, quella specie di club per gli anziani, antesignano di quelli che sarebbero sorti ovunque negli anni successivi; il mensile “L’anziano”; la villa asolana per le vacanze dei membri della terza età; la rubrica radiofonica “Nonna radio” a Radiocarpini, e i primi esperimenti residenziali: Ca’ Teresa, Ca’ Dolores, Ca’ Elisa, Ca’ Elisabetta) mi chiese di occuparmi della pastorale degli anziani, istituendo un “ufficio” solamente nominativo.

Io presi sul serio il compito. Ricordo una assemblea cittadina nella chiesa del Sacro Cuore, quando riempimmo la chiesa di capelli grigi e bianchi, ed un’altra in San Marco, pure con grande successo.

Sotto lo stimolo del mia staff di collaboratori, nacquero pure parecchi gruppi di anziani, soprattutto a Mestre. Mi accorsi però abbastanza presto che la curia mi aveva lasciato solo e i parroci, senza lo stimolo del “governo”, non amavano troppo caricarsi di nuovi impegni, specie quei preti che di impegni ne hanno ben pochi.

Rassegnai le dimissioni. Dapprima insistettero un poco, poi mi dissero che suggerissi un successore, poi molto probabilmente si dimenticarono del tutto la cosa.

Nell’organigramma, molto consistente, pubblicato nell’annuario della chiesa veneziana, per dimenticanza o perché non sembrava bello lasciare una casella vuota, mantennero il mio nome. Fatto sta che all’indomani dell’ingresso del nuovo Patriarca, essendo stata convocata una riunione di tutti i responsabili delle varie attività pastorali per informare il nuovo vescovo, arrivò anche a me l’invito a partecipare in qualità di direttore dell’ufficio per la pastorale degli anziani.

Mi parve scortese non presentarmi al nuovo Patriarca, allora pensai di scrivergli per informarlo di come era andata la cosa e che da quindici anni non occupavo più quell’incarico. Spero che la lettera di scusa per non partecipare all’incontro mi abbia evitato il pericolo di mostrarmi scortese nei suoi riguardi, ma anche possa il nuovo Vescovo accorgersi di che polli sia composto il suo pollaio!

Ricordando un vecchio film

Tanti anni fa ho visto un film abbastanza mediocre, uno di quei film popolari da cassetta, che aveva come protagonista il nostro indimenticabile Mastroianni, attore insuperabile nell’interpretare lo spirito bonaccione dell’italica gente.

Credo di ricordare questa pellicola soprattutto perché il mattatore romano interpretava la figura di un prete in carriera. Tento di ricostruire alla buona la trama del film, una trama abbastanza superficiale e banale, ma che ha toccato uno dei nervi scoperti del mio animo di vecchio prete che cerca di chiudere la sua esistenza in maniera coerente alle sue scelte di vita.

I protagonisti sono due preti che avevano studiato assieme. Una volta diventati sacerdoti uno s’è piazzato in una ricca e nota parrocchia del nord, mentre l’altro è andato a finire in una piccola e povera parrocchia dell’Appennino, in cui stenta a vivere e, coerente alle sue scelte, doveva affrontare con difficoltà le problematiche della sua gente bisognosa di tutto.

Il compagno, disinvolto e senza scrupoli, in carriera viene convocato a Roma per occupare un posto ambito nella curia romana; vuole far visita al suo amico del seminario che vive tra tante difficoltà tra la sua povera gente, difficoltà che diventano ancora più pesanti dato il suo carattere austero e rigoroso e l’impegno con cui tenta di aiutare la sua gente. Mastroianni arriva un bel giorno nel paesino e suona alla porta della povera casa dell’amico, il quale esce accogliente per abbracciare il confratello disinibito che aveva fatto strada. La sorpresa del buon curato di campagna è notevole, vedendo il vecchio amico rubicondo, ilare e disinvolto con la sua fascia rossa da monsignore, arrivare in auto di grossa cilindrata accompagnato da una vistosa ed avvenente segretaria. Il monsignore, con aria che sapeva di paternalismo, racconta all’amico curato le sue imprese e i progetti ambiziosi che culla. Ognuno può facilmente immaginare Mastroianni, istrione per natura, nella veste del prete viveur. La breve visita si conclude con qualche consiglio dell’aspirante vescovo nei riguardi del curato tutto dedito al suo apostolato.

Rientrato in canonica il povero prete non riesce a non confrontare la sua situazione piuttosto grama con la vita brillante e disinvolta dell’amico.

A me capita qualcosa del genere quando, andando a portare la buona stampa due volte la settimana in ospedale, passo davanti ad una villetta in margine al bosco che un mio collega s’è preparato per la sua vecchiaia.

E’ vero, sono stato io a scegliere il mio quartierino al “don Vecchi”, sono stato io a volermi impegnare per gli anziani, a condividere la sorte dei poveri, e rifarei ogni giorno la mia scelta, ma ogni volta che passo davanti alla villetta del mio collega la mia scelta mi costa un po’ di più! Credo che dovrò aggiungere ancora una preghiera per ritrovare la pace che avevo prima.

La carezza di Dio

Una decina di anni fa ho accompagnato gli anziani della parrocchia al monastero benedettino di Praglia, perché potessero rendersi conto della spiritualità e del regime di vita che è proprio della regola che San Benedetto di Norcia ha redatto per l’ordine religioso che ha fondato, ordine che è stato un pilastro di civiltà per i secoli bui della Chiesa ed anche per la società civile.

La regola di san Benedetto rappresenta un ordinamento religioso di prim’ordine nel quale si propone ai monaci il lavoro manuale e nel contempo la lode a Dio che si compendia nella massima benedettina: “ora et labora”.

In quell’occasione abbiamo avuto modo di visitare una mostra di icone russe che aveva per tema la Vergine.

Fui colpito non solamente dalla bellezza composta e sublime delle tavole provenienti dalla Santa Russia, ma soprattutto dai titoli su ogni immagine della Madonna: Vergine della tenerezza, Vergine della letizia, Vergine della soavità, ecc. Veramente sono stato felicemente sorpreso che la produzione iconografica di quel mondo lontano mettesse in luce questi aspetti delicati, gentili e profumati di poesia e di sentimento che normalmente sono quanto mai trascurati dalla nostra tradizione religiosa che risente ancor troppo dell’illuminismo, del razionalismo e del positivismo che hanno inaridito l’aspetto più delicato e gentile del nostro sentire umano.

In questi giorni, in cui sta scoppiando primavera, nonostante il cielo non ci abbia ancora donato, come nel passato, “la pioggerella di marzo”, sono andato, per associazione di idee, a questo ricordo e a questa esperienza ormai lontana.

I colori delicati dei fiori e delle piante, il tepore dell’aria e la dolcezza del cielo, mi hanno fatto sentire la tenerezza di Dio che assume in sé la ricchezza del padre e della madre, aspetti di Dio, dei quali ci ha parlato Papa Luciani in quei pochi giorni che ha potuto parlare al mondo, affermando che Dio è contemporaneamente Padre e Madre.

In questi giorni così dolci e soavi, nei quali non cesso un istante di inebriarmi del respiro caro e gentile della primavera, m’è parso di avvertire la “carezza di Dio”, ossia un’attenzione delicata e dolcissima del Signore verso di noi, sue povere creature. Il Signore, nonostante tutte le nostre miserie, non cessa di manifestarci, con segni belli e gentili, il suo amore, che è ricco della virilità del padre e della delicatezza della madre.

Quei “buoni cristiani” che a volte non ci sentono proprio

Pare che parecchia gente si rifaccia ad una massima del compianto cardinal Urbani, Patriarca di Venezia in anni difficili. Infatti ho sentito dire, più di una volta, il mio vecchio patriarca Urbani, il Vescovo di Venezia ai tempi in cui infuriava la contestazione: «Quando hai bisogno dell’aiuto di qualcuno, non andare a chiederlo a chi non ha niente da fare e non è impegnato, perché ti dirà di no; chiedi invece il favore a chi è molto impegnato, vedrai che in qualche modo troverà la possibilità di darti una mano».

Questo detto sapienziale mi attutisce il colpo quando qualche “anima candida” mi manda qualcuno in difficoltà, nelle ore più impensate, perché l’aiuti a risolvere i suoi problemi impossibili.

Da sempre ho deciso di scegliermi un tassello delle infinite nuove e vecchie povertà per occuparmi solamente di quello, perché convinto che chi cerca di far tutto finisce per non far niente di fatto bene.

Io ho scelto di occuparmi della residenza degli anziani poveri e questa scelta mi impegna tutto il tempo e tutte le risorse di cui dispongo. Però c’è spessissimo qualche “anima pia”, e purtroppo qualche altra furbastra che quando le si presenta qualche persona in difficoltà, “risolve il caso” dicendole: «va da don Armando, lui ha la possibilità di aiutarti».

Quando si tratta di “anime candide” porto pazienza, anche se “i buoni cristiani” dovrebbero sempre sporcarsi le mani col prossimo in difficoltà e non scaricarle sul prete. Ma quando invece si tratta di persone furbastre, allora la ritengo una vera mascalzonata ignobile e ingenerosa!

Un paio di settimane fa, nel lasso di pochi giorni, per ben tre volte sono state mandate da me tre creature in situazioni impossibili, per le quali io non sono attrezzato a dare una risposta esaustiva.

La prima, una signorina in pensione che viveva col padre vedovo il quale, avendo trovato una nuova compagna, ha buttato fuori la figlia. Quando mi ha telefonato, su suggerimento di “un buon cristiano”, da una settimana dormiva in macchina.

La seconda: mi si è presentata una giovane donna con un bambino di tre anni. Mi raccontò che, scaduto il termine di affitto, il compagno aveva riconsegnato le chiavi di casa al relativo padrone e lui se ne era ritornato in Serbia. Mi disse che il parroco vicino l’aveva mandata da me perché le dessi da dormire per la notte e che l’indomani avrebbe attivato i servizi sociali del Comune.

La terza: una romena che aveva perso il lavoro per la morte dell’anziano che assisteva. Da una settimana viveva per strada. Ancora una “buona cristiana” su suggerimento del suo parroco, ha suonato al mio campanello, perché a lei faceva pena.

Quando ho proposto “La Cittadella della Solidarietà” non c’è stato uno, dico uno, che mi abbia appoggiato.

Per fortuna ho potuto ricorrere a quell’angelo di ragazza che si occupa del Foyer San Benedetto che, con una generosità infinita, tutte tre le volte mi ha aiutato per l’immediato. Però a Mestre ci vuole ben altro; purtroppo però preti e buoni cristiani non ci sentono da questo orecchio!

Cari concittadini, amate la vita!

Vi sono delle verità, delle sentenze, dei proverbi o delle immagini che – non so perché – mi rimangono impresse e non le dimentico come avviene per tantissime altre cose. A me piace Guareschi, sornione, ricco di humour e di poesia, scorrevole ed immediato.

Di questo autore, in questi giorni di primavera in cui la natura si veste di colori tenui e dolci, di incanto e di delicata poesia, mi sovviene un episodio di cui credo di aver parlato altre volte. Don Camillo, in una recita all’asilo parrocchiale, fa dire al figlio di Peppone una poesia. Il sindaco rosso si indigna perché il prete reazionario ha tentato di rovinargli politicamente il figlio. Tuttavia, finita la recita, si prende sottobraccio il bambino, se lo porta in aperta campagna tra i filari di viti e gli fa recitare per dieci volte la poesia. E poi conclude commosso: “Anche quando trionferà il proletariato dovranno rimanere le poesie!”

Talvolta, soprattutto nel passato, qualcuno mi ha fatto osservare che ero un po’ romantico, che premevo di frequente i tasti del sentimento. E’ vero, non me ne vergogno, io ritengo che la meraviglia, l’incanto, lo stupore e il sentimento, siano delle componenti importanti della persona e guai a non possederle, perché ci si ridurrebbe ad essere pressoché dei robot.

L’uomo di oggi corre questo pericolo, perché si colloca esattamente al lato opposto del romanticismo, diventa indifferente, arido, senza emozioni e senza sogni.

Mi domando di frequente: “Ma la mia gente si è accorta che è primavera? Si è accorta di quant’è bella questa stagione così leggiadra e vezzosa? Si è accorta di quant’è bello il cielo, il prato con la dolce sinfonia dei suoi colori, gli alberi che stanno gemmando, i cespugli in fiore? Si è accorta degli occhi grandi dei bimbi e dell’armonia delle nostre donne?! Povera gente, in costante ricerca di emozioni forti e volgari!

Non auguro a nessuno alcune esperienze che ho fatto essendomi dovuto sottoporre a degli impegnativi e pericolosi interventi chirurgici, comunque credo di dover confessare che ogni volta che sono tornato dalle corsie dell’ospedale mi sono stupito di non essermi accorto prima di quanto bella sia la gente, quanto cara la mia città che tutti definiscono anonima e città dormitorio. Tanto che ringrazio il Signore di quelle prove perché lo stupore e la meraviglia provati al ritorno, m’hanno ripagato a iosa di quelle esperienze dolorose.

In un bellissimo volume che ha toccato le corde più profonde e più sacre del mio animo, “Le ultime lettere dei condannati a morte della resistenza europea”, ricordo le parole accorate di una ragazza ventenne che, prima di salire sul patibolo, scrive ai suoi cari: “Ziette care, anime mie, ricordatemi con amore, ma amate la vita, amate l’amore, godete anche delle cose più semplici e quotidiane. Mentre mi congedo da voi mi par di sentire gli odori e i rumori della nostra casa, l’odore delle patate bollite, il tintinnio delle posate. Quant’è bella la vita! Amatela e godetela appieno!”.

Mi auguro che i miei concittadini possano scoprire le tante cose semplici e belle della vita, senza dover salire sul patibolo.

Un prete per il don Vecchi di Campalto

A Campalto la casa degli anziani del “don Vecchi” è bella e luminosa, circondata da una campagna verde ed ubertosa, l’arredo è quanto mai signorile e la galleria di quadri ben fornita di quadri di tutti gli stili e per tutti i gusti. Pur tuttavia rimane quasi “una prigione dorata”. Se un residente desidera recarsi a Campalto o in qualsiasi altra località, deve farlo sempre con l’autobus di linea o in automobile, ma sono appena una decina gli anziani che ne posseggono una, mentre chi poi gode della pensione di 580 euro non può permettersi neanche la più scassata delle auto.

Per ora prosegue “la guerra di logoramento” contro l’ANAS e il Comune per avere i permessi a costruire una pista ciclo-pedonabile, però senza grandi risultati.

Anche per quanto riguarda la frequenza alla messa domenicale via Orlanda rappresenta la invalicabile “linea Maginot”! Supponendo che le cose sarebbero andate così, il giorno dell’inaugurazione avevamo usato lo stratagemma di donare “le chiavi della cittadella degli anziani” al parroco, don Massimo, per invogliarlo a frequentare il suo “possedimento”. Fatica sprecata, perché il parroco di Campalto è un povero diavolo, solo soletto, che deve pensare ad una parrocchia numerosa.

Alla mancanza dell’Eucaristia settimanale finora abbiamo supplito con una “messa secca” celebrata dal signor Enrico Carmio. Al sabato, come nei Paesi di missione, il nostro laico conduce la liturgia della penitenza, della parola e della lode al Signore. Una trentina di anziani partecipa all’incontro religioso, ma penso non sarebbero molti di più anche se il nuovo Patriarca vi celebrasse il pontificale con tanto di mitria e di pastorale!

Ora la Provvidenza ci ha dato una mano con la richiesta di un vecchio prete in pensione e relegato in un quasi “esilio” in un paesetto di campagna del contado, di avere un alloggio al Centro. Don Valentino, il prete ottantenne, carico di acciacchi, è entrato per Pasqua, con grande gioia di Lino, Stefano – responsabili del Centro – e mia. Ora spero tanto che abbia il fascino del suo celebre omonimo e trascini attorno alla Mensa del Signore la maggioranza degli ospiti che, come sempre, sono donne, ma spero pure che ad esse si accodino anche gli uomini.

La curia ci aveva promesso un prete giovane, insegnante di teologia; s’è però rotto una gamba sciando e perciò non l’abbiamo visto. Speriamo ora che don Valentino, vecchio prete di campagna, pur con meno teologia, abbia parole più semplici ma anche più convincenti per portare a Dio le pecorelle del “don vecchi” di Campalto.

Il complicato puzzle dell’articolo 18

Sto sempre con le orecchie tese nel tentativo di capire se abbia ragione chi vuole abolire l’articolo 18 della legge proposta dal socialista Brodoloni, o se abbiano ragione “i tecnici” che ritengono che liberalizzando il mercato del lavoro si mette la necessaria premessa per una maggior produttività, per il richiamo di capitali stranieri e quindi per produrre un maggior benessere generale.

Nonostante l’ascolto attento di tanti dibattiti televisivi, non ho ancora capito se abbia ragione l’imbronciata ed aggressiva pasionaria della CIGL o la “colombella”, quel ministro fragile e cortese che l’università ha prestato al governo per ammodernare il mercato del lavoro e renderlo competitivo con i Paesi d’Europa e del mondo.

Tento di riordinarmi le idee e avere presente alcuni punti fermi che poi dovranno coniugarsi tra loro.

1. Le leggi del mercato non sono, nella loro sostanza, un’invenzione della destra, né della sinistra degli industriali: che due più due fanno quattro non l’ha inventato né la Fiat di Marchionne né i sindacati. Perciò di queste leggi non possiamo non tenerne conto.

2. Le leggi non sono però mai un idolo; esse sono nate e devono essere usate a favore di tutti gli uomini e perciò vanno sempre interpretate ed usate per il bene di tutti e non di qualche interessato.

3. E’ antisociale ed assurdo che per mantenere ancora dei privilegi possibili in un’altra condizione economica, s’arrischi di mandare a fondo il bene dell’intero Paese, come pare stia avvenendo. Purtroppo talvolta bisogna potare qualche ramo perché la pianta fiorisca e dia frutto. Di certo è giusto tagliare prima i rami inutili e quelli dannosi. Comunque ci vuole saggezza e grande esperienza e responsabilità nel potare.

4. Non dobbiamo, in ogni caso, permettere che gli avidi, gli egoisti, i privilegiati dalla sorte, solamente per arricchirsi ancora di più, si disfacciano dei più deboli e dei più indifesi. A questo mondo dobbiamo vivere tutti, però i disonesti e i perditempo bisogna avere il coraggio di metterli in condizione di non nuocere.

Capisco bene che è difficile mettere assieme queste componenti. Questo è un puzzle assai complicato ma con pazienza di certo si riesce a comporre il disegno.

Sindacati, industriali e governo dispongono di belle menti e pagate bene, che con un po’ di buona volontà dovrebbero trovare la soluzione.

Io posso solo sperare e pregare perché prima gli angeli custodi di questa gente si mettano d’accordo per poi far si che lo facciano anche i loro protetti. Così mi ha insegnato Papa Roncalli che di saggezza e di diplomazia ne possedeva molta.

Che fine hanno fatto gli educatori?

Un paio di settimane fa una mamma, veramente angosciata, mi ha riferito della situazione aberrante in cui suo figlio è venuto a trovarsi essendosi iscritto ad un istituto superiore del nostro Comune.

Il ragazzo, che io ho conosciuto in parrocchia da bambino, è un bravo ragazzo abbastanza timido, mite e buono. Ha scelto l’indirizzo scolastico che maggiormente gli si confaceva in rapporto alle sue risorse, però s’è venuto a trovare in un’autentica bolgia di scalmanati, giovani senza valori, violenti, razzisti, attaccabrighe, sguaiati ed indisciplinati all’ennesima potenza, che lo minacciavano avvertendo che era diverso da loro perché compìto ed educato.

La madre, che è una signora intelligente, una professionista affermata, s’è resa conto dell’estremo disagio in cui il ragazzo viveva, ha tentato di interpellare gli insegnanti e il preside relativo, trovandosi però davanti passività, impotenza ed ignavia, persone prive del senso di responsabilità. Quando poi a questa madre venne in mente di consultare internet, ove alcuni componenti gestivano un sito inerente alla classe, si trovò di fronte a una vera desolazione civile ed umana: volgarità di ogni genere, bestemmie, sesso, invettive contro gli insegnanti, deliri razzisti e rivoluzionari.

Credo che fenomeni del genere siano assai diffusi nelle scuole statali. Sono anni che i mass-media informano su fenomeni di bullismo violenti e volgari. Stiamo raccogliendo i frutti della contestazione che ha prodotto una generazione di insegnanti senza principi.

I cattivi maestri della politica e le campagne radicali per promuovere la tolleranza della droga, il permissivismo sessuale che introduce perfino nella scuola i preservativi e le rubriche squallide della televisione, hanno fatto il resto.

Questa sarebbe la scuola che dovrebbe non solamente fornire nozioni scientifiche necessarie per la vita, ma anche educare i giovani ad avere comportamenti almeno rispettosi della costituzione, la scuola che molti partiti difendono e propongono per la formazione delle nuove generazioni di cittadini?

Nella immoralità e nel disordine non s’è mai costruito nulla di positivo. Quello però che mi turba più di tutto è il fatto che siano scomparsi gli educatori, i responsabili, ossia coloro che un tempo si chiamavano i capi, che han la funzione di guidare ed educare ad una sana disciplina, ad un senso civico e ad una condotta morale che sono i supporti di ogni professionalità seria e costruttrice. Oggi pare che quasi più nessuno abbia il coraggio e si assuma la responsabilità di fare il capo, di far osservare ad ogni costo le regole che sono l’elemento fondamentale per una vita degna e civile. Oggi passi davanti a una scuola e già le mura, imbrattate da disegni stupidi e deturpanti, ti danno la misura di ciò che c’è dentro a quella scuola.

Per mezzo secolo ho gestito patronati, case per le vacanze di ragazzi e giovani, ma mai qualcuno s’è permesso di imbrattare i muri o essere volgare, semplicemente perché mai e poi mai glielo avrei permesso!

Quando ero in parrocchia mi accusavano di pretendere fin troppo il buon gusto, l’ordine e la disciplina. Fin quando genitori, insegnanti – mettiamoci dentro anche parroci e vescovi – prefetti, sindacati e magistrati, capi della polizia non prenderanno coscienza del loro ruolo di capi e non faranno rispettare le regole, non avremo mai una nazione seria, laboriosa ed una convivenza civile serena.

“Chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”

Qualche settimana fa me ne stavo solo soletto nella piccola sagrestia della mia “cattedrale” prefabbricata, da duecentocinquantamila euro, quando una signora, dall’apparenza ancor giovane, è entrata, dato che la porta era aperta. Pensavo che volesse ordinare una messa per i suoi defunti, invece mi disse che era passata solamente per salutarmi.

Mi capitano di frequente queste visite impreviste ed inaspettate di persone che l’atmosfera del cimitero spinge ad entrare in chiesa e sentire il bisogno di parlare con un sacerdote.

Fin dall’inizio del dialogo ebbi l’impressione che mi conoscesse bene perché parlava con un tono confidenziale. Pian piano compresi che ella mi aveva incontrato più di mezzo secolo fa. Disse di avermi conosciuto nella chiesetta di via Torre Belfredo e, sorridendo, soggiunse che aveva settant’otto anni.
Volli conoscere questa donna.

Il lontano ricordo del giovane prete di allora s’era coniugato con la lettura del mio diario, perciò mi sentiva come un prete amico a cui poter confidare le proprie vicissitudini.

Ella da giovane apparteneva ad un gruppo di ragazze poco più che adolescenti che si incontravano nella casa di riposo e che avevano come assistente spirituale un vecchio prete, un certo don Giovanni. Era un prete di poche risorse intellettuali, ma di grande fede. Lei se lo ricordava con tanto affetto e stima.

Ricordammo assieme una massima che ripeteva come il fondatore dell’ordine religioso che prese il nome dagli inviti che rivolgeva ad ogni occasione: “Fate bene, fratelli!”. Così il prete della Salute di mezzo secolo fa era invece noto, perché ogni discorso era inframmezzato da queste parole: “Bisogna diventare santi, grandi santi, presto santi!”.

Non so se la mia interlocutrice, provata dalla vita, specie per la salute quanto mai precaria di una sua figlia, sia diventata santa, comunque quel monito ho avuto l’impressione che sia rimasto un punto fermo al quale s’aggrappava nelle sue difficoltà.

Mi disse che le erano di conforto “Le confessioni di un ottuagenario”, che lei ravvisava nei miei scritti. «Mi danno serenità – diceva – mi aiutano, mi pare di sentirla vicina e mi incoraggiano quando sono disperata».

Chiacchierammo per una buona mezz’ora, prima del passato in via Spalti, quando c’erano le suore e le orfanelle, poi del suo presente, ancora più difficile. Mi salutò con tanto affetto, commossa, rinnovata da questo incontro più che amichevole, fraterno. Una volta ancora compresi che bisogna sempre seminare, con fiducia, ricordando il salmo che afferma che “chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”.

Penso che anche don Giovanni, il vecchio prete della Salute, sarà stato contento dell’incontro di questa sua “ragazza” col vecchio prete di oggi, ancora convinto che non bisogna mai lesinare nella semina.

La “Biennale di arte sacra” al don Vecchi di Marghera

E’ riuscita la prima edizione della “Biennale di arte sacra” presso la galleria del Centro don Vecchi di Marghera, come sempre, però m’ha fatto penare; non è una novità, io temo sempre per la riuscita delle mie “imprese”.

Inizialmente la risposta degli artisti tardava, s’avvicinava il termine per la presentazione e il numero delle opere pervenute era ancora assai scarso. Sennonché per la data fissata, arrivarono più di sessanta dipinti, molti dei quali di un certo pregio artistico, tanto che siamo convinti che l’iniziativa sia totalmente riuscita.

Il prof. Giulio Gasparotti, che è il decano dei critici del Veneto, assistito dalla dottoressa Cinzia Antonello, laureata in arte, hanno valutato attentamente i dipinti pervenuti, scegliendone 30 per la mostra, premiandone cinque e segnalandone altri cinque come meritevoli di particolare attenzione.

La Biennale l’ho fortemente voluta e l’ho voluta per motivi pastorali e più ancora per motivi religiosi. Ormai il discorso sulla teologia della bellezza si sta rapidamente diffondendo. Iddio si manifesta ed è anche facilmente riconoscibile ed adorabile attraverso l’armonia e la bellezza. Il bello diventa non solamente l’ostensorio di Dio, ma anche la sua diretta manifestazione.

Mi sono impegnato per questa biennale d’arte sacra perché solo gli artisti d’oggi possono dare al sacro, un volto comprensibile e rispondente alle attese dell’uomo del nostro tempo.

Il tema della mostra è stato “Maria di Nazaret”. Ho sempre ritenuto che la Madonna, che vive in cielo e accanto a noi, non la dobbiamo vestire con gli abiti di tre, quattro secoli fa, e non possiamo immaginarla con un tipo di bellezza legato al cinquecento o al settecento.

Terzo, e non ultimo, motivo è stato quello che come ci dovrebbe essere una pastorale del mondo del lavoro, del turismo o dell’agricoltura, così, a maggior ragione, dovrebbe essere posta in atto anche una pastorale specifica per il mondo dell’arte.

Chi ci pensa oggi a questo mondo così interessante, intelligente e sensibile, un mondo che ci può offrire la sovrana bellezza dei colori e delle forme?

Tornando in macchina per accompagnare il dottor Gasparotti a casa, abbiamo rievocato tante bellissime esperienze fatte assieme in questo settore, le amicizie nate con i migliori artisti della nostra città in questo scorcio di secolo.

Mi addolora e mi riempie di malinconia non essere stato capace di trasmettere a nessuno dei giovani preti la consapevolezza che anche l’arte gioca un suo ruolo nel salvare l’uomo dalla volgarità, dalla meschinità e dal pericolo del brutto. Spero che qualcuno raccolga questa esperienza della Biennale che può offrire la possibilità di cucire lo strappo avvenuto fra arte e fede.

I miei vecchi amici

I miei amici sono ormai sparsi ovunque, alcuni non li incontro da molti anni, altri mi capita di vederli nelle occasioni più disparate, una cerchia più ristretta invece mi è più vicina perché condivido con loro le vicende della mia vita. Tutti però li porto ugualmente nel cuore, per tutti chiedo ogni giorno al Signore che sia loro accanto e li protegga, anche se ho ormai dimenticato molti dei loro nomi e dei loro volti, poiché la mia memoria si confonde sempre più e il passato assume quel grigiore proprio delle nebbie autunnali della nostra laguna.

Quando ero giovane prete, a san Lorenzo, m’ero creato uno schedario col nome, l’indirizzo dei miei ragazzi ed ogni tanto lo sfogliavo, preoccupato che non avessero a perdersi, tanto che quando mi accorgevo che qualcuno si allontanava verso centri di interesse o compagnie diverse dalla comunità, intervenivo con una telefonata o una lettera.

Penso di aver sempre tenuto conto dell’ansia di Gesù che tutti fossero al sicuro nel gregge. Poi ho smesso perché la scuola e la parrocchia mi facevano incontrare un numero così consistente di “anime” che mi ci sarebbe voluta la Treccani per segnare tanti nomi e tante vite. Allora non era ancora nato il computer! Oggi però ho ancora un piccolo gruppo di amici che incontro più volte al giorno.

Raissa Maritaine ha scritto quel suo splendido volume sui suoi “grandi amici”: il marito, Leon Blois, Peghyi, Berxon ed altri ancora, quella schiera di intellettuali cristiani d’oltralpe vissuti a metà del secolo scorso, che tanto hanno influito sulla mia formazione spirituale.

Nella mia attuale grande “parrocchia”, in cui riposano decine di migliaia di concittadini in attesa della “resurrezione dei corpi”, ho la fortuna e l’opportunità di incontrare assai di frequente, accanto alla stradicciola che porta alla vecchia cappella, mons. Vecchi, prima mio insegnante di filosofia e di arte e poi mio parroco. Quanti sogni, quante discussioni appassionate fatte in tanti anni di vita vissuti intensamente assieme. Mi pare di rivederlo ritratto davanti all’isola di San Giorgio mentre guarda al futuro come Cristoforo Colombo verso il mondo nuovo, mentre sulla sua lapide ora gli angeli di bronzo di Gianni Aricò non cessano di suonare le loro trombe di bronzo verso il cielo.

Un po’ più in là don Giuseppe Fedalto, il mio compagno di banco. Con lui abbiamo trescato assieme per la traduzioni di latino o greco.

Sulla stradina che porta a nord è sepolto monsignor Visentin, il vicedirettore, vicario generale e poi aiutante di campo di monsignor Vecchi. Monsignor Visentin l’ho sempre pensato come “il cancelliere di ferro”, l’esecutore fedele dei superiori che eseguiva a testa bassa e senza discussioni la volontà dei capi.

Una decina di metri dopo c’è don Giorgio Busso, il prete ottimista e sempre sorridente che nei peggiori anni della contestazione ha cercato col lumicino, in tutta la diocesi “i chiamati del Signore” e poi fu il parroco che rubò letteralmente il cuore ai parrocchiani del mio paese natio.

Più discosto don Giancarlo Bonaldo. Quanto abbiamo duellato, a san Lorenzo, lui per far prevalere l’azione cattolica ed io gli scout!

Abbastanza vicino alla vecchia chiesa mons. Mutto, il vecchio parroco di Carpenedo. Un po’ più in là don Cristiano Colledan, il giovane prete che affrontò il cancro con coraggio e passò serenamente all’altra sponda.

Questi “vecchi amici” mi fanno tanta compagnia, mi aiutano, mi consolano e so che mi attendono presto. Son tanto grato di poter contare sul loro quotidiano incontro perché ognuno di loro ha sempre qualcosa di specifico da darmi.

“Libero e fedele”

Il responsabile di un’altra chiesa ha detto molto chiaramente ad una zelante nuova collaboratrice che non permetteva che portasse “L’incontro” nella “sua” chiesa.

Non sono riuscito a capire il perché, in quanto il suo predecessore, ad una mia richiesta, aveva acconsentito con entusiasmo, anche perché poi questo reverendo s’è lasciato scappare un apprezzamento positivo nei riguardi del nostro periodico.

La cosa mi è spiaciuta alquanto, pur sapendo che le mie prese di posizione – che, ripeto ancora una volta, nascono sempre dal vero amore che nutro per la fede cristiana e per la nostra comunità – possono essere talvolta graffianti. Ognuno però ha il suo modo di parlare e un periodico può offrire un messaggio solamente se riesce a farsi leggere. Fortunatamente “L’incontro” si fa leggere. Se non fosse così non aumenteremmo la tiratura di cento copie la settimana.

Nell’amarezza c’è stato anche un rovescio della medaglia assai positivo. La zelante collaboratrice non s’è persa d’animo ma, lo stesso giorno, ha “conquistato” altre due o tre postazioni collocando subito 100 copie in sostituzione delle 20 rifiutate e le ha collocate in negozi e pasticcerie.

Debbo dire che da sempre preferisco luoghi di distribuzione “laici”, ossia luoghi frequentati non solamente dai “devoti”, ma soprattutto dalla gente comune, molta della quale frequenta poco la chiesa. Ho sempre sognato di riuscire a parlare ai “gentili”, perché per i “figli di Israele” ci sono fin troppi preti a tener sermoni!

“L’incidente” che, ripeto, mi ha fatto male, ha rafforzato la mia scelta di mandare “L’Incontro” fin da subito al nuovo Patriarca, non certo nella speranza che egli abbia tempo da perdere con questo periodico senza pretese, o che mi faccia monsignore, ma, semmai, perché qualche suo collaboratore possa segnalargli argomenti o pensieri che egli crede non opportuni.

Da sempre ho rivendicato l’autonomia su tutto ciò che è opinabile, ma non vorrei per nessun motivo al mondo fare qualcosa che fosse nocivo alla comunità cristiana e che non fosse ritenuto opportuno dal mio vescovo, così come ho sempre fatto in passato. Difatti ogni settimana la prima copia de “L’incontro” l’ho inviata al Cardinal Scola, e così farò oggi e domani col nuovo Patriarca, volendomi rifare, come sempre, alla scelta di don Primo Mazzolari, mio maestro di vita: “Liberi e fedeli!”.

Riflessioni sulla cerimonia d’ingresso del nuovo Patriarca

Mi è molto spiaciuto non poter seguire alla televisione l’ingresso del Patriarca. Premetto che io sono rimasto, nonostante il passare dei decenni, quello che un tempo ha scritto, facendo arricciare il naso alla curia, che sognavo che il Patriarca di allora facesse l’ingresso in “Cinquecento” e non accettasse il presentatarm dei soldati, quello che ha pure suggerito al vescovo ausiliare, monsignor Olivotti, di non andare in “Mercedes”, perché dava scandalo.

Comunque mi sarebbe piaciuto assistere a tutta la trasmissione dell’ingresso, che Venezia trasforma sempre in sogno, poesia e favola e riempirmi, una volta tanto, l’animo di bellezza. L’avrei tanto gradito, ma purtroppo, come dicevo, non ho potuto seguire tutta la trasmissione.

Non imputo niente al nostro nuovo Vescovo perché lui, per certi aspetti, ha dovuto recitare la parte che gli è stata assegnata (d’ora in poi però sarà lui responsabile dello stile e delle sue scelte personali). Anzi sento il dovere di confessare che l’ho compianto ed ammirato per essersi sottoposto a due giornate massacranti, nel senso pieno della parola.

Ridico una volta ancora, che io rimango ipersensibile ad ogni evento religioso che arrischi di collocare la fede nel limbo del rito, peggio ancora, del folklore. Comunque, una volta tanto, credo che possiamo fare delle eccezioni recuperando tutto il positivo che c’è stato in questo evento.

Debbo aggiungere un particolare che di certo sarà di conforto al nuovo vescovo. Nelle carrellate di Telechiara sulla cerimonia, alle quali ho potuto assistere, ho visto una fila veramente lunga di sacerdoti che han voluto e potuto testimoniare accoglienza e disponibilità a diventare collaboratori generosi e fedeli del successore dell’apostolo San Marco. Non so dire se sia stato l’angelo buono al quale il Signore mi ha affidato fin dalla nascita, o quello cattivo che mi tormenta da mane a sera come un moscone insistente ed importuno, so che mi ha suggerito: “Se un’azienda potesse contare su duecento operatori, preparati e motivati e discretamente pagati, quanto sarebbe efficiente e quanto produrrebbe?” La domanda però non è del tutto ingenua, perché quell’angelo sa che io purtroppo mi aspetterei molto di più dal clero di cui io sono parte.

Talvolta mi viene da pentirmi d’aver suggerito un tempo il salario garantito a tutti, non avendo previsto una clausola sulla meritocrazia.

Ora non sarò io, per fortuna, ma il nuovo Patriarca a pensare a queste cose!

La lamentazione amara e sconsolata di mio fratello don Roberto

Credo che tutti i miei concittadini sappiano che il mio fratello più piccolo è prete, pure lui, e parroco a Chirignago. Don Roberto è un “ragazzo” ormai sessantenne, bravo a scrivere e più ancora a parlare, e attualmente guida la parrocchia di Chirignago che credo sia una delle più belle comunità cristiane della nostra diocesi.

Io gli voglio bene perché è mio fratello e soprattutto è il più piccolo, mentre io sono il più vecchio dei sette fratelli. Per indole sono riservato, poco espansivo e con quasi nessuna capacità e volontà di mantenere relazioni continue. Questo è uno dei miei moltissimi limiti. Ho fatto tanti tentativi per aprirmi ai rapporti più caldi e più frequenti ma non ci sono mai riuscito.

Ora ho ottantatre anni e perciò ho rinunciato a mantenere vivo e frequente il dialogo. Non per questo non seguo con attenzione e trepidazione le vicende esistenziali e pastorali di mio fratello. Tutte le settimane leggo il suo “bollettino parrocchiale”. Il foglio di don Roberto è un bollettino sui generis, ove egli intrattiene un dialogo vivo, intenso ed appassionato con i suoi parrocchiani.

Avevo immaginato, avendo don Roberto un vivaio di bambini e di giovani veramente meraviglioso, che perciò passasse di trionfo in trionfo, ma qualche settimana fa ho letto nel suo periodico parrocchiale un trafiletto che trascrivo. Penso che sia giusto che i fedeli conoscano i drammi del prete e gli stiano accanto.

Vorrei anche dire a don Roberto che anch’io ho fatto le sue amare esperienze e ho vissuto e vivo i suoi drammi, però voglio anche dirgli che “tutto è grazia”, che nessuna fatica va perduta e che al Paradiso, come scriveva Cronin nel suo romanzo “Le chiavi del Regno” si giunge non solo per “l’autostrada” offerta dalla Chiesa, ma anche attraverso strade sterrate e tortuose e perfino per viottoli solitari ed inpervi.

Ed ecco la lamentazione amara e sconsolata di mio fratello che credo meriti di essere conosciuta.

LE PROMESSE BATTESIMALI

La scorsa settimana, e precisamente venerdì 16 Marzo, abbiamo celebrato la seconda tappa prevista per i ragazzi di 2A media in vista della Cresima: il rinnovo delle PROMESSE BATTESIMALI.

Il rito prevede che tutti i ragazzi firmino di loro pugno l’impegno di vivere secondo lo spirito delle Promesse: I fogli di pergamena su cui le firme vengono fatte non si buttano via, ma si conservano gelosamente in archivio. E così ho potuto guardare le firme degli anni passati, cominciando dal lontano 1988, quando iniziammo.

Mio Dio: un’ecatombe. Quanti nomi, quanti volti, quanti ricordi … Ho dovuto constatare che di ogni anno, su quaranta o cinquanta (talvolta anche più) ragazzi che hanno firmato, è tanto se ne sono rimasti in parrocchia due o tre. Di qualche anno non ne è rimasto nessuno. M’è venuta una tristezza…, una malinconia… uno sconforto che mi ha inumidito gli occhi. Mi son detto (era poco prima che la celebrazione cominciasse): “ma val la pena di continuare? Ha un senso?” Subito dopo è scattato l’esame di coscienza: “dove ho sbagliato?”

E dico “ho” perché tutti questi ragazzi li ho preparati io alla prima comunione. Non posso far finta di non entrarci. Cosa si poteva fare di più e di meglio per non arrivare a questi risultati?

L’esame di coscienza è continuato anche dopo, e mi ha fatto prendere sonno tardissimo.

Ma, in coscienza, ce l’ho messa tutta. E non io solo, ma in tanti ci abbiamo messo l’anima per trasmettere la fede, per indirizzare a Gesù questi ragazzi che ci venivano affidati, per fargli capire che la Chiesa è una famiglia e che ciascuno di loro vi aveva un posto ed era importante. Quante attività, quante uscite, quanti campi, quante liturgie curate, quante prediche sofferte… Tutto inutile. Il nemico è più forte e più furbo di noi. L’unica speranza è la presenza dello Spirito Santo.