Una colonna pericolante

La vita de “L’incontro” è, come sempre terribilmente precaria. La sua sopravvivenza mi appare ogni settimana come un autentico miracolo. Da un lato mi riempie l’animo di consolazione che a Mestre sia il periodico più letto, ma dall’altro lato ho lucida coscienza di non essere riuscito a creare un’organizzazione così consistente, capace di parare i guai che si incontrano nella vita. “L’incontro” poggia su una trentina di collaboratori volontari, ognuno dei quali è assolutamente indispensabile; il cedimento anche di uno solo può mettere in pericolo la sopravvivenza del giornale.

Di questa precarietà sono sempre stato cosciente e d’altronde ripeto che mi pare già un miracolo che il periodico abbia continuato ad uscire regolarmente di settimana in settimana.

Ora è in sofferenza la signora Laura, che non solo inserisce nel computer i miei testi, ma pure li riordina da ogni punto di vista e inoltre collabora spesso con dei “pezzi” quanto mai brillanti. Avrebbe bisogno assoluto di una pausa di riposo o perlomeno di un aiuto consistente. Mi sono rivolto al Signore e a chi altrimenti potrei chiedere aiuto? e Gli sto dicendo: «O mi mandi qualcuno oppure debbo chiudere!».

Per ora non mi ha ancora risposto; quindi sto pubblicando ciò che la cara signora Laura ha inserito a suo tempo.

Bertolaso in ospedale

Bertolaso, l’ex capo della protezione civile, m’aveva sempre dato l’impressione di una persona per bene: un volto ordinato e pulito, una personalità franca e onesta. Ero stato infatti ammirato quando ad Haiti, da persona esperta, aveva affermato che l’intervento umanitario degli Stati Uniti era goffo, sproporzionato ed inefficiente. Egli era un professionista esperto e tempestivo negli interventi. Poi la solita marea fangosa aveva travolto la sua persona e la sua opera. Infine era scomparso dalla scena.

Me lo sono ritrovato qualche sera fa alla televisione in un ospedale del Sud Sudan, lo Stato appena nato per un popolo martoriato e distrutto da una lunghissima ed impari guerra. Con sorpresa ho scoperto ch’era medico; avevo sempre supposto che fosse un tecnico, forse un ingegnere.

M’ha fatto enorme piacere vederlo fare “l’apprendista” in quel povero ospedale dell’Africa nera. L’intervistatore, indiscreto come sempre, gli aveva chiesto se fosse andato a fare “il missionario” per espiare i suoi “peccati civili”. S’è difeso con dignità e pacatezza e ha difeso la sua protezione civile. M’ha fatto tanto piacere ritrovare questo personaggio della vita pubblica italiana in un ospedale di un Paese in assoluto tra i più poveri.

Io non sono in grado di dare giudizi su questo uomo pubblico, però posso affermare che m’ha fatto bene ritrovarlo da volontario tra gli ammalati e comunque mi ha edificato la sua testimonianza.

Il punto di ristoro

Quando ero in parrocchia i miei scout organizzavano ogni anno “Il Sapapian”. In quel tempo andavano di moda le marce non competitive. Non c’era ente o parrocchia che non sentisse il bisogno di organizzare la sua marcia.

Sempre in parrocchia un anno organizzammo persino una marcia per i vecchi che partiva dal piazzale della chiesa e terminava nel boschetto di Villa Matter: cinque, seicento metri di strada! Comunque, durante il nostro “Sapapian”, che copriva una decina di chilometri, c’era a metà marcia “il ristoro”, qualcosa da bere e da metter sotto i denti, che rincuorava i marciatori.

Qualche settimana fa, la prima lettura riportava la fuga di Elia nel deserto inseguito dai suoi persecutori. Stanco, scoraggiato, si butta a terra e vuol lasciarsi morire, sennonché l’angelo lo desta e gli dice: «mangia questo pane e bevi dall’orcio». Elia, rinfrancato, riprende il cammino.

Ogni domenica, quando celebro la mia Eucaristia tra i cipressi del cimitero e vedo la chiesa gremita di volti cari, penso sempre alla stanchezza del vivere, alle prove amare e ai tanti problemi e sogno ardentemente che il “Pane dell’altare” rinfranchi, dia vigore per continuare il cammino.

La messa è “il punto di ristoro” per i cristiani, oppure si riduce ad un perditempo noioso ed inutile. Quanto spero che la Parola a cui dà voce appassionata, i canti corali, le melodie del violino, i volti cari dei fratelli e la fede comune costituiscano un “ristoro” che dia forza per i prossimi sette giorni.

Corsa assurda e disperata

Quest’anno mi è capitato di leggere il brano di san Giovanni proprio a ridosso di ferragosto, brano in cui Gesù diceva ai suoi conterranei, dopo che li aveva appena sfamati, di avere una proposta che rispondeva al loro bisogno di vivere una vita positiva e significante. Gesù si esprime con un linguaggio a noi un po’ ostico e difficilmente comprensibile: «Io posso darvi un pane che chi ne mangerà arriverà alla vita eterna».

La proposta di Gesù offre all’uomo la possibilità di cogliere la vita come un bel dono e, nello stesso tempo, assicura che essa offre “la Terra Promessa”. I conterranei di Cristo non si fidano, pretenderebbero un qualche segno magico e perciò continuano a vivere una vita insulsa e a camminare verso il buio senza aurora.

M’è venuto fin troppo facile fare il paragone col nostro tempo; la gente rimane sorda, indifferente e spesso irridente al discorso di Gesù per darsi ad una corsa pazza ed assurda verso le ferie, pensando di trovare un nonsoché di diverso e di migliore a qualche centinaio di chilometri di distanza dalla propria dimora.

Raccontai di un documentario televisivo che narrava l’avventura di una popolazione di ratti dell’Antartide che, ad un certo momento, si mettono a correre pazzamente verso il mare per poi affogare tutti tra i suoi flutti. La gente del nostro tempo volta le spalle alla religione per intraprendere una corsa pazza ed assurda verso la morte. Il nichilismo imperante riduce la vita ad “un nervo nudo che si contorce talora per il dolore e talaltra per il piacere”, come afferma Sartre, il filosofo dell’assurdo.

Avrei voluto intonare il canto dolce e rasserenante “Tu sei il mio pastore che mi guida verso pascoli erbosi” per esprimere riconoscenza a Cristo per il dono del suo messaggio.

Chisso

Chisso è l’assessore della Regione Veneto onnipresente. Non passa giorno che la stampa locale non lo presenti come protagonista di uno degli infiniti ed ingarbugliati problemi dei quali si intesse la vita della nostra città e della nostra Regione. Ha una voce pacata, un volto sempre composto e sereno e delle prese di posizione sagge. La città si è accorta della sua operosità e l’ha votato in maniera sovrabbondante.

Il nostro assessore dà l’impressione che si prenda a cuore ogni problema, come fosse l’unico e il più importante a cui offrire la sua attenzione. Io lo considero un amico vero del “don Vecchi”. La prima volta che è venuto al Centro io gli spiegai la dottrina a cui ci rifacciamo. Capì al volo che era una soluzione innovativa e vincente, infatti pochi giorni dopo ci arrivò la comunicazione che la Regione aveva stanziato centomila euro per il Centro di Marghera.

Lo incontrai poi in Regione da Sernagiotto per il “don Vecchi 5” per gli anziani in perdita di autonomia. Era venuto per perorare la nostra causa presso il collega. «Questa è gente seria di cui ti puoi fidare» disse a Sernagiotto.

Qualche giorno fa don Gianni l’ha incontrato per chiedergli di aiutarci per il problema aggrovigliato della viabilità per giungere al futuro cantiere degli Arzeroni. Ci ha promesso di darci una mano. Sono certo che lo farà perché è un amministratore galantuomo. Oggi trovare un galantuomo in politica è una fortuna e una grazia del cielo.

Da qualche tempo dico un’ave Maria per Chisso perché non “si stufi” e continui ad aiutare la sua gente e sappia che c’è chi lo stima e gli vuol bene.

I “miei” frati

Qualche settimana fa ho dedicato l’editoriale de “L’incontro” alla presenza dei religiosi nella nostra città, presenza ancora relativamente numerosa, anche se un po’ in declino, come del resto avviene per tutti gli ordini religiosi e per tutte le congregazioni. Durante i cinquant’anni che ho vissuto all’interno della Chiesa della nostra città, ne ho visti passare di frati, tanti e diversi, ma quelli che mi sono rimasti nel cuore sono una mezza dozzina ai quali voglio dedicare una memoria riconoscente.

Padre Simeone, con la sua barba bianca e la sua voce pacata. Non aveva una buona eloquenza, ma possedeva un cuore buono, capace di consolare e di distribuire a piene mani la misericordia di Dio.

Il cappuccino padre Sigismondo, sempre presente e sempre disponibile a fare un piacere ai poveri parroci. Arrivava perfino a fare qualche piccolo sotterfugio di nascosto dei suoi superiori pur di dare una mano.

Padre Francesco Ruffato, l’intellettuale ricco di una carica umana che ha dato vita ai maggiori supporti della cultura cristiana in città.

Padre Evaristo, il frate degli operai del dopoguerra, che aveva una schiera infinita di postulanti per un posto di lavoro. Viveva da assediato ma a tutti dava una speranza.

Padre Matteo, parroco dell’Addolorata, anima ardente, apostolo ottimista e ricco di fede che si è speso per la sua gente senza risparmio.

Padre Antonio, il frate degli stabilimenti di Marghera, apostolo serio e impegnato, poche parole ma fedeltà assoluta alla sua missione.

In questo mezzo secolo saranno passati per Mestre tanto altri bravi frati, ma questi sono quelli che hanno brillato di una luce più bella e più intensa.

Il traguardo finale

I frati si stanno modernizzando. Ad Assisi e Pompei fanno a gara ad organizzare megaconcerti con i cantautori meno lontani dalla religione.

Qualche domenica fa, nel primo pomeriggio, mi è capitato di vedere e ascoltare in televisione un megaconcerto condotto da Giletti, il giornalista scapolo della Rai che è sempre disponibile a dare una mano ai religiosi. In quella serata si alternavano canzoni all’esterno della Basilica della Madonna del Rosario ed interviste di Giletti all’interno del tempio voluto da Bartolomeo Longo.

Giletti ha intervistato Vecchioni, il quale ha confessato che la speranza fa da supporto alla sua fede. Poi ha intervistato il vescovo Comastri. Infine un certo monsignore che ha conosciuto personalmente madre Teresa di Calcutta.

Giletti ha chiesto al suo interlocutore quale fosse la dottrina di fondo di questa donna di Dio, lui le ha risposto che per madre Teresa il silenzio e l’umiltà hanno come frutto la preghiera, la preghiera a sua volta produce la fede, la quale genera l’amore. Non ricordo proprio bene i primi passaggi, ma sono certo dell’ultimo: “la fede non ha come fine se stessa, ma di natura sua deve generare l’amore”.

Credo che san Giacomo sia del tutto consenziente ed io pure, checché ne possano pensare tutti i teologi e tutti i mistici di questo mondo! Credo che se tutti la pensassero così, la Chiesa avrebbe più credibilità e seguito anche nel mondo di oggi e non andrebbe a morire in quei riti che pochi ritengono importanti per la vita.

Prediche noiose

Ho letto recentemente la critica di un volume che ho subito ordinato. Un certo monsignor Giulio Dellavite, che non so chi sia perché di monsignori ce ne sono una caterva, lo avrebbe scritto con l’intenzione di ricondurci al Vangelo per riscoprirne il gusto.

La cosa mi ha incuriosito, il fatto poi che il volume sia edito dalla Mondatori mi è garanzia del suo valore. Mi son detto subito: “Vuoi vedere che ho incontrato finalmente chi mi può insegnare a predicare; anche se sono alla fine mi piacerebbe terminare in bellezza i miei sermoni domenicali, sempre tanto sofferti!”. Con mia felice sorpresa, a questo proposito, mi sono imbattuto in una perla veramente preziosa. Il cardinale Ratzinger, attualmente Papa Benedetto XVI, avrebbe detto: «Il miracolo della Chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie».

Confesso che immediatamente il diavoletto che fa da contrappeso al mio angelo custode, mi ha subito fatto osservare: «Perché qualcuno dei tuoi capi non ricorda a Papa Benedetto che sebbene sia il pontefice non deve rimanere dentro la categoria dei preti noiosi: i suoi discorsi saranno pur pregni di teologia, ma non sono proprio esaltanti!».

Spero che qualche cardinale ceda alla tentazione di ricordarglielo. Nel frattempo mi rassereno col consiglio che Mauriac dà ai fedeli: «Non giudicate Dio dalla balbuzie dei suoi ministri»!

La supplenza

Don Gianni, il giovane e dinamico parroco di Carpenedo, purtroppo solo in parrocchia, m’ha chiesto di sostituirlo per la celebrazione della messa durante le sue “vacanze”. L’ho fatto molto volentieri sia perché mi era possibile, sia perché mi dava modo di tornare nella chiesa tanto amata in cui ho trascorso 35 anni della mia vita.

Ho celebrato una messa prefestiva e quelle durante un’intera settimana.

Confesso che avevo paura di rimanere deluso, di trovare una “chiesa estiva” vuota di fedeli. Invece no! La messa prefestiva era affollata e quelle dei giorni feriali con un buon numero di fedeli, così da farmi tanto felice. Molti volti mi erano noti, ma ho visto anche fedeli che non conoscevo, segno che la comunità continua ad essere viva e a rigenerarsi continuamente.

Mi si dice che in città tante chiese sono chiuse o semichiuse, che diminuisce il numero de “L’incontro” perché la gente è via. A Carpenedo non è così, infatti non ho diminuito di una copia il periodico per quella chiesa. Spero tanto che la mia vecchia parrocchia non sia rimasta l’unica oasi verde nel deserto.

Le vacanze del prete

Quanto sono insofferente e critico nei riguardi del “prete borghese” e funzionario tranquillo dell’azienda Chiesa, altrettanto e più sono ammirato dal prete che non si risparmia e si spende per la sua comunità, non a parole ma con i fatti.

Qualche tempo fa don Gianni, l’attuale parroco di Carpenedo, è tornato dal campo dei suoi scout: 180 ragazzi sotto le tende. Ma all’inizio delle sue “vacanze” aveva guidato il grest in parrocchia, 130 ragazzi, e dopo, nella casa di montagna della comunità, la Malga dei Faggi, tre turni di ragazzi e giovani.

Non sono moltissimi i preti di questo stampo, ma fortunatamente ce ne sono ancora. Se potessi dare un consiglio a chi colloca preti appena sfornati dal seminario, gli direi: «Fategli fare un’esperienza in una di queste parrocchie che funzionano, perché non potranno mai dire “non è possibile!” e non potranno mai rassegnarsi al deserto o ad una sopravvivenza parrocchiale stantia».

Umanesimo integrale

Penso che i brani del Vangelo di san Giovanni di qualche domenica fa ci abbiano fatto conoscere la genesi di quella splendida opera di Maritaine: “Umanesimo integrale”. Mi pare di incontrare molti discepoli di Gesù che hanno affrontato e trovato un certo equilibrio tra immanente e trascendente, tra spirito e materia, tra azione e contemplazione, tra razionalità e sentimento, tra vita privata e vita sociale. Abbiamo l’idea della visione della vita offertaci da Cristo.

Per Maritaine Gesù ci offre un modello della sua concezione dell’uomo: egli è integro quando sviluppa con decisione le due dimensioni. La prima è la dimensione verticale che si rifà ad una concezione del rapporto con Dio che ci ha creato, che ci ama, che rimane in ogni caso accanto a noi e che ci aspetta in fondo alla strada per offrirci una vita nuova e migliore. La seconda, che incrocia la prima, è quella orizzontale, per cui l’uomo si accorge e stabilisce rapporti corretti, giusti e pacifici, con le persone che incontra nella sua vita. Da questi incontri essenziali e portanti nasce tutta l’impalcatura su cui l’uomo deve sviluppare la sua vita perché essa si realizzi compiutamente.

Sburocratizzare – semplificare

Qualche settimana fa lo studio di architettura Mar e consociati mi ha portato la documentazione per richiedere la concessione edilizia per il “don Vecchi 5”. Ho dovuto apporre una cinquantina di firme su un carteggio dell’altezza di più di mezzo metro.

Capisco che quella pratica permette ad un centinaio di burocrati di avere uno stipendio per mantenere la loro famiglia, però devo convenire che il problema della burocrazia è diventato impossibile. L’uomo scompare, oggi diventa un elemento secondario di fronte alle carte.

Ricordo il romanzo “La venticinquesima ora”, ove il destino dell’uomo era segnato da un contenitore di cartelle. Capisco le esigenze di una vita organizzata, però quando l’aspetto burocratico, organizzativo, diventa tanto mastodontico, l’uomo singolo è perduto, smarrito, sommerso. Così è per qualsiasi società, Chiesa compresa. Le commissioni, i comitati, le congreghe, diventano talmente opprimenti e complicati da perdere totalmente i rapporti vivi con la base.

Talvolta sono arrivato all’assurdo di pensare che se per un bradisismo I centri della burocrazia sprofondassero nella laguna, noi cittadini ne avremmo solo vantaggio, perché neanche ci accorgeremmo della loro scomparsa o ce ne accorgeremmo solamente perché arriverebbero meno circolari.

Tra gli aspetti nefasti del comunismo la burocrazia occupa un posto importante. Il brutto è che anche tutte le altre organizzazioni centrali sono state infettate da questo virus.

Marta e Maria

Il problema del rapporto tra misticismo ed operatività è vecchio almeno quanto il Vangelo, ma io credo che sia vecchio come il mondo. La pagina del Vangelo che mette a fuoco la mentalità delle due sorelle di Lazzaro, l’amico di Gesù, Marta e Maria, lo sta a dimostrare.

Pare che Gesù dia un punto in più a Maria, la contemplativa. Infatti Gesù esclama: «Marta, Maria ha scelto la parte migliore».-

L’esegesi del passo ci porterebbe molto lontano, ma sta di fatto che la contemplazione di Maria è stata favorita all’attività di Marta che ha pulito la casa e preparato il pranzo. Comunque anche Marta è diventata santa!

Credo che ambedue queste verità vadano curate e coordinate. Gli antichi dicevano: “Unum facere et alterum non omittere” (bisogna far questo senza omettere quello).

L’uomo è composto, secondo la visione di san Tommaso, di anima e di corpo, due unità inscindibili. Non esiste un’anima senza il supporto del corpo, né un corpo senza lo spirito che gli dà vita. Il difficile è trovare il giusto equilibrio, però questo non è impossibile, anzi è necessario.

E’ vero che, tutto sommato, siamo propensi a favorire i bisogni immediati, ma ragionando un po’ si arriva a capire che è necessario avere motivazioni tali che sorreggano l’impegno. E questo si chiama riflessione, contemplazione.

La pala d’oro

Qualche anno fa il patriarca Scola diede vita ad una bella iniziativa che purtroppo non ebbe seguito; convocò a Villa Visinoni di Zelarino tutti i responsabili delle organizzazioni di carità della diocesi. In quella occasione ebbe una bellissima espressione affermando che queste strutture caritative le considerava “la pala d’oro della Chiesa veneziana”.

Non so se tutti sappiano che nella basilica di San Marco si trova una “pala d’altare”, ossia un “dosso”, che fa da parete sul retro dell’altare, di straordinaria bellezza e ricchezza (su una lastra d’oro sono incastonati innumerevoli pietre preziose che, assieme, costituiscono un ricamo di rara eleganza e armonia). La pala d’oro è certamente l’arredo più prezioso esistente in quella perla d’arte che è la basilica di San Marco, che è reputata una delle chiese più originali e più belle del mondo intero.

A quella riunione in cui i vari responsabili hanno descritto la loro struttura, le relative potenzialità e problematiche, ne seguì un’altra a cui non potei partecipare, poi la cosa morì così.

Ritengo che sia quanto mai urgente ed importante mettere in rete queste strutture in modo da coordinarle e dare finalità più precise e più rispondenti ai bisogni e alla sensibilità moderna. Penso che alla Caritas diocesana spetti questo compito, spero quindi che il nuovo Patriarca metta in moto questo organismo per superare l’arcipelago caritativo che è per fortuna esistente, ma anche migliorabile.

Suor Laura Piazzesi

La sorella di suor Laura Piazzesi mi ha telefonato per annunciarmi la morte della nostra amata e stimata missionaria nelle Filippine.

Suor Laura mi voleva bene ed io ricambiavo questo affetto ed avevo per lei una forte stima. Il legame con questa suora durava da lunga data, sono stato compagno di classe di suo fratello Giorgio e sempre vicino alle sorelle che ho incontrato quando facevo l’assistente dei maestri cattolici.

Suor Laura è stata veramente una splendida figura di missionaria, intelligente, generosa e coerente, ha amato la sua missione più della sua stessa vita. Infatti ha sempre desiderato morire tra la sua gente ed ha voluto essere sepolta in quella terra amata.

Suor Laura, che fu economa generale delle Canossiane, era una manager nata, missionaria all’antica, ma moderna allo stesso tempo. Ricordo con nostalgia le sue lettere colte ed affettuose, il suo amore materno per i suoi poveri, le sue imprese coraggiose ed innovative. Mestre, e soprattutto la Chiesa mestrina, può andare veramente orgogliosa di questa concittadina.

Spero tanto che qualcuno la faccia conoscere con parole più adeguate delle mie alla città. Il tempo non è riuscito a scalfire la sua fede ed il suo amore al prossimo. La sua bella figura di donna ricca di intelligenza e di umanità, rimane un punto luminoso di riferimento per quello che riguarda l’ansia di aiutare i fratelli più poveri, offrendo loro il pane e, nello stesso tempo, il messaggio cristiano.