Primo e secondo raccolto

Pur conscio di ripetermi, sento il dovere di affermare che impegnarsi per il prossimo non solo non rappresenta una passività ma anzi produce risorse. Ripeto questa mia riflessione per i comuni cittadini ma soprattutto per i miei colleghi che reggono le parrocchie della nostra città. Noi cristiani non dovremmo assolutamente sorprenderci di queste parole, anzi per noi dovrebbero essere ampiamente scontate perché Gesù, nostro maestro, ha affermato a chiare lettere: “Riceverete il centuplo in questa vita e il gaudio eterno nell’altra”. Non credo che Gesù abbia detto queste cose tanto per dire, quindi essere suoi discepoli comporta credere e agire di conseguenza.

Ho fatto questa premessa perché sono in grado di fornire una dimostrazione che tutti possono verificare. Vengo alla prova. Una delle associazioni di volontariato del “Polo solidale”, che vive in simbiosi con il Centro Don Vecchi di Carpenedo, è certamente l’associazione “Vestire gli ignudi” che gestisce una sorta di ipermercato sempre quanto mai affollato che veste i concittadini che versano in disagio sociale. Gli indumenti non sono assolutamente venduti come nei comuni negozi, agli acquirenti viene chiesta un’offerta per la dignità di chi ha bisogno, per coprire le spese di gestione ma soprattutto per creare in città una mentalità solidale grazie alla quale tutti coloro che ricevono un aiuto abbiano l’opportunità di aiutare loro stessi chi è più povero. L’ipermercato “Vestire gli Ignudi” è visitato ogni anno da venti-trentamila persone e quest’associazione è riuscita in alcuni anni a racimolare trecentomila euro. In questi giorni ha vuotato la cassa offrendo il pranzo gratuitamente per tutto quest’anno e per il prossimo a sessanta anziani con reddito minimo spendendo centocinquantamila euro ed inoltre ha destinato una somma di pari importo per arredare la nuova struttura con la quale si tenterà di rispondere alle criticità abitative. Come vedete Gesù è di parola e quello che ha promesso lo mantiene.

Il nuovo ristorante

Non sto a ripetere ai miei amici come è nato il progetto di aprire un ristorante per le persone in difficoltà che soffrono in silenzio, che si vergognano di chiedere aiuto e che non bussano alle porte del comune o della parrocchia.

Per almeno cinquant’anni sono stato l’assistente della San Vincenzo cittadina motivo per cui, infinite volte, mi sono sentito ripetere, soprattutto da quelli che normalmente non scuciono un solo euro per i poveri e che sanno solo criticare, che noi aiutiamo i fannulloni, quelli che sono poveri per mestiere, quelli che dovrebbero essere costretti a guadagnarsi il pane con il sudore della loro fronte mentre trascuriamo i veri poveri, quelli che meriterebbero di essere aiutati. Accusare e criticare è la cosa più facile di questo mondo mentre risolvere i problemi concreti è ben più difficile. Comunque sono sempre stato convinto che nella critica ci sia un po’ di verità.

Quando mi si è presentata inaspettatamente un’opportunità che sa di miracolo, nonostante i miei quasi novant’anni ho sentito il dovere di raccogliere le poche forze residue e di tuffarmi, anima e corpo, in questa nuova esaltante avventura solidale. Come Napoleone, mi si perdoni il paragone, mi sono rivolto ancora una volta alla mia gloriosa vecchia guardia: Graziella e Rolando Candiani che per vent’anni mi hanno affiancato nelle battaglie fortunatamente vinte per i Don Vecchi. Ho poi dato fuoco alle polveri attraverso: Gazzettino, Corriere del Veneto, Gente Veneta e tutte le testate televisive che sono riuscito a contattare per coinvolgere l’opinione pubblica, quindi ho cominciato a parlare ovunque e con tutti di questo progetto ambizioso ma nobile, progetto volto a convincere tutti coloro che sono in difficoltà affinché trovino l’umiltà per accogliere positivamente l’aiuto che viene loro fraternamente offerto. Ora per tornare a Napoleone sto vivendo la vigilia tormentata di questa impresa solidale. Spero, con tutte le mie forze, che dopo aver vinto tante battaglie questa non sia la mia Waterloo.

Il prossimo

Io ho sempre creduto alla necessità di usare al meglio i mezzi di comunicazione per offrire, alla gente del nostro tempo, il messaggio di Gesù. Quando penso che tutti i preti di Mestre riescono a parlare di Dio solamente al dieci per cento dei mestrini vengo colto da vertigini e da angoscia.

Nella mia vita sacerdotale, in tutte le attività pastorali affidatemi, ho sempre cercato di instaurare un dialogo con il maggior numero possibile di concittadini. Quando più di una quarantina d’anni fa mi fu affidata la San Vincenzo, che allora poteva contare solo su un numero assai modesto di persone e che praticamente viveva ai margini del pubblico interesse, diedi vita ad un mensile che chiamai “Il Prossimo”, in linea con l’impegno dei vincenziani nel creare un mondo di fratelli e di “farsi prossimo” soprattutto nei confronti dei più deboli e dei più bisognosi ma purtroppo, con mio grande dispiacere e disappunto, questa testata è stata chiusa. A mio umile parere “Il Prossimo” aveva fatto rifiorire la S. Vincenzo e questa aggregazione di cristiani ha dato voce ai più poveri di Mestre e fatto nascere belle e promettenti realtà.

Un mese fa il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum ha deciso di unificare i gruppi di volontariato di quello che io ho sempre chiamato, con una certa enfasi: “Il Polo Solidale del Don Vecchi”, realtà diventata ormai la struttura caritativa di gran lunga più importante di Mestre e al suo posto è stato creato un nuovo ente no-profit in cui sono confluiti tutti i gruppi di volontariato. In quell’occasione ho suggerito immediatamente di chiamarlo “Il Prossimo”, un po’ per onorare la memoria della vecchia e gloriosa testata a cui ero molto affezionato ed un po’ perché i volontari fossero più consapevoli di lavorare per il prossimo e non per altri scopi.

Io ho condiviso la scelta della Fondazione, volta a creare una maggiore sinergia tra i vari comparti per abbassare le spese e per razionalizzare questa significativa entità di ordine solidale, ma nel mio animo c’è anche la segreta speranza che la nuova struttura organizzativa aiuti a rinvigorire i vincoli di fraternità cristiana fra i duecento volontari e soprattutto li renda maggiormente coscienti che l’obiettivo fondamentale è quello di amare concretamente il nostro prossimo.

Annina

Il suo vero nome era Anna Maria ma a lei faceva piacere che la gente la chiamasse Annina, un vezzeggiativo che le risultava particolarmente gradito. Vent’anni fa, quando la incontrai per la prima volta, aveva già visto passare parecchie primavere e forse Annina, quel vezzeggiativo con cui amava essere chiamata, le faceva sentire meno il peso degli anni. La conobbi in cimitero, luogo in cui la grave ferita che faceva sanguinare il suo cuore di mamma per la perdita prematura della sua unica figlia, la conduceva ogni giorno, in maniera irresistibile, a visitarne la tomba. Dalla tomba passare alla chiesa del camposanto, ove trovava parole di rassegnazione e di conforto, il passo è stato assai breve. In poco tempo divenne una fedele assidua tanto da cominciare a far parte di quel piccolo gruppo di “vecchine”, come le chiamava Piero Bargellini, che un tempo erano parte integrante delle nostre chiese come i confessionali, i candelabri o le pile dell’acqua santa.

Ora le diocesi fanno corsi di preparazione per i cosiddetti “ministranti”, cioè chierichetti e assimilati ai sagrestani, da me però il gregge era così ridotto che l’Annina ed altre due colleghe facevano un po’ di tutto: pulire la chiesa, seguire le Messe, preparare l’altare per la liturgia e senza alcuna preparazione dispensare parole buone ai fedeli che il lutto accompagnava nella chiesa del cimitero.

Il mio pensionamento e il ricovero a Cavaso del Tomba di questa mia cara aiutante ci separarono e solamente questo pomeriggio, dopo quindici anni, Annina è ritornata nella chiesa del cimitero perché le dessi l’ultimo saluto e l’ultimo abbraccio caro e affettuoso. La predica è diventata un colloquio e il legno della bara non mi ha impedito di rivederla attenta e felice delle parole calde che mi sono sgorgate dal cuore. Mentre “colloquiavo” con lei mi è tornato alla mente un particolare della sua frequentazione della piccola chiesa del camposanto: era solita ogni giorno cogliere un fiore e porlo tra i chiodi dei piedi del crocifisso e colloquiare con Cristo in tono talora affettuoso e talora imbronciato ma prima di andarsene non mancava mai di salutarlo affettuosamente con un: “Ciao Gesù”. Ora spero che questa centenaria abbia la pazienza di aspettare almeno un po’ questo novantenne per ravvivare la nostra cara amicizia.

Solidarietà a tutto tondo

Ricordo certe domande imbarazzanti e cretine che da bambino ho sentito porre ad alcuni miei coetanei: “Vuoi più bene a me o al papà?” e viceversa. Le persone serie devono insegnare a voler bene a tutti senza discriminazione.

Questi discorsi balordi e di scarso respiro umano e civile mi sono ritornati alla mente recentemente in rapporto ai profughi e all’invito del nostro Santo Padre a “non voltarsi dall’altra parte” e ad aprire il cuore al dramma di chi soffre. Per i cristiani tutti gli uomini sono figli di Dio; tutti, bianchi o neri, intelligenti o illetterati, europei, africani o americani possono rivolgere gli occhi in alto per dire: “Padre nostro” e guardandosi attorno scoprire che siamo tutti fratelli. Dio ci ha donato questo mondo così ricco e bello affinché ciascuno ne goda in pari misura e non perché qualche privilegiato ne goda più di altri.

In questo momento ai cittadini della nostra vecchia Europa si prospetta la splendida opportunità di aiutare chi soffre e di riparare alle ruberie, alle prepotenze e allo schiavismo civile, politico ed economico che per secoli i loro paesi hanno perpetrato nei confronti di tutti quei popoli che ora ci chiedono disperatamente aiuto. Oggi, Inghilterra in primis, seguita da Spagna, Portogallo, Francia, Germania e, come fanalino di coda, Italia, socia anche se tardiva della “compagnia di merende”. potrebbero ritrovare verginità umana e civile e ripulirsi la coscienza spalancando le porte ai profughi che in definitiva vengono solamente a riprendersi un po’ di quanto abbiamo loro rubato lungo i secoli.

Vengo poi a quella stupida affermazione che mi sovviene dal passato e che ora è riproposta da leghisti, nazionalisti, venetisti e dagli egoisti in genere: “Bisogna prima pensare agli italiani” a cui replico che bisogna pensare a tutti perché solo se pensiamo agli altri riusciamo a pensare anche a quelli di casa nostra. Noi della Fondazione dei Centri Don Vecchi, mentre Bossi ieri e Salvini oggi hanno seminato e continuano a seminare egoismo, da sempre pensiamo con i fatti ai nostri poveri: vedi i Centri Don Vecchi, il Polo Solidale, le mense ed altro ancora e nel contempo sentiamo il dovere di pensare anche agli altri. Sono felice che la Fondazione, senza lasciar passare un solo giorno dall’invito del Papa, abbia messo a disposizione di questi disperati un appartamento alla Cipressina e un altro al Centro Don Vecchi. Contemporaneamente stiamo aprendo un ristorante solidale per tutti mentre Salvini e compagnia cantante non hanno fatto e non fanno nulla né per gli altri né per i nostri ma pensano solamente alle loro tasche.

Una ulteriore responsabilità

Ho conosciuto il dottor Paolo Fusco, il brillante giornalista del settimanale della diocesi “Gente Veneta”, quando era poco più di un ragazzo ed ho mantenuto con lui un rapporto di ammirazione e di stima profonda, non solo perché ho riconosciuto in lui un professionista versatile, attento al respiro della città e della Chiesa veneziana, ma anche un cristiano che ha sempre cercato di dare una lettura positiva della vita e prospettare soluzioni in sintonia con il pensiero della Chiesa. Molte volte gli ho manifestato pubblicamente la mia stima e la mia riconoscenza.

Faccio questa premessa perché si possa comprendere lo stupore e la grande amarezza che ho provato, alcuni giorni fa, quando mi ha telefonato comunicandomi che aveva colto l’opportunità di insegnare lettere nella scuola pubblica. Lo stato di disagio economico in cui è venuto a trovarsi il settimanale e le sue responsabilità di marito e di padre lo hanno costretto, anche se a malincuore e con tristezza, ad accettare la soluzione che gli offriva quelle garanzie necessarie al sostentamento della sua famiglia ma che, contemporaneamente, lo costringeva ad abbandonare la professione di giornalista, quella professione che tanto amava e che aveva scelto per vocazione e per spirito di servizio verso la Chiesa piuttosto che come fonte di reddito per godere di una vita agiata. Confesso che ho provato dolore per questa scelta pressoché obbligata ed altrettanto dolore per la situazione nella quale è venuto a trovarsi l’unico strumento di comunicazione sociale di cui dispone attualmente la diocesi di Venezia poiché Radio Carpini San Marco, la nostra gloriosa e amata emittente, è stata lasciata morire ingloriosamente alcuni anni fa. Ora “Gente Veneta” può contare solamente su due giornalisti e la Chiesa veneziana corre il rischio di far arrivare il suo messaggio solo al dieci per cento dei nostri concittadini e solo dai pulpiti delle nostre chiese.

Questa realtà carica noi de “L’incontro” di un’altra pesante responsabilità poiché attualmente il nostro settimanale è rimasto pressoché l’unica voce. “L’incontro”, che ha raggiunto una tiratura di cinquemila copie settimanali e che viene letto da ventimila mestrini, è arrivato ad essere il primo e forse l’unico strumento di comunicazione sociale in città poiché gli altri periodici, di ispirazione cristiana che sono più che modesti e pressoché inconsistenti, ci inseguono ma a molte leghe di distanza. Credo che si impongano quindi alle nostre coscienze sia la ricerca di altri collaboratori sia l’incremento del numero di pagine del nostro periodico affinché l’apporto dei cristiani alla vita della nostra città non diventi talmente flebile da non essere percepito da nessuno.

La sanità nel Veneto

Talvolta mi chiedo a chi possano interessare le mie vicende, le mie avventure e i miei pensieri. So perfettamente di essere un vecchio prete che ha molto poco da offrire agli altri, però sono anche convinto che solamente il confronto delle idee favorisce, nelle donne e negli uomini, la crescita dello spirito di umanità e del senso civico. Partendo da questi presupposti, con grande umiltà e semplicità, mi pare opportuno rendere partecipi i miei concittadini delle esperienze che vado facendo.

Come ho scritto un paio di giorni fa sono stato ricoverato nell’ospedale all’Angelo per quattro giorni per una presunta ischemia cerebrale. Il timore dei medici derivava dalla paralisi parziale che aveva colpito la mia mano sinistra ma poi i controlli a cui sono stato sottoposto hanno rivelato che il problema era riconducibile ad un banale incidente notturno causato forse da una postura errata del corpo che ha determinato la compressione di qualche nervo. Tutto, fortunatamente, si è risolto per il meglio e dopo quattro giorni di degenza sono ritornato alla normalità.

Quello che però sento il bisogno di esternare ai miei concittadini è la presa di coscienza dell’eccellente accoglienza, del trattamento e dell’efficienza della struttura sanitaria del nostro ospedale. Ho incontrato medici cortesi, competenti, scrupolosi e ben coordinati che in pochi giorni hanno effettuato un checkup completo delle funzioni del mio organismo e hanno messo a punto una cura efficace e risolutiva. Lo stesso encomio lo devo riservare agli infermieri e a tutta l’organizzazione dell’ospedale: dal personale curante, a quello addetto alle pulizie e alla cucina, insomma proprio a tutti. Ho riscontrato puntualità, competenza, cortesia e grande efficienza.

Una nota estremamente positiva la debbo esprimere anche all’organizzazione nel suo insieme che mi è parsa veramente stupenda. Sono uscito con la convinzione che in Italia, e nel Veneto in particolare, godiamo di una sanità d’eccellenza tanto da augurare a tutti i paesi d’Italia e d’Europa strutture confortevoli con lo stesso standard serio e con la stessa efficienza. La ciliegina sulla torta di tutto questo l’ho scoperta poi nella parte finale della lettera di dimissione con la quale l’ULSS 12 mi ha informato che i quattro giorni di degenza sono costati alla Regione 1.592,45 euro. Tutto questo mi impegna a non ammalarmi più perché il costo del ricovero ospedaliero è veramente molto salato.

Incubo notturno

Il Don Vecchi è una struttura destinata agli anziani autosufficienti, questa è stata la scelta lucida che abbiamo fatto ancor prima di definire la struttura dei Centri Don Vecchi oggi esistenti. Avevamo anche previsto un comma inserito nella domanda d’accoglimento ai Centri secondo cui, nel caso di sopraggiunta mancanza di autosufficienza, i familiari avrebbero dovuto portare l’anziano nella propria casa o inserirlo in una casa di riposo. Le cose però sono andate molto diversamente. A ottant’anni il passaggio tra autosufficienza e non autosufficienza è più rapido che mai e le motivazioni per cui un essere umano dovrebbe abbandonare un ambiente signorile, che offre autonomia e nel contempo amicizia e sollievo, non sono facili né da far capire né tantomeno da far accettare a chi si è affezionato alla vita presso uno dei nostri Centri. La scelta iniziale della dismissione è diventata ogni anno più difficile da far accettare e il colpo di grazia a questa regola lo ha inferto la dottoressa Francesca Corsi, funzionaria illuminata e amica vera dei poveri e dei vecchi, quando un giorno mi disse: “Don Armando perché un anziano non può decidere di vivere ed anche desiderare di morire nella propria casa?”. Questa domanda ci ha indotto ad offrire ai nostri residenti la possibilità di vivere e morire al Don Vecchi, nella loro dimora come tutti i comuni mortali. Decidere di offrire a tutti l’opportunità di continuare a vivere al Don Vecchi ci ha imposto di ricorrere ad un’assistente disponibile sia di giorno che di notte, è sufficiente che l’anziano componga al telefono il numero 333 e dopo poco arriva l’assistente per prestare un primo aiuto.

Ieri notte l’assistente è stata chiamata e si è presentata alla porta della residente chiedendo cosa fosse successo. Sbalordita si è sentita rispondere: “Sono tanto turbata perché ho sentito dire che al Don Vecchi sarà accolta una famiglia di profughi, io però non sono assolutamente d’accordo”. Quando mi sono state riferite le pretese che questa anziana signora aveva espresso nonostante l’accoglienza ricevuta, dapprima sono rimasto interdetto e poi ho pensato a quel Salvini che per un pugno di voti va spargendo una zizzania tanto meschina. Il segretario della Lega, dopo aver governato una dozzina d’anni assieme a Berlusconi facendo fallire l’Italia, ora offre frottole e cattiverie. Di fronte a questo fatto mi è venuto da pensare che dovremmo inserire nel contratto di accoglienza ai Centri Don Vecchi una clausola: chi non crede alla solidarietà non può essere accolto perché è solo grazie alla solidarietà che è stato possibile realizzare le nostre strutture.

La suora dalla bicicletta rosa

Alcuni mesi fa, o forse l’anno scorso, ho letto su “Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi, un bellissimo “pezzo” a firma di mio nipote don Sandro Vigani sull’apostolato di una suora che era solita spostarsi su una bicicletta rosa.

La lettura mi aveva piacevolmente incuriosito per la prosa scorrevole ma soprattutto per il suo contenuto. Si trattava di una suora, né mistica né da miracoli, una semplice suora di mezza età che occupava tutte le sue giornate incontrando gente, visitando ammalati, consolando sofferenti cioè offrendo il suo calore di donna e la sua ricchezza di cristiana convinta. L’articolo mi è piaciuto e questa semplice testimonianza mi ha edificato, oggi c’è tanto bisogno di gente semplice e cara, animata da ideali che offre con semplicità mediante l’incontro affettuoso e sereno.

Questo ricordo era andato a finire in quel grande serbatoio della memoria e in qualche occasione forse avrebbe anche potuto riemergere sennonché, nel primo pomeriggio di uno dei miei pochi giorni di degenza all’Angelo, ha bussato alla porta della mia stanzetta una suoretta di mezza età dal volto dolce e rasserenante. Io di certo non l’avevo mai incontrata eppure lei mi trattava come se mi conoscesse da sempre. Poi pian piano ho capito che svolgeva la sua attività a Trivignano assieme a tre consorelle, non aveva nessun compito proprio delle attività pastorali ma svolgeva la sua missione intessendo rapporti un po’ con tutti, offrendo il calore di una parola di conforto, visitando le famiglie, i vecchi e gli ammalati.

Il dialogo con questa cara donna di Dio si è fatto ben presto cordiale e confidenziale e mi ha confidato che, poiché a fine anno la sua comunità sarà smembrata, dovrà lasciare la vecchia parrocchia nella quale è conosciuta e in cui ha intessuto mille legami. La prospettiva di questa decisione determinata dall’ormai cronica mancanza di vocazioni lasciava trasparire nella sua voce e sul suo volto una nota di comprensibile amarezza. Nella mia giovinezza sacerdotale ho incontrato a San Lorenzo delle bellissime creature quasi sempre mortificate da regole chiuse e frustranti; oggi, epoca in cui stanno acquisendo una dimensione religiosa più vera, le suore purtroppo stanno scomparendo. Spero proprio che il Signore, anche in questo campo, ci riservi qualche bella sorpresa.

L’incidente di percorso

Il sonno dei vecchi è spesso irrequieto e discontinuo. Qualche giorno fa (la riflessione risale a un paio di mesi fa, NdR) mi sono svegliato verso le due di notte e mi sono accorto immediatamente, riaggiustando le coperte, che la mano sinistra “farfugliava” non riuscendo ad afferrare le lenzuola. Ho acceso la luce, ho guardato la mia mano sinistra e mi sono accorto con sorpresa e preoccupazione che non reggeva e penzolava come fosse spenta e inerme. Ho cominciato a sfregarla ma inutilmente, sembrava priva di nervatura.

Io vivo con piena coscienza la mia età, consapevole che se possono morire anche i giovani, i vecchi hanno certo una maggiore probabilità e perciò mi pare sia giusto e inevitabile pensarci seriamente e accettare la nostra sorte. D’istinto ho pensato a un ictus, malanno che spesso si ripete dopo la prima avvisaglia, e quindi mi è parso giusto dire al Signore: “Sia fatta la tua volontà se è arrivato il mio momento di lasciare questa terra”. Ho poi realizzato che la mano colpita era la sinistra e quindi ho provato un po’ di sollievo pensando che, anche con l’uso della sola mano destra, avrei potuto fare ancora qualcosa.

Avrei voluto informare qualcuno ma poi ho pensato che avrei provocato tanto trambusto, mi sono quindi seduto in poltrona davanti alla televisione e mi sono addormentato: per me la televisione è il più potente e sicuro sonnifero. Alle sette, come sempre, suor Teresa è arrivata per la colazione ed allora l’ho informata dell’accaduto ma lei ha finto che la cosa non la preoccupasse granché. Alle sette e mezzo sono salito in macchina e, poiché ero in grado di guidare, mi sono diretto al cimitero dove ho aperto le chiese e celebrato un funerale rassicurato nel constatare che potevo ancora funzionare. Sennonché appena terminata la funzione religiosa suor Teresa, che nel frattempo aveva allertato mezzo mondo, ha preteso che andassi subito al Pronto Soccorso.

Dopo un’attesa tanto breve da farmi sentire colpevole per essere un privilegiato, un ottimo medico mi ha visitato e la prima diagnosi è stata: ischemia o schiacciamento di un nervo. A questa prima visita ha fatto seguito quella della neurologa con i suoi martelletti, una TAC e una Risonanza Magnetica che hanno escluso gravi danni cerebrali, sono poi stato trasferito nella sala delle gravi urgenze neurologiche e collegato con una serie di fili ad apparecchiature che hanno monitorato ogni mia reazione. Il giorno seguente sono stato sistemato in una linda stanzetta del reparto di Neurologia. Non avrei potuto incontrare gente più efficiente, più gentile e più preparata e sono arrivato alla conclusione che, se tutti gli ospedali fossero come quello dell’Angelo, in Italia dovremmo essere riconoscenti ed orgogliosi della Sanità, checché se ne dica.

Maretta!

I miei amici della carta stampata certamente sanno che io, da settimane, andavo “suggerendo” a Papa Francesco di “comandare” a tutti i parroci d’Italia e d’Europa di ospitare una o più famiglie di profughi in rapporto all’entità della loro parrocchia. Una parrocchietta di cinquecento anime potrebbe offrire un appartamento mentre una di cinquemila potrebbe offrirne due, tre o anche cinque.

Non mi si dica che le parrocchie non hanno soldi perché non è vero. Io sono stato parroco per trentacinque anni della parrocchia di Carpenedo, parrocchia composta da modesti operai e tutti possono vedere quello che essa è riuscita a fare con il loro generoso contributo: i Centri Don Vecchi, l’asilo, il patronato, la casa in montagna per i ragazzi, quella in collina per i vecchi ed altro ancora. Si tratta sempre di coerenza, di trasparenza, di spirito di sacrificio, di fiducia nella Provvidenza ma soprattutto di amore verso il prossimo.
So che ancora una volta qualcuno, che non vuole impegnarsi, mi accuserà di autoreferenzialità. Non m’importa un fico secco! Ricambio affermando che questa gente non è coerente con l’insegnamento di Cristo “ama il prossimo tuo come te stesso” e non vuole impegnarsi per non avere grane.

Neanche a farlo apposta il Papa ha fatto la scelta che io gli “avevo suggerito”. Mi aspettavo che la stampa e le televisioni avrebbero provato un certo imbarazzo nel riferire la gara di generosità dei vescovi e dei parroci impegnati, gli uni a superare gli altri, nel mettere a disposizione alloggi di proprietà o presi in affitto: purtroppo però non è successo niente di tutto questo. Il Papa ha anche dato l’esempio offrendo due appartamenti attraverso le due parrocchie che sono in Vaticano, ma né la parola né l’esempio del Pontefice pare abbiano prodotto un granché.

Ho letto con rammarico la presa di posizione del Cardinal Cafarra di Bologna, le sue parole mi hanno sorpreso, deluso e indignato ma ancora di più mi hanno sorpreso, deluso e indignato le parole di un parroco leghista o peggio ancora razzista. La parola e la testimonianza di Papa Francesco stanno assumendo la funzione di vaglio sulla serietà, sulla coerenza e sulla fede dei cardinali, dei vescovi, dei parroci, dei frati e delle suore. Le parole di Gesù: “Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei Cieli ma chi fa la volontà del Padre” sono di estrema attualità. L’amore verso Cristo e verso il suo Vicario non si dimostra con parole altisonanti o con le ammucchiate in piazza San Pietro di cardinali, vescovi e preti ma con l’accettazione della guida di un Papa che crede veramente al Vangelo di Gesù.

La mia proroga

Ho letto che i sondaggi affermano che in Italia il gradimento e la stima nei confronti dei politici e degli amministratori pubblici è pressoché vicina allo zero. Considerando che quasi la metà degli italiani ha disertato le urne durante l’ultima tornata elettorale è facile ritenere che l’esito di queste rilevazioni statistiche rappresenti correttamente il pensiero degli italiani. Quello che vale per l’Italia naturalmente vale anche per Venezia. Credo che la cosiddetta “discontinuità” con una prassi politica che dura da più di mezzo secolo sia il desiderio di tutti ed io non sono da meno degli altri.

Alcuni ricorderanno che avevo auspicato, in occasione delle ultime elezioni, che il Patriarca – preceduto dalla Croce Astile, seguito dal clero e dal popolo veneziano – si recasse in processione da un imprenditore che nella sua azienda avesse dimostrato di saperci fare, per chiedergli, sperando nella sua onestà, di dedicare alla città cinque anni della sua vita per risollevare le sorti del nostro Comune. Quasi per miracolo il mio sogno si è avverato e Luigi Brugnaro, dopo essersi buttato a capofitto in una campagna elettorale appassionata in cui ha giurato che avrebbe cambiato il modo di governare, è stato eletto; confesso, anche con il mio voto convinto. Il nuovo sindaco aveva promesso che si sarebbe rinchiuso in Comune e assieme ad alcuni esperti avrebbe tradotto a livello operativo il suo progetto. I primi segnali sono positivi, vedi la piazza di Carpenedo e il ritiro dei volumetti Gender dalle scuole materne. Sennonché è arrivata la “scomunica” boriosa ed insultante di quel famoso cantante inglese, famoso anche per il suo matrimonio omosessuale e per l’adozione di due bambini. Di primo acchito è sembrato che Brugnaro tirasse diritto per la sua strada, per nulla preoccupato dalla critica e coerente al suo programma, tanto che mio fratello don Roberto gli ha dedicato un trafiletto dal titolo: “Bravo Brugnaro”. Successivamente il sindaco, forse intimorito dalla reazione dei radicali, ha affermato di essere stato frainteso e puntuale è arrivata la dura reazione di mio fratello che trascrivo:

“Ritiro parola sindaco quaraquaquà”

Non mi riferisco al Gay Pryde, manifestazione che non mi piace per motivi estetici (troppo esibizionismo) ma mi lascia indifferente per i contenuti che eventualmente andrebbero esaminati in altra sede e con altro metodo.
Mi riferisco alla pace fatta – senza scuse – con il rospo, il quale dando del contadino al Sindaco di Venezia ha offeso anche il popolo che lo aveva eletto.
Bene aveva fatto il sindaco a rispondere per le rime.
Male ha fatto a riapparire in pubblico facendo finta di niente, anzi, agitando la vecchia improponibile scusa del “mi hanno frainteso”.
Brugnaro, credevo che tu fossi un uomo: sei, come tanti politici: un quaraquaquà.

don Roberto Trevisiol

Io che ho vent’anni più di don Roberto, spero che si tratti della proverbiale buccia di banana ma sia ben chiaro che se continuasse su questa strada sarebbe “diabolico” e perciò lo combatterei con tutte le mie forze.

L’ultimo libro

Ho terminato da poco di leggere il volumetto “Frugalità” del prof. Paolo Legrenzi e spero, rifacendomi alle conclusioni di questo volume, di essere in grado di offrire almeno un piccolo contributo allo stile di vita dei miei amici.

Ho già confidato la mia fatica nell’arrivare alla fine di questo volume il cui autore è professore di psicologia presso l’università Ca’ Foscari. L’elevato livello intellettuale del testo mi fa pensare che probabilmente si tratta di un’opera diretta ad una platea di specialisti. Legrenzi non si è limitato ad utilizzare un linguaggio impegnativo per chi non conosce la materia ma cita anche il pensiero di una serie di autori a me assolutamente sconosciuti.

La tesi di fondo che emerge, e che non mi trova evidentemente d’accordo, è questa: “Molti di noi sanno che la nostra storia è qui, sulla nostra terra, che non ci sono altri mondi, né un futuro garantito da ideologie o religioni. Possiamo quindi dare solamente una nuova direzione alle nostre vite individuali e così facendo salvare il pianeta dalla spogliazione sistematica delle risorse formatesi in milioni di anni”.

Pur non essendo d’accordo sulla premessa, perché a parer mio la vita non ha né giustificazione né senso se non nella prospettiva dell’eternità, concordo sulla conclusione e cioè che non abbiamo il diritto di sprecare le risorse del Creato, a danno delle generazioni future, col nostro consumismo esasperato ed assurdo. L’autore continua poi sostenendo che dobbiamo prendere coscienza dei debiti che abbiamo contratto a causa dei danni provocati dai nostri sperperi, frutto di una vita innaturale a cui ci siamo abituati ritenendo lecito e perfino necessario quello che non lo è affatto. L’emerito professore suggerisce di riflettere su questo argomento per avviarci verso quella frugalità necessaria per educarci e per educare ad uno stile di vita più sobrio e meno artificioso. L’illustre psicologo ci suggerisce di imboccare la strada della frugalità invece di perseverare in modi di vivere impostici subdolamente dal consumismo che produce sprechi e riduce drasticamente la disponibilità di risorse per il futuro. Invita poi a sostituire i nuovi piaceri fittizi della vita contemporanea con i piaceri antichi in linea con la natura ma per cominciare questo processo, prima di decidere che non possiamo fare a meno di qualcosa, dobbiamo imparare a domandarci: “Ne abbiamo proprio bisogno? E se ne facessimo a meno?”. Queste simulazioni, a parere dell’autore, potrebbero avviarci nella giusta direzione. Questo discorso a me non risulta nuovo perché ci viene riproposto ogni anno dalla Quaresima. Mi auguro che le tesi espresse in questo volume, grazie al ruolo dell’autore, sortiscano effetti migliori di quelli che abbiamo ottenuto noi sacerdoti in tanti anni di prediche.

“Ricominciare”

Sapeste, amici miei, quante volte mi si è affacciata alla mente una domanda: “Servono a qualcosa le mie prediche?”.

Un prete parte svantaggiato se si confronta con altre persone convinte di avere un messaggio da trasmettere agli altri. Un medico, ad esempio, è assolutamente avvantaggiato perché il paziente pende letteralmente dalle sue labbra; un avvocato, se riesce ad argomentare bene, aumenta le probabilità di convincere il giudice; un commerciante un po’ meno perché il cliente è comunque convinto che sia interessato a magnificare quello che vuole vendere mentre la strada di un prete è tutta in salita, infatti già dire che “questa è una predica!” fa pensare che si tratti di qualcosa di scontato e di già noto. Ci vuole tanto e tanto coraggio e determinazione nel continuare ad andare controcorrente con proposte scomode e impegnative che difficilmente vengono ritenute utili e vantaggiose e al giorno d’oggi è ancora più difficile perché le proposte cristiane subiscono una concorrenza agguerrita.

Non si vive più in un mondo in cui contava solamente la parola del farmacista, del carabiniere e del prete e, se si escludono l’attenzione dei fedeli e la cortesia di alcuni che talvolta ti fanno un complimento, i riscontri positivi sono pochi, pochi veramente. Ogni domenica mi pare che la gente si ripresenti sempre uguale e che le parole scivolino via leggere sopra le teste dei fedeli.

Giorni fa, mentre mi tormentavo con queste domande, mi è tornata alla mente una predica di Monsignor Aldo Da Villa, un buon prete, che ho incontrato nella mia giovinezza. A quel tempo ero appena adolescente ed egli, che fu poi uno dei miei primi parroci, incentrò tutto il suo discorso sull’affermazione che bisogna sempre ripartire dall’inizio perché avere la possibilità di voltare pagina e ricominciare daccapo è un gran dono di Dio. Non sto a spiegarvi perché oggi la predica mi sia diventata un appiglio esistenziale quanto mai necessario però vi posso assicurare che per me è stato ed è un gran dono. Mi auguro che almeno a qualcuno dei miei ascoltatori capiti altrettanto.

Autoreferenzialità

Confesso di non aver mai avuto un buon rapporto con l’autoreferenzialità, vocabolo di cui fino a una dozzina di anni fa non conoscevo neppure il significato.

Sono venuto a conoscenza di questa “brutta bestia” quando suggerii ad un giovanissimo cappellano, di primo pelo, di iniziare il suo servizio pastorale in parrocchia facendo un giro per accertarsi di come si muovessero in questo campo le comunità più vivaci. Tra le altre suggerii di far visita a mio fratello don Roberto perché, per quanto riguarda associazioni giovanili e catechismo, ero e sono convinto che quella di Chirignago sia certamente una delle parrocchie migliori. Quel giovane prete mi rispose che non riteneva opportuno farlo perché sosteneva che anche mio fratello peccava di autoreferenzialità. Non gli chiesi quale fosse il senso della sua affermazione ma successivamente appresi dal dizionario il significato di tale termine: “Autoreferenzialità è la tendenza a parlare e ad agire riferendosi solo alla propria persona”.

Questo discorso mi si è ripresentato recentemente in merito ad una presa di posizione di un mio collega più giovane. Dopo aver manifestato la mia stima per lui e per il suo operato in parrocchia, ho affermato di non condividere fino in fondo le sue tesi, che ritengo opinabili, spiegando che nella parrocchia, ove ho operato per trentacinque anni, pur avendo battuto strade ben diverse da quelle che lui indicava, abbiamo raggiunto risultati molto positivi. A corollario di quest’affermazione ho elencato una serie di realizzazioni che mi sono costate care ma delle quali sono veramente orgoglioso. Nonostante questo disse che peccavo di autoreferenzialità!

I fanfaroni, i “faccio tutto io!” non piacciono neppure a me ma credo che chi, con onestà e sano realismo, si limita a riferire gli obiettivi che è riuscito a raggiungere, pur con gli errori e i limiti di ogni essere umano, non solo abbia il diritto di essere fiero e contento del proprio operato ma talvolta sia perfino meritorio perché indica strade percorribili. Mi è sorto quindi il timore che chi accusa gli altri di essere autoreferenziali lo faccia perché lui ha poco o nulla di buono da riferire.