Non lasciatevi rubare la speranza

Una delle frasi ricorrenti nei discorsi di Papa Francesco, oltre a quelle che si riferiscono alle “periferie” delle nostre città, della nostra cultura, della nostra chiesa ed altre infinite esortazioni a credere nel Dio della misericordia, è quella ribadita spesso con convizione di “non lasciarci rubare la speranza”.

Papa Francesco, a differenza di tantissimi pontefici, pur santi, è un Papa del tutto declinato al positivo, e sta finendo per passarci alcuni principi “chiari e distinti”.

L’ammonimento del Pontefice a non farci rubare la speranza dai pessimisti, dai burocrati, dai politici corrotti, dagli ecclesiastici di mestiere e dai nichilisti del nostro tempo, è per me, e penso per l’umanità, uno dei regali più belli e più preziosi ch’egli ci possa fare.

Ho la sensazione che questo seme sparso con tanta convinzione e tanto coraggio, stia mettendo radici e qualche germoglio anche in me, piuttosto fragile e pessimista. Chiedo a voi miei amici di darmi un minuto per confidarvi come ho felicemente scoperto che la semente del Papa pare stia attecchendo anche nel mio animo.

Il discorso è povero e quasi banale, però per me è stata una felice scoperta.
Eccovi la piccola storia: in una delle mie rarissime visite a mio fratello Roberto ho notato che aveva in giardino un arbusto fiorito con delle campanule bianche, gialle e rosa che pendevano dal ramo con la testa all’in giù. Amante delle piante, ne chiesi un paio a mio fratello, appresi poi in seguito ch’erano piante lacustri e che non sopportavano ne il sole ne il gelo. Queste piante da un paio d’anni rallegrano il parco del don Vecchi. L’autunno scorso, essendosi riprodotte in esubero, pensai di non portarle dentro casa ma di lasciarle accostate ad una parete a sud, protette dal tetto e dai poggioli, sennonché mi accorsi che erano state bruciate dal ghiaccio.

La cosa mi dispiacque quanto mai, ero amareggiato di non poter più godere di quel bel fiore. Sennonché suor Teresa, nel cui cuore il germe della speranza del Papa ha attecchito più che nel mio, mi rassicurò che il gelo non aveva intaccato le radici. Cosicché tagliai il fusto esterno e misi al sole questi vasi con i soli monconi di ramo, apparentemente secchi.

A metà maggio, con i primi tepori primaverili spuntarono dei germogli, che ora sono quanto mai rigogliosi. Ogni volta che guardo questi vasi mi pare che mi ripetano: il secco, il guasto è quello che appare, ma nel cuore della nostra gente le radici cristiane prima o poi metteranno germogli!

La Comunione al separati

Io non sono né un teologo né un esperto di morale cristiana, però non sono mai riuscito a comprendere perché il peccato del divorzio, ammesso che esso sia sempre peccato, sia l’unica infrazione alla legge del Signore che non poteva essere perdonata, con la conseguenza che molti cristiani per tanti decenni si sono sentiti degli esclusi, tenuti fuori dalla porta della chiesa e dalla misericordia del Signore!

Un tempo, quando i cristiani si confessavano con una certa frequenza, mi sono spesso imbattuto in queste situazioni di disagio spirituale, ritenute insanabili dalla chiesa ufficiale. E’ vero che da qualche decennio gli uomini di chiesa hanno cominciato a dire che le persone che si trovano in queste condizioni potevano e dovevano pregare e non allontanarsi ulteriormente dalla chiesa e dal Signore, comunque questi discorsi da parte degli esperti, rappresentavano poco più di “pannicelli caldi” per la loro guarigione.

Da confessore non ho mai in verità presentato ai penitenti in difficoltà per questioni di coscienza, come risposta ai loro drammi interiori, le pagine del libro di morale, ma ricordandomi molto bene che l’ultimo giudice titolato e competente ad emettere sentenze in rapporto alla propria condotta, rimane sempre e per tutti la propria coscienza, ho sempre consigliato che se questi penitenti erano convinti che il buon Dio li comprendeva e li perdonava s’accostassero serenamente al Sacramento.

Confesso però che un piccolo margine di scrupolo o di dubbio me lo sono sempre portato addosso. L’ultimo intervento, in proposito alla comunione dei divorziati, seppur cauto e condizionato, di Papa Francesco, mi ha liberato anche da questa piccola spina che talvolta pungeva la mia coscienza.

Sono ben cosciente di quanta difficoltà e di quanta opposizione il nostro Papa abbia incontrato nel suo cammino di misericordia e di liberazione, comunque pare che l’abbia spuntata senza rotture e lacerazioni e per questo gli sono infinitamente grato e gli voglio ancora più bene. Il Papa piano piano sta liberando il cristiano dai lacci e laccioli e sta sempre più aiutando l’uomo d’oggi ad amare e ringraziare il Signore per la sua immensa bontà.

Una strana scoperta

Forse stavo frequentando il liceo quando qualcuno, che non ricordo più chi sia stato, mi ha passato il quindicinale “Adesso”.

Ho cominciato fin d’allora a leggere con tanta passione questo periodico, diretto da Primo Mazzolari; per quei tempi era un periodico assolutamente d’avanguardia nel campo cristiano.

Ho poi continuato a leggerlo in maniera un po’ clandestina perché anche la gerarchia locale del tempo era molto sospettosa nei suoi riguardi. Ho avuto poi modo quindi di seguire le vicissitudini di don Mazzolari, che da prete aperto ai tempi nuovi subì una vera “persecuzione” da parte del cosiddetto Sant’ufficio della curia vaticana, tanto da costringerlo prima a chiudere il giornale per poi riaprirlo facendone direttore responsabile un suo amico, e continuando a scrivere nascondendosi dietro un pseudonimo. Comunque la mano della curia vaticana è stata particolarmente pesante, arrivando a proibirgli non solamente di scrivere, ma perfino di predicare, confinandolo a Bozzolo una piccola parrocchia di campagna.

La venuta del Concilio però ridimensionò il concetto di chiesa, ma soprattutto l’avvento di Papa Giovanni al soglio pontificio riabilitò questo prete, che soffrì in silenzio gravissime umiliazioni da parte di un’organizzazione ecclesiastica, ottusa, chiusa al domani e burocratica quanto mai.

In questi giorni m’è capitato di leggere “Impegno” il periodico edito dalla Fondazione don Mazzolari, ove ancora una volta sono venuto ancor più a conoscenza della “persecuzione” subita da questo prete intelligente ed obbediente fino all’impossibile. Riflettendo su questa vicenda ecclesiastica è venuto da pensare di quanto io sia stato fortunato di vivere nella stagione di Papa Francesco. Se fosse continuato lo spirito inquisitore di un tempo, credo che date le mie intemperanze almeno una scomunica l’avrei presa!

Ai nostri tempi si è amareggiati per il calo dei fedeli o per qualche altro scandalo che continua a sporcare il volto della chiesa, ma quanto più bella, più viva, più evangelica è la chiesa dei nostri tempi!

Ora capisco l’ottimismo di Papa Giovanni, che da studioso di storia della chiesa qual’era, ci diceva quando era nostro Patriarca, che mai come ora la comunità cristiana vive momenti inebrianti.

La lettura poi delle vicende di don Mazzolari con i dicasteri della Santa sede mi ha ricordato pure che in tempi lontani un parroco a cui ero sembrato troppo avanzato di idee, per alcune domeniche mi proibì di predicare; mi faceva dir messa, ma predicava lui! Comunque la cosa si concluse presto e per mia fortuna senza sanzioni canoniche!

La “religione” di Papa Francesco

La catechesi di Papa Francesco si esprimono soprattutto con i gesti e le scelte pastorali.

Mi pare che al primo posto ci siano le sue prese di posizione a favore degli “ultimi”, delle “periferie” e le sue iniziative, pur minimali, ma di grande significato, che sono sempre a favore di quelle creature che egli afferma che la società attuale definisce “gli scartati”, ma che lui coerente con la logica del vangelo ritiene invece “pietre d’angolo!”

Ho letto con estremo interesse la notizia apparsa su l’ultimo numero de “Il Cenacolo”, la bellissima rivista dei padri sacramentini, l’ultimo gesto di carità cristiana di Papa Francesco. Il nuovo “parroco” in tonaca bianca della comunità cristiana de “Il Vaticano” giorno per giorno sta portando avanti con estrema coerenza e con gesti sempre più in linea col Vangelo e una sua linea pastorale che privilegia la solidarietà, annunciata mediante il suo insegnamento papale, immediatamente tradotta con queste scelte pastorali.

E’ da una vita che vado ripetendo che per la quasi totalità delle parrocchie mestrine “la Carità” rappresenta la cenerentola delle attività pastorali, e che è tempo che sia le singole comunità per conto loro, che assieme alle altre, comincino a dar vita a sempre nuove iniziative a favore dei concittadini in disagio.

Solamente allora il volto di Gesù sarà visibile nella Chiesa di Mestre.

Bisogna che ci convinciamo sempre più che se la fede in Dio che non si traduce in gesti concreti di carità cristiana, si riduce ad una pia illusione che può essere ritenuta tutto, ma non proposta evangelica.

 

Ambulatorio in Vaticano per i poveri

Ambulatorio medico-sanitario, recita la targhetta su un portone ligneo sotto il colonnato di piazza San Pietro. È il dono fatto qualche mese fa da papa Francesco ai senzatetto romani, avviando un nuovo servizio accanto a quelli già attivi, e sempre molto frequentati, delle docce e della barberia. Il servizio è stato affidato all’associazione Medicina solidale onlus. “Siamo grati a papa Francesco per aver voluto, ancora una volta, dare un segno concreto di misericordia in piazza San Pietro alle persone senza fissa dimora o in difficoltà”- ha dichiarato in una nota Lucia Ercoli, direttrice dell’associazione. “I nostri medici insieme a quelli del Policlinico di Tor Vergata hanno accettato con grande passione questa nuova sfida che unisce idealmente il lavoro fatto in questi anni nelle periferie con il cuore della cristianità.”

L’ambulatorio, come già accade a Tor Bella Monaca, Tor Marancia, Montagnola e Regina Coeli, garantirà visite, analisi e terapie per i più bisognosi. Il lunedì i circa 150 beneficiari dei locali docce e barberia, inaugurati lo scorso anno, vanno a cambiarsi i vestiti, lasciando gli indumenti sporchi e indossando quelli puliti messi a disposizione dal reparto biancheria. Servizi potenziati con la casa-alloggio per ricoveri notturni nella sede aperta pochi mesi fa a via dei Penitenzieri.

Fuoco sotto la cenere

Ormai m’ero rassegnato. Da almeno vent’anni avevo sognato che a Mestre parroci e parrocchie sentissero il bisogno di avere un centro che da un lato razionalizzasse e controllasse tutte le associazioni e le “agenzie” cattoliche che sono impegnate sul fronte dei poveri, e dall’altro lato fosse pure operativo concentrando in uno stesso luogo le attività più consistenti in maniera che ai concittadini in difficoltà fosse facile trovare una grande istituzione dove sia possibile avere risposte adeguate alle necessità più diverse. Non è che in questi anni sia stato con le mani in mano, tanto che nel seminterrato del don Vecchi c’è già un abbozzo di questo centro, che io ho denominato con una certa enfasi “il polo solidale del don Vecchi”.

Però è una struttura ancora troppo piccola ed inadeguata. Nel recente passato vi fu un momento in cui mi illusi che il progetto prendesse corpo, tanto che avevamo individuato un terreno e si aveva incominciato a disegnare quella che sognavo fosse intitolata la “cattedrale della solidarietà”.

Il Patriarca Scola s’era lasciato coinvolgere, dando appoggio e facendo promesse, però m’accorsi quasi subito che l’ambiente cattolico non era maturo, a cominciare dalla Caritas che affermò di non crederci, e don Franco che mi disse: “Bello, don Armando, però per i soldi dovrai arrangiarti!”

L’uscita poi di scena del vecchio Patriarca e l’insorgere dei guai finanziari della diocesi, che già era poco convinta e propensa di imbarcarsi in un progetto così nuovo e impegnativo, mise una grossa pietra tombale sopra al mio sogno.

La Fondazione poi si impegnava in quello che doveva diventare un progetto pilota per prolungare ulteriormente l’autosufficienza; sennonché la scelta dell’assessore della Regione Senargiotto di candidarsi per il parlamento europeo, pur avendo promesso appoggio finanziario, impegnò a fondo la Fondazione per tentare di portare avanti senza alcun aiuto pubblico suddetto progetto.

Dati i miei quasi novant’anni m’ero rassegnato a lasciare in eredità ai posteri il sogno di razionalizzare e concentrare in una struttura polivalente uno dei più rilevanti problemi di qualsiasi comunità cristiana e in particolare della Chiesa di Mestre, che è costituito di dare autentica consistenza al progetto della carità. Sennonché qualche giorno fa è morta una persona che aveva fiducia in me tanto che aveva deciso di lasciarmi ogni suo avere, ma che per mio suggerimento aveva scelto la Fondazione dei centri don Vecchi.

Data la consistenza del patrimonio ereditato, la brace, che era ancora viva pur sotto la cenere del mio sogno, cominciò a brillare, tanto che da ora in poi ho deciso di non perdere occasione per suggerire e premere sul Consiglio di amministrazione ed impegnarmi su questo progetto.

Ora mi trovo molto di frequente a pensare: “Vuoi vedere che se le cose andranno per il giusto verso e se il Signore avrà ancora un po’ di pazienza a mandarmi “la cartolina di precetto” avrò anche la grazia di vedere questa lungamente sognata cittadella della solidarietà?

Se poi non sarà una cittadella mi accontenterei anche che fosse un piccolo borgo o un villaggio solidale!

Lavoro e “lavoro”

In quest’ultimo tempo ho fatto due esperienze assolutamente contrapposte su quell’attività umana che il vocabolario definisce: lavoro.

Veniamo alle due prime esperienze di lavoro nel quale mi sono imbattuto. La prima: essendo guastato l’impianto di amplificazione sonora della mia “Cattedrale fra i cipressi” sono ricorso ad una ditta del settore.

Penso sia una pìccola azienda formata dal “padrone”, tutto impegnato a reperire lavoro e dal “dipendente” che segue le installazioni e le riparazioni richieste.
Non so se ammirare più il primo che il secondo o viceversa!
Puntualità, disponibilità, competenza, impegno e cortesia!

M’è parso tutto questo un mix veramente meraviglioso, e sorprendente perché non è facile trovarne un altro pari.

Secondo esempio di lavoro, ossia di un impegno serio, competente e generoso: al don Vecchi abbiamo un centro cottura del catering “Serenissima ristorazione” nel quale lavora una cuoca di mezza età, che veramente sarebbe giusto offrirle una croce al merito o il titolo di “maestra del lavoro”. Arriva presto ed ogni giorno cucina dai 150 ai 200 pasti, con una bravura, un senso del dovere, ed una amabilità e generosità pressoché illimitata. Io non l’ho mai sentita lagnarsi, sentirsi vittima e sfruttata dai “padroni”, anzi pare che ci trovi gusto d’accontentare i suoi numerosi clienti diversificando perfino il menù. Credo che la stima l’affetto e la riconoscenza di noi utenti la gratifichi e l’aiuti a lavorare come se andasse a divertirsi.

In contrapposizione a questi esempi purtroppo vengo a conoscenza di “lavoro” apprezzato e sorretto da parte dei sindacati, che avallano i fannulloni, quelli che timbrano il cartellino e poi vanno dal parrucchiere, quelli che pare facciano di tutto perché la loro azienda fallisca, quelli che non accettano uno straordinario per morte a morire, quelli che si nascondono dietro il mansionario e i diritti del lavoratore, quelli che pare siano impegnati a produrre miseria e disoccupazione, quelli che perfino protestano perché altri, “vedi Reggia di Caserta” lavorano troppo!

Da qualche tempo penso che il dizionario dovrebbe descrivere il lavoro serio come attività umana tesa a soddisfare i bisogni e creare benessere, e “il lavoro” concepito dai sindacati e da certi dipendenti dagli enti statali e parastatali che in questo caso potrebbe essere definito: un modo comodo per sbarcare il lunario senza far niente!

Amore ed odio

I funerali e le televisioni hanno appena terminato la “grande abbuffata” sulla vita e sulla proposta civile e politica di Marco Pannella. Dopo gli interventi dei più prestigiosi giornalisti credo che per tutti sia praticamente impossibile scrivere qualcosa che non sia già stato detto. Se questo vale per gli uomini della cultura, tanto di più vale per me povero vecchio prete!

Però credo, che se confido agli amici quali siano stati i miei rapporti personali con questo spirito libero e liberatorio, possa aiutare anche i miei amici a prendere posizione su questo personaggio, che ha influito più di molti altri sul pensiero e sul costume della gente del nostro tempo.

Già in passato ho affermato a chiare lettere che per i radicali in genere e per Pannella e la Bonino in particolare ho sempre nutrito un sentimento di “amore ed odio”. Confesso inoltre che ho ascoltato con molto interesse il loro messaggio e che pure per certi aspetti ne ho tratto beneficio. Non sarei quello che sono a livello civile e pure religioso se non avessi incontrato questi testimoni e profeti laici, verso cui provo ammirazione e riconoscenza!

Comincio con “l’odio”: Ho sempre rifiutato in maniera “radicale” il Pannella dell’aborto, dell’eutanasia, e della liberalizzazione della droga. Perché ho sempre avuto l’impressione che questo personaggio pretendesse di mettersi sul posto di Dio volendo rivedere e riprogettare il volto della creazione voluta dal Signore.

Reputo istigazione all’omicidio, al suicidio e alla corruzione della gioventù le prese di posizione arroganti ed assolute di Pannella e dei suoi discepoli.

Ora vengo “all’amore”; ho ammirato, condiviso e sono riconoscente per le campagne di Pannella: sulla giustizia giusta, “sulla sua crociata” a favore dei paesi sottosviluppati, sulla assoluta presa di posizione contro la disumanità delle nostre carceri, sul suo impegno per i diritti civili, sulla difesa all’ultimo sangue del cittadino di fronte a qualsiasi legge che limiti o mortifichi la sua libertà, sulla sua intransigenza contro una chiesa trionfalista, intrigante e irrispettosa dell’autonomia dello Stato, il quale deve garantire sempre a tutti la libertà.

Ho pure condiviso ed ammirato la scelta di Pannella della non violenza portata avanti con la parola e con i suoi digiuni.

Questo è il Pannella che ho amato, ammirato e di cui mi sento debitore. Da Pannella poi ricevo come preziosissima eredità la lettera che ha inviato a Papa Francesco, lettera di una tenerezza commovente, che io reputo sia la testimonianza più bella e più genuina che emerge dalla parte più pulita e più sana della coscienza di questo “combattente” del nostro tempo.

Caro papa Francesco,
Ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa, questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano.

Questa passione è il vento dello “Spirito” che muove il mondo lo vedo dalla mia piccola finestra con le piante impazzite che si muovono a questo vento e i gabbiani che lo accompagnano.

In questo tempo non posso più uscire, ma ti sto accanto in tutte le uscite che fai tu.

Un pensiero fisso mi accompagna ancora oggi “Spes contra Spem”.

Caro Papa Francesco, sono più avanti di te negli anni, ma credo che anche tu ti trovi a dover vivere “spes contra spem”.

Ti voglio bene davvero, tuo Marco

PS: ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene.
Roma 22 aprile 2016

L’eremita trevigiano

Per una giornata ha tenuto banco sulla prima pagina de “Il Gazzettino” la notizia che un nostro conterraneo da trent’anni vive solo, senza contatti con la gente, nutrendosi con quello che gli offre il campo, e rinunciando a tutto quello che la tecnica ci mette a disposizione e che tutti ritengono  assolutamente necessario; energia elettrica, acquedotto, telefono, radio, televisione e quant’altro.

Immagino che la stragrande maggioranza dei lettori del nostro quotidiano locale avrà giudicato questo nostro concittadino come uno svitato, maniaco, affetto da qualche psicosi occulta.

Il fatto poi che venga a mancare anche la componente religiosa che ha motivato la quasi totalità degli eremiti ha reso ancor più incomprensibile questa scelta esistenziale così anomala e che a parere di tutti sembra pressoché impossibile ed assurda!

Confesso che questa notizia mi ha fatto riflettere, non arrivando a comprendere ed avvallare questa scelta, ma mi è parsa utilmente provocatoria per la grande parte di noi che viviamo in maniera artificiosa, carica di bisogni imposti dalla pubblicità, sommersa dal rumore e dai messaggi più contrastanti e più fasulli, caricandoci di una infinità di esigenze costose e spesso perfino rovinose sul nostro equilibrio fisico ed esistenziale.

Per associazione di idee questa notizia mi ha riportato ad una frase del lavabo posto all’ingresso del grande refettorio costruito dai padri Somaschi e che il seminario di Venezia ha ereditato. Su quel lavabo c’era scritto in latino: “beata solitudine o sola beatitudine!”

Noi, uomini del nostro tempo, di certo pecchiamo per mancanza di silenzio e di momenti di riflessione personale, cosa che spesso ci rende superficiali, poco pensosi e meno saggi!

Prima di addormentarmi ho detto una preghiera per “l’eremita laico” di Preganziol, lui forse esagera da un lato, ma noi di certo esageriamo per il lato opposto!

Ho capito da questa riflessione che ho poco silenzio nella mia giornata!

Riassunta a novant’anni

Ultimamente la Fornero, con grande ira dei sindacati e di certi lavoratori che han sempre lavorato poco, ha elevato l’età della pensione. Renzi, giovane politico che fa un “miracolo” al giorno, spostando le montagne dell’immobilismo della burocrazia e della politica, mediante un meccanismo un po’ contorto e chiedendo qualche sconto sulla pensione, pare stia accorciando i tempi per chi ha poca voglia di lavorare e vuole sedersi in poltrona un po’ in anticipo. Comunque neanche la Fornero si sognerebbe mai di riassumere una novantenne! I sindacati di certo chiederebbero il rogo per chi si sognasse di proporre operazioni del genere! Ebbene, a me che in genere ho sempre navigato contro corrente, pare stia andando in porto una riassunzione, come operatrice di liturgia, di una signora che ha già compiuto novant’anni! Ho incontrato questa signora più di mezzo secolo fa ed è stata “alle mie dipendenze” per una trentina di anni. Il mondo dei poveri di Mestre ricorda la “Golda  Meyer” di Ca Letizia.

L’Emilia che funzionava come cuoca, gestore e diciamo pure madre, seppur burbera, per le centinaia di poveri che cenavano nella prima mensa di Mestre.

Questa volontaria copriva la sua tenerezza materna con un atteggiamento burbero che non ammetteva contraddizioni. Per una trentina d’anni la mensa di Ca Letizia ebbe un capo indiscusso che guidò quella barca di sbandati attraverso mille peripezie.

Metà poi di quel mondo di ragazzi  ch’erano giovani attorno agli anni sessanta e settanta, conobbero la stessa “Giovanna d’Arco” al Rifugio San Lorenzo, la casa di montagna della parrocchia del Duomo. Con la mia dipartita da Mestre l’Emilia s’è presa una pausa per curare il marito ed accompagnarlo all’altra sponda, godendosi un poco “la pensione” della sua lunga dirigenza caritativa.

Per questa estate mi ritrovo in difficoltà per la gestione della “mia cattedrale” e qualche giorno fa le proposi un impiego stagionale e a part-time. Non ci pensò un istante ed “ha firmato il contratto”; il paradiso glielo ho ormai garantito da decenni, ora discutiamo della fila e sul tipo di poltrona da offrirle!

La nuova galleria

Il “don Vecchi sei”, che ora ha un volto, un’articolazione dei locali ed una destinazione a soggetti diversi ai quali è destinata, non è nato per incanto ma, come avviene, per ogni creatura ha avuto una gestazione abbastanza faticosa di almeno quattro o cinque anni.

In quest’ultimo tempo, che precede l’inaugurazione, si è parlato spesso di rette, di regolamenti e di destinatari, però chi ha concepito la nuova creatura, durante questa faticosa gestazione, l’ha sognata accogliente, bella signorile, ad ha lavorato in silenzio e lungamente perché risultasse pari al sogno.

Una delle caratteristiche che si colgono di primo impatto con i centri della nostra fondazione è certamente l’aspetto signorile e la scelta dell’arredo di mobili, piante e quadri. Così è avvenuto anche per quest’ultima creatura, che pur avrà meno spazi comuni delle altre, dato che la maggior parte dei residenti saranno meno “stanziali” di quelli degli altri centri. Comunque anch’essa offre un vastissimo salone perché la popolazione che vi abiterà abbia un ampio spazio per relazioni umane e per i momenti di relax. Quando pensai all’arredo delle sue pareti trovai subito difficoltà ad immaginare una accozzaglia di poveri quadri raccogliticci e mi venne in mente di chiedere ad un mio vecchio parrocchiano, che nel passato mi ha aiutato nelle situazioni più diverse, di dipingere una serie di quadri per farne una galleria permanente. Questo signore, che di professione ha fatto il fisico, in enti di risonanza mondiale, ma nel contempo ha dimostrato di avere un ottimo rapporto con la tavolozza, alla mia richiesta, dopo qualche resistenza dovuta soprattutto alla sua modestia naturale, mi ha offerto la sua disponibilità tanto che da alcuni mesi sta lavorando a tempo pieno per offrirci una galleria di una trentina di sue opere.

La disponibilità e la generosità di questo signore dall’ingegno e dalle risorse di tipo michelangiolesco sono arrivate non solamente a donarci un numero così consistente di opere, ma a regalarci pure le cornici.

Quando penso a tutto ciò mi viene da concludere che la fatica per il “sei” trova già una sua ricompensa per la scoperta che a Mestre ci sono anche cittadini così bravi e generosi.

Diciamo una preghiera!

Abbastanza di recente ho scritto che mi faceva bene, a livello spirituale, la lettura di un periodico di testimonianze di cristiani della chiesa metodista d’America.

Il periodico è uno degli strumenti pastorali di quella comunità cristiana offerto ai fratelli di fede. Nella sostanza si tratta di considerazioni, o meglio ancora di confidenze, da parte di fedeli comuni che tentano di leggere gli eventi quotidiani alla luce delle verità contenute nella Bibbia, per trovare in questa lettura: pace interiore e serenità.

Non è che io rimanga colpito dalle argomentazioni teologiche, perché i loro discorsi sono quasi sempre molto elementari, ma dallo spirito di fede con cui essi trovano nella Bibbia la possibilità di una interpretazione cristiana degli eventi ed uno stimolo per viverli in maniera coerente.

Credo che questo mio entusiasmo per la semplicità, il candore e la fiducia con le quali questi cristiani confidano ai fratelli di fede le loro esperienze spirituali, derivi dal constatare che noi invece abbiamo troppo pudore ed estrema riservatezza nel confidare agli altri i nostri tentativi di carattere ascetico.

Perfino per noi preti riesce difficile trattare di queste cose quando non parliamo dal pulpito.

Sennonché qualche giorno fa è venuto al don Vecchi a far visita ad una sua vecchia parrocchiana un mio cappellano di molti anni fa; in quell’occasione egli ha approfittato per venire a trovare anche me. Dopo i soliti convenevoli e lo scambio reciproco di qualche notizia, questo prete, che penso abbia almeno una trentina di anni meno di me, prima di congedarsi mi disse: “Diciamo una preghiera assieme per i sacerdoti e per noi!”
Naturalmente accettai e finita l’Avemaria diede la sua benedizione a me e alla sua vecchia parrocchiana che l’aveva accompagnato nel mio alloggio.

Nell’andarsene, poi, chiese dove era la cappella perché sarebbero andati colà a recitare il rosario. Don Umberto, così si chiama il mio visitatore, l’ho conosciuto fin dai vecchi tempi come uomo semplice e di fede.

Comunque la preghiera detta assieme e la sua benedizione mi hanno fatto molto bene perché testimonianza di una spiritualità che nonostante i miei più di sessantanni di sacerdozio non ho ancora raggiunta.

Ristorante Serenissima: cena ad un euro, perché ho chiuso

La stampa e la televisione ne hanno parlato talmente tanto del mio progetto di offrire un pranzo ad un euro per i concittadini in disagio economico e che soffrono in silenzio e con dignità la loro difficoltà che mi pare quasi superfluo ritornare sull’argomento, però sento il bisogno di chiarire qualche aspetto su questo progetto non riuscito. È da una vita che mi occupo dei poveri, perché, lo ripeto ancora una volta, a mio parere è aria fritta la vita religiosa e la fede se non diventano carità.

A riprova di questa affermazione ricordo il mio impegno per la San Vincenzo della nostra città, l’apertura di Ca’ Letizia con i suoi servizi di mensa serale, di fornitura di vestiti, delle docce, del barbiere, le vacanze degli anziani e gli adolescenti, il caldo Natale. Il mensile “Il Prossimo”, poi a Carpenedo l’apertura de “Il Rtrovo” per gli anziani, di Villa Flangini per le vacanze degli anziani poveri, del gruppo “Il Mughetto” per i disabili, del gruppo San Camillo per gli ammalati, poi i cinque Centri don Vecchi con i relativi 400 alloggi per anziani autosufficienti in difficoltà economiche, infine: Il Polo Solidale del don Vecchi con i suoi magazzini per vestiti, mobili, arredo per la casa, Banco di distribuzione di generi alimentari, il chiosco per la frutta e verdura, lo spaccio alimentare per la distribuzione degli alimentari in scadenza. Ciò premesso, nonostante i miei quasi 90 anni, non ho perso la voglia e sento ancora il dovere di farmi prossimo nei riguardi di chi è in difficoltà. Quindi, essendomi presentata l’occasione di raggiungere un tassello di questo curriculum, durato una vita, l’ho colto al volo. Le cose sono andate così: avendo letto su Avvenire che il manager della ristorazione in Milano, signor Pellegrini, offre mille pasti a sera ad un euro per i poveri, il mio angelo custode mi ha subito suggerito: “Perché non chiedi al catering Serenissima Ristorazione che fornisce i pasti ai residenti dei cinque Centri?” Avendo anche sentito dire che il signor Mario Putin, che è il fondatore e presidente di questa grande società di Vicenza, fornisce in Europa 200.000 pasti al giorno, perché non chiedergli un centinaio di cene al giorno? Il mio angelo custode è quanto mai intelligente e buono, e quindi una volta tanto gli ho dato ascolto. Non ci pensai un giorno e feci la richiesta a questo signore, che fino il giorno prima neppure sapevo che esistesse. A giro di posta mi giunse la risposta che avrebbe mandato Tommaso, uno dei suoi figli, per vedere cosa si poteva fare. Dopo pochi giorni giunse questo figlio di Putin, che cura la parte economica dell’azienda, e forse, vedendo il Centro don Vecchi ha capito che siamo persone serie e ci ha dato là su due piedi il via all’operazione. Il proseguo della vicenda lo conoscono un po’ tutti, perché demmo vita ad un battage pubblicitario tanto che mezza Italia ne è venuta a conoscenza.

Le testate televisive e giornalistiche andarono a gara per pubblicizzare questa insolita iniziativa benefica. Chiesi aiuto ai due miei vecchi collaboratori Graziella e Rolando Candiani, domandai il permesso alla Fondazione Carpinetum di utilizzare la sala da pranzo del Don Vecchi che alla sera era libera, in poco tempo abbiamo reclutato 60 volontari come camerieri ed organizzato al meglio l’iniziativa. Ci siamo messi in contatto con tutte le componenti cittadine che ritenevamo avessero sensibilità e conoscenza del settore del disagio sociale: i parroci, la San Vincenzo, la Caritas, la municipalità, l’apparato della sicurezza sociale, illustrando nei dettagli il progetto. Non volevo in maniera assoluta creare una nuova mensa per i poveri perché a Mestre ce ne sono già quattro: Ca’ Letizia, i frati cappuccini, la parrocchia di Altobello e la mensa Papa Francesco di Marghera. Queste mense funzionano benissimo, sono dignitose e soprattutto sono più che sufficienti per rispondere ad un tipo di povertà, che si rifà alla mendicità cronica, al disagio sociale, alla mancanza di tetto ed altro ancora. Con queste mense sono in contatto costante, tanto che ogni qualvolta abbiamo degli esuberi di alimenti li mandiamo ad esse. Quindi l’aspetto specifico ed innovativo della nostra iniziativa era quello di intercettare ed aiutare quelle persone, che per i motivi più disparati quali: disoccupazione, mobilità, malattia, famiglia monoreddito, o pensione insufficiente, pur decise di reinserirsi nel tessuto sociale normale, passavano un momento di difficoltà e che per educazione e dignità non bussano mai alle porte del Comune, delle canoniche o di suddette mense per i poveri. Questo discorso lo abbiamo fatto a chiare lettere alla stampa, alla televisione e a tutti i collaboratori sociali che abbiamo interessato con ogni mezzo attraverso comunicati stampa, lettere e telefonate.

Esito? Certamente insufficiente! In tre mesi abbiamo avuto come ospiti abbastanza intermittenti una cinquantina di persone, raccogliticce, che spesso avendo appreso dalla stampa l’iniziativa ed avendo scoperto che l’ambiente è bello, che si mangiava bene, però pareva non avessero alcuna voglia di superare il momento di disagio per reinserirsi normalmente nella società. Fare una diagnosi di questa situazione mi è alquanto difficile: o non ci sono poveri di questo tipo? O non c’è stata collaborazione sufficiente da parte degli operatori sociali: parrocchie, assistenti sociali, associazioni specifiche del settore? O io sono inviso da queste realtà, o le persone bisognose di questo tipo non riescono ad uscire allo scoperto e superare il disagio d’aver bisogno degli altri, oppure c’è un po’ di tutto questo! Comunque tutto ciò non mi permetteva moralmente di caricare di un onere consistente il benefattore che si è dimostrato tanto generoso senza che ci fosse un risultato tale da giustificare l’impegno finanziario, quello delle spese e del disagio del Centro e quello di tutti i collaboratori che hanno generosamente messo a disposizione il loro tempo, sottraendolo ai loro impegni. Siccome io non sono un uomo per tutte le stagioni soprattutto considero come mia unica padrona di casa la mia coscienza, avendo la sensazione di non aver raggiunto lo scopo del progetto che avevo sognato ho deciso di chiudere.

Ho piena coscienza di aver deluso e scontentato un po’ tutti: i signori Candiani, tanto generosamente una volta ancora a disposizione, i volontari, la Fondazione, il Comune, l’opinione pubblica e soprattutto il gruppo di utenti. Questo mi dispiace veramente, ma mi sarebbe dispiaciuto ancora di più fare qualcosa che per me non era del tutto morale.

Aggiungo che ho tentato di trovare una soluzione alternativa per chi aveva trovato comoda la soluzione della cena ad un euro. Per le famiglie ho ottenuto i generi alimentari ogni settimana del Banco Alimentare dell’associazione Carpenedo Solidale e pure i generi alimentari in scadenza dallo spaccio alimentare del don Vecchi, per gli anziani del Centro ho ottenuto il pranzo al prezzo dimezzato di euro2,50 e all’altra decina di utenti ho consigliato le mense dei Cappuccini e della San Vincenzo. Comunque tutte le persone che sono rimaste dispiaciute per la mia decisione possono continuare l’esperienza della cena, io fornisco loro l’indirizzo di chi mi ha generosamente aiutato: per la Fondazione Carpinetum il presidente don Gianni Antoniazzi, via San Donà 2; per il catering Serenissima Ristorazione il signor Mario Putin, via della Scienza 46 Vicenza, telefono 0444.348400.

L’opzione per cui sarei ancora disposto a mettermi in gioco sarebbe quella della fornitura, per asporto, a favore delle famiglie, dopo aver vagliato scrupolosamente la loro situazione. Questo però sarebbe possibile solamente se fosse potenziata la struttura del nostro centro di cottura ed aumentato il personale addetto.

Della scelta mi assumo tutte le responsabilità, e contemporaneamente ringrazio di tutto cuore chi si è messo a disposizione per la riuscita dell’impresa: la Fondazione, il signor Putin della “Serenissima Ristorazione”, i signori Candiani, tutti i volontari e la cuoca che s’è sobbarcata tanto lavoro straordinario perché il progetto andasse a buon fine. Da ultimo confido che ho capito ancor più lucidamente che a novant’anni è meglio che si lascino ai giovani queste “avventure” qualora essi avvertano il dovere di dare concretezza e verifica alla carità cristiana.

Mea culpa, nostra maxima culpa

Le denunce che le cose non vanno bene, né nel mondo né nel nostro Paese, sono infinite e continue tanto da far apparire la situazione peggiore di quanto non sia nella realtà. L’immagine di Carnelutti, il celebre “principe del Foro Veneziano”, quando affermava che anche pochi papaveri danno l’impressione che il campo di grano sia completamente rosso mentre in realtà non è così, mi colpisce ancora perché anche ai giorni nostri sono infinitamente di più le cose che funzionano rispetto a quelle guaste anche se queste ultime ci colpiscono maggiormente.

Resta comunque la cattiva abitudine di reagire di fronte alle difficoltà attribuendo le colpe e scaricando le responsabilità di tutto quello che non funziona, di tutto quello che non riteniamo giusto sui nostri politici che di colpe e di difetti ne hanno tanti ma la responsabilità non è solo loro anche se è certamente più comodo crederlo perché giustifica la nostra inerzia.

A me è di costante monito la solare affermazione che a questo riguardo fa Don Mazzolari nel suo famoso volume Impegno con Cristo: “Come la notte comincia con la prima stella che si accende in cielo e la primavera con lo sbocciare del primo fiore, così il mondo si fa nuovo quando ognuno si fa nuova creatura”.

Detto questo vorrei insistere su un altro aspetto che per me è determinante. A livello civile troppi pensano di esaurire con il voto, anche se espresso dopo una seria riflessione, il loro impegno e il loro dovere nei confronti della società. A livello religioso invece spesso un cristiano ritiene che per seguire l’esempio di Cristo sia sufficiente frequentare la Messa e osservare le principali regole morali senza pensare di avere anche dei doveri verso la comunità ecclesiale.

Se è vero che sia in campo civile che religioso l’esempio e la testimonianza personale sono importanti, è altrettanto vero che non sono sufficienti e sia il cittadino verso il proprio Paese che il cristiano verso la Chiesa hanno il sacrosanto dovere di partecipare, di intervenire costantemente e con decisione esprimendo critica, protesta o consenso su tutti gli aspetti della vita sia civile che ecclesiale.

Quindi, dopo aver tentato di essere noi per primi cittadini e cristiani coerenti, ci rimane l’obbligo di incalzare i responsabili della politica e della religione correggendo, insistendo, segnalando e offrendo il nostro contributo di pensiero. Tutto questo naturalmente non può ridursi ai soliti quattro gatti che protestano sempre per partito preso: vedi i centri sociali o gli altri soliti pochi che scrivono sulle rubriche “Lettere al Direttore”.

Sono convinto che se ai nostri sindaci, ai nostri parlamentari e ai nostri vescovi giungessero migliaia o decine di migliaia di lettere di protesta o di incoraggiamento per le loro decisioni le cose andrebbero ben diversamente da come vanno lasciando i “governanti” soli nelle loro scelte, in caso contrario dovremmo batterci il petto e confessare: “mia colpa, mia colpa, mia massima colpa”.

La povertà dignitosa

Io, sia alla San Vincenzo che in parrocchia e soprattutto alla mensa di Ca’ Letizia, ho toccato con mano che cosa sia la povertà con poca o con nessuna dignità: poveri grami, drogati, senza tetto, gente con poco comprendonio,viziosi, fannulloni, rissosi e via di seguito; sembra infatti che fra Mestre e Venezia vi siano almeno alcune centinaia di soggetti del genere. Sono comunque sempre stato convinto che si debbano aiutare anche questi fratelli meno fortunati o meno dotati d’intelligenza e di volontà.

Le prove di questa convinzione sono la mia pluridecennale militanza nella San Vincenzo e il mio impegno nella creazione e nella gestione della prima mensa per poveri a Mestre, con l’apertura del Ristoro di Ca’ Letizia, più di cinquant’anni anni fa assieme al mio vecchio parroco Monsignor Vecchi.

In verità soprattutto nei trentacinque anni in cui sono stato parroco ho incontrato anche qualche “caso” in cui la malattia o la morte del capo famiglia aveva ridotto all’indigenza alcune famiglie e per quanto ho potuto, soprattutto con la San Vincenzo, abbiamo cercato e talvolta siamo riusciti a offrire soluzioni efficaci. Questi casi però sono stati relativamente pochi. Nella mia comunità di quasi seimila anime si potevano contare sulle dita di due mani ma, se si cambia dimensione e ci si riferisce ad una città di 200.000 abitanti, questi “casi” diventano più consistenti.

Con l’apertura del “Ristorante Serenissima” intendevo intercettare questa “povertà dignitosa” e non quella di mestiere o di abitudine ma finora non ci sono ancora riuscito. Sono forse cinque o sei le famiglie in queste condizioni che vengono a cenare nel nostro “ristorante” (dico “ristorante” non per vezzo ma perché è tale!) e forse sono una decina i frequentatori singoli mentre gli altri trenta, quaranta sono “parenti prossimi” di quelli che frequentano le quattro mense per poveri esistenti a Mestre.

Non ho ancora perso la speranza di riuscire ad aiutare “i poveri dignitosi” ma sono vicino a perderla ma per ora mi conforta l’escamotage di offrire la possibilità dell’asporto della cena per consumarla a casa propria in famiglia e ogni sera le cene asportate sono più di una ventina. Confesso che mi sarei aspettato un risultato migliore dai parroci e dall’apparato quanto mai consistente degli operatori dell’Assessorato alla Sicurezza Sociale, comunque sono ancora lontano dallo sventolare la bandiera bianca. La vita è un combattimento!

Voglia di “sinistra”

A scanso di equivoci io sono, per nascita e per convinzione, per un’azione politica che riservi un’attenzione particolare alle classi meno abbienti perché chi governa deve tentare di offrire il necessario per vivere una vita dignitosa a tutti i cittadini.

La proposta insistente dei “Cinque Stelle” di offrire un salario minimo garantito per tutti però non mi convince. Questa soluzione ha già prodotto miseria nei paesi che hanno fatto l’esperienza del comunismo reale e credo che da noi essa riuscirebbe a produrre un numero di fannulloni superiore a quello già presente in abbondanza soprattutto negli enti statali e parastatali.

Ritengo che sia però una verità inconfutabile che, se si aspira a garantire benessere per tutti, prima è necessario produrre ricchezza e per produrla è indispensabile che ciascuno faccia la propria parte impegnandosi nel proprio lavoro sia esso manuale o intellettuale.

Mi sorprendono i discorsi che attualmente ricorrono frequentemente nel cosiddetto centrosinistra, una parte politica in cui abbonda l’irrequietezza e talvolta qualche nostalgia del massimalismo proprio dell’esperienza comunista ormai però storicamente conclusa. Quando sento frasi come “Voglia di sinistra”, pronunciate da frange della minoranza del partito democratico, o accuse, rivolte a chi oggi sta cercando di portare il Paese fuori dal guado, di fare una politica di destra adottando soluzioni caldeggiate un tempo dal centrodestra penso che sia ora di finirla con parole abusate come “destra” e “sinistra” perché sono arciconvinto che siano usate soprattutto da chi ambisce il potere ad ogni costo, imbrogliando gli allocchi. È ormai tempo che poniamo al governo chi ci sa fare, chi ottiene risultati e non chi chiacchiera e ha la testa tra le nuvole.

Mi pare poi sia giunto il momento che insieme si cerchino le soluzioni migliori e più efficaci relegando in soffitta schematismi vuoti ed inconcludenti che sono solo le foglie di fico degli ambiziosi e di chi non ha voglia di lavorare.