Aiutiamo i mariti divorziati anche a Mestre!

Qualche settimana fa ho letto su “L’avvenire”, il quotidiano di ispirazione cristiana, una notizia su un’iniziativa pastorale di un ordine religioso attivata a Milano.

Dei frati hanno restaurato un loro edificio non più utilizzato, ricavandone una dozzina di monolocali per mariti divorziati. Il discorso sul grave disagio in cui spesso vengono a trovarsi certi mariti la cui famiglia si è sfasciata, l’avevo sentito trattare anche da monsignor Pistolato, responsabile della Caritas del Patriarcato di Venezia.

Pare, da quanto si riferiva, che normalmente il giudice, nelle cause di divorzio, assegni quasi sempre la casa alla moglie, da un lato perché essa è considerata l’elemento più fragile, e dall’altro perché quasi sempre le sono affidati i figli. Il marito quindi, indipendentemente dalle sue responsabilità nei riguardi del fallimento del matrimonio, viene a trovarsi senza casa, per di più deve passare un assegno per il mantenimento dei figli e, talora, della moglie. Con gli stipendi attuali quest’uomo viene a trovarsi quasi sempre in una condizione di vera povertà.

A questo grave disagio si aggiunge poi che se non può dimostrare di avere un luogo idoneo dove accogliere i minori per il tempo che il giudice gli assegna per poter vedere i suoi figli, corre il rischio di essere privato perfino di questo momento di conforto per realizzare la sua paternità.

A Milano, con il concorso della Provincia e degli enti locali, i religiosi di cui parlavo hanno posto in atto la risposta, pur limitata a 12 minialloggi, assegnandoli ad una pigione pressoché simbolica di 200 euro al mese; per il resto dei costi contribuiscono gli enti succitati, in modo che questi signori possano vivere, almeno per due anni, in un luogo confortevole a costi ridotti e inoltre possano accogliere i figli in una sala e in un parco sempre messi a disposizione dai frati.

Colpito da questa bella iniziativa, l’ho offerta, attraverso un editoriale de “L’incontro” alle parrocchie del mestrino, essendo la Fondazione Carpinetum impegnata su altri fronti. S’è fatta avanti una parrocchia che ha i locali, ma anche un mutuo gravoso da pagare che le risulta insostenibile. Pare che con mezzo milione di euro e la collaborazione di questa parrocchia si potrebbe porre in atto questa iniziativa pastorale veramente innovativa, offrendo quasi una decina di alloggi ad altrettanti mariti in difficoltà.

Voglio rilanciare il progetto, ora più definito, dalle pagine di questo nostro periodico. Spero che tra le 28 parrocchie del mestrino ce ne sia almeno una che da sola, o consorziata con altre, voglia realizzare quest’opera di carità.

L’Europa, l’Italia, il Comune…

Anche quando uscirà questa pagina del mio povero diario spero che le cose delle quali ho pieno il cuore, e che mi preoccupano alquanto, siano felicemente risolte.

Ho osservato il silenzio perché ora non porto più la responsabilità della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ritengo giusto che chi è al timone scelga la rotta e le modalità di condurla e che chi vi collabora non lo intralci, anzi favorisca in ogni modo il suo modo di raggiungere lo scopo. Ho poi grande fiducia e grande rispetto per il giovane “capitano” e perciò spero proprio che ci porti alla meta.

Grazie a Dio siamo riusciti, pur con qualche difficoltà, ad ottenere il finanziamento per il “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia. L’assessore Sernagiotto ha ottenuto un fondo di rotazione di cui a noi sono stati destinati quasi tre milioni di euro, da restituire in 25 anni a tasso zero.

Sarà di certo un percorso di guerra quello di incassare concretamente la somma, perché alla burocrazia italiana dovremo sottostare; in questo nostro caso si è aggiunta quella europea.

Comunque, disponendo di collaboratori ormai abituati a percorrere gli itinerari tortuosi ed assurdi della burocrazia, credo che da questo lato ce la faremo. Mentre le difficoltà insorgono a causa del nostro Comune. La fruibilità di un terreno che la Fondazione possiede a Campalto è condizionata dal fatto che il Comune decida di fare o non fare la via Orlanda bis.

Il nostro Comune, anche in questo settore, si rifà al comportamento dell’asino di Buridano, che non riesce a scegliere. Allora ci ha ventilato, in alternativa, un’altra soluzione, ma anche per questa sta manifestando indecisione.

Intanto il tempo passa ed aumenta il rischio di perdere questa insperata e splendida opportunità. Oggi è in gioco il domani e la serenità di un’altra ottantina di anziani poveri e per di più alquanto acciaccati.

Io sarei stato per lo scontro frontale, per l’assalto mediatico all’arma bianca. Avrei portato alla sbarra dell’opinione pubblica l’indecisione e l’ambiguità di certi personaggi che tengono banco nella giunta comunale di Venezia. Appartengo infatti alla categoria del piccolo David che ha fiducia nella sua fionda e nei ciottoli del torrente, piuttosto nell’armatura pesante della diplomazia.

Spero, una volta tanto, di aver torto e che il guanto di velluto del nuovo Consiglio di amministrazione raggiunga lo scopo senza ferite e “spargimento di sangue”. Sarò quindi ben felice se la Fondazione otterrà, prima della scadenza del tempo, la superficie alternativa a quella che abbiamo indicato alla Regione. Se così non avvenisse, “non ci saranno santi che tengano”: attaccherò con ogni mezzo chi si è offerto di governarci e ora non ha più coraggio di farlo.

Scelte, prezzi da pagare e risultati raggiunti

La bega con un mio confratello mi ha reso alquanto amara la vita in queste ultime settimane. Mi addolora quanto mai non riuscire a vivere in pace con le persone con le quali dovrei avere quasi tutto in comune.

La mia vita da prete quanto è stata bella e positiva nei riguardi dei cosiddetti “lontani”, altrettanto è stata difficile con i “vicini”, e più ancora con i colleghi. Le incomprensioni sono state molte e le critiche mi hanno spinto a chiudermi a riccio e ad isolarmi dalla mia confraternita.

Per natura e per scelta rifiuto le chiacchiere inutili, i convegni perditempo, il seguire le mode correnti, il “far da tappezzeria” alle cerimonie, i riti ampollosi e un certo servilismo ecclesiastico. Ho pagato di buon grado e senza chiedere sconto il prezzo che questa libertà comporta. Mentre mi sono speso totalmente per la mia gente, ho amato appassionatamente la mia comunità, non ho mai fatto vacanze, non mi sono mai alzato dopo le cinque e mezza e fino a quando sono andato in pensione non mi sono mai ritirato per il sonno prima delle 23.

Penso di aver amato ed ascoltato il mio vescovo, pur mantenendo la mia dignità di persona, la mia libertà di pensiero e l’onestà di rapporto. La mia casa è sempre stata aperta, non mi sono mai negato a nessuno ed ho continuato a farlo, ho sempre affermato che nessuno mi avrebbe mai recato disturbo per alcun motivo.

Ho visitato ogni anno una o più volte tutte le famiglie della mia parrocchia, anche le più ostiche, perché ho sempre ritenuto che il Signore mi mandava per tutti.

Nella mia comunità non ho mai permesso che alcun gruppo prevaricasse sugli altri. Ho mantenuto aperto il dialogo presenziando a tutti gli appuntamenti più significativi, quali il battesimo, la prima comunione, il matrimonio. Ho accompagnato alla tomba tutti i membri della comunità. Ho tentato di offrire il messaggio di Gesù tramite un settimanale che ha raggiunto le 3500 copie settimanali, un mensile inviato a tutte le famiglie, un mensile per gli anziani, una emittente radiofonica.

Tutto questo non lo ritengo un merito, ma solamente l’adempimento al mio dovere. Non ho mai preteso che gli altri si allineassero a me.

Credo di aver ottenuto qualche risultato: nel censimento è risultato che frequentava il 42% dei parrocchiani, ho lasciato 200 scout, cento chierichetti, il centro per gli anziani, una florida pastorale per gli sposi e delle strutture d’eccellenza.

Mi si accusa di essere autoreferenziale, di non adeguarmi agli indirizzi pastorali del vicariato della diocesi. Forse hanno ragione su questo punto, ma certamente torto marcio sui risultati.

Il cardinale Scola disse: «Chi ha gambe corra». Io ho tentato di farlo, mi spiace se qualche “zoppo” rimane indietro, ma non so cosa fargli!

I magazzini “San Martino”

La celebrazione del decennale dei magazzini “San Martino” ha avuto vasta eco sulla stampa e sulle emittenti televisive locali. Il direttore generale e il comitato direttivo dell’associazione “Vestire gli ignudi”, che gestisce l’ipermercato solidale a favore dei cittadini italiani e stranieri che versano in disagio economico, hanno voluto dare risalto a questa “impresa” che in controtendenza alla situazione generale del commercio, è invece quanto mai florida e vitale.

I poveri conoscono già molto bene i magazzini degli indumenti, infatti li affollano ogni giorno e “acquistano” vestiti per sé e per le loro famiglie che vivono in Romania, in Moldavia, Marocco, Algeria, Zambia o Madagascar, mentre pare che questa iniziativa benefica sia meno nota tra le parrocchie, le aziende che producono e vendono indumenti, tra le organizzazioni caritative e l’amministrazione comunale.

Si ha la sensazione che questa realtà, o per disinteresse ai bisogni della povera gente, o per inedia congenita, o forse per invidia, sia una soluzione bellamente ignorata, mentre in realtà è affermata ormai a livello nazionale.

E’ purtroppo vero che quando si parla di carità o di organizzazioni caritative, l’opinione pubblica pensa sempre ad una elemosina dalla quale il beneficiario è messo nella condizione di vergognarsi e che quasi mai risponde in maniera adeguata al suo bisogno. Questo non si può dire, fortunatamente, per la nostra organizzazione e “l’impresa solidale” che la gestisce.

Possiamo affermare, con legittimo orgoglio, che a Mestre nessun cittadino, proprio nessuno, può lagnarsi o soffrire per mancanza di indumenti, perché la nostra risposta è esaustiva per tutti. Nessuno è messo nella condizione di vergognarsi per ciò che riceve, perché lo “paga”, anzi ne può andare fiero perché il “prezzo” che esborsa diventa atto di carità per altri bisognosi.

Infine l’ipermercato solidale degli indumenti “San Martino” si regge, dal punto di vista economico, in maniera autonoma, anzi produce guadagno. Noi di “vestire gli ignudi”, per grazia di Dio, possiamo offrire un nuovo modello di solidarietà che non solamente in dieci anni è diventato una esperienza leader in campo nazionale, ma possiamo far scuola a tutte quelle organizzazioni traballanti, inconcludenti e che puzzano di beneficenza ad un chilometro di distanza.

Contro una burocrazia impossibile

Sarei strafelice se potessi constatare ogni giorno che le cose nel nostro Stato e nel nostro Comune funzionassero a dovere e ci fosse una grande sinergia tra enti statali, parastatali, comunali e del privato sociale. Poter registrare questa funzionalità sociale indurrebbe alla fiducia nella “cosa pubblica”, desterebbe orgoglio di appartenere ad un paese ordinato e funzionale che eroga con rapidità ed efficienza i servizi di cui i cittadini hanno bisogno e desterebbe nella gente un senso di sicurezza e di serenità.

Invece no! Chi si occupa in qualche modo degli altri e si impegna nel sociale, si imbatte ad ogni pié sospinto in una burocrazia inefficiente che complica in modo indicibile ed assurdo anche le cose più elementari.

Di fronte a questa ottusità, degna del Regno delle due Sicilie e di re Franceschiello, ho deciso di non rassegnarmi, di non subire, ma di reagire sempre e comunque, non battendo la strada delle raccomandazioni ma del pretendere ciò che mi è dovuto, anche denunciando con documenti e certificati ogni singolo fatto ai responsabili dei vari enti arrivando perfino al procuratore della Repubblica per ogni disfunzione che torna a danno del cittadino.

Vengo ad un esempio quanto mai recente. Il 15 ottobre abbiamo inaugurato il “don Vecchi” di Campalto, una splendida struttura che mette a disposizione della città altri 64 alloggi per anziani con la pensione di 480 euro mensili. Abbiamo scritto sulla facciata della struttura, che dista una settantina di metri da via Orlanda, “Centro don Vecchi”. Il giorno prima dell’inaugurazione è venuto un agente di quell’Anas, ente da cui abbiamo aspettato per mesi e mesi il permesso di far passare il tubo della fognatura sotto la strada, senza fermare il traffico e pagando ben 30.000 euro. Il funzionario era venuto a segnalarci l’infrazione, o il “reato”, di aver scritto “Centro don Vecchi” senza aver prima chiesto il permesso e pagato la tassa. Bontà sua che non ci ha applicato la multa, ma in attesa di ottenere il permesso e pagato la tassa abbiamo dovuto coprire la dicitura. Eh no, così non va!

Fra qualche settimana una ottantina di anziani del “don Vecchi”, dai settanta ai novant’anni, nuovi residenti di questa struttura, dovranno percorrere più di mezzo chilometro di via Orlanda, la famigerata strada che non prevede neppure un centimetro per i pedoni e le biciclette, perché dovranno pure andare in centro a comprarsi da mangiare. Prevedo che se non si provvede immediatamente ad una pista ciclo-pedonale ci sarà un morto al giorno!

Ho già pronta una lettera con ricevuta di ritorno con la quale rendo personalmente responsabile “Chi di dovere” di ogni eventuale incidente, una all’assessore della viabilità del Comune di Venezia ed un esposto al Procuratore alla Repubblica, oltre ad un articolo alla settimana sulla stampa locale.

Credo che questo sia l’unico mezzo per stanare questi funzionari degli enti pubblici e per costringerli a fare il loro dovere.

Il Don Vecchi di Campalto è nato senza l’aiuto dalle istituzioni ma dal cuore della gente comune!

Il “don Vecchi” di Campalto è stato finito anche nei minimi particolari. Il 15 ottobre l’abbiamo inaugurato in maniera solenne davanti a cinque-seicento persone che sono sopravvissute ad un vento di bora che tirava glaciale, pur di vedere “il miracolo” sbocciato, come per incanto, sulla gronda della laguna.

All’inaugurazione ha partecipato la più bella gente di Mestre e dintorni, in un clima di entusiasmo e di ammirazione. C’era ben donde essere entusiasti di fronte ad un complesso di 64 alloggi, con servizi di prim’ordine, luoghi ampi e ben arredati, con lo scoperto vasto e già seminato e verde, con piante ed arbusti in fiore, pannelli solari e fotovoltaici già funzionanti.

Dalle autorità presenti non abbiamo avuto sostegni economici di nessun genere, ma noi, gente alla buona, ci siamo accontentati anche del dono dei loro complimenti e dell’invito ad andare avanti.

Questo miracolo è stato concepito, voluto e cresciuto nel cuore della povera gente, nonostante la crisi economica e i prelievi fiscali, il crollo delle borse e il dramma di Berlusconi che, col cuore sanguinante, ha dovuto mettere le mani nelle tasche dei poveri e che per darci il permesso a costruire questa struttura per gli anziani più poveri della città, per questo “lusso” che ci siamo presi, ha preteso il 21% del costo, ossia seicentocinquantamila euro – un miliardo e trecento milioni delle vecchie lire! Questa è l’Italietta per la quale più di un migliaio di parlamentari si danno da fare onde garantire serenità e sviluppo per i più poveri.

Credo che sia davvero doveroso da parte mia informare i miei concittadini su come le istituzioni hanno concorso per il “don Vecchi” di Campalto. Ebbene, ve lo faccio sapere chiaramente: tra la Regione Veneto, la Provincia, il Comune di Venezia, la Fondazione Carive della Cassa di Risparmio, l’Associazione Industriali, la Camera di Commercio, la Banca Antoniana, la Cassa di Risparmio di Venezia, solamente il Banco San Marco ha elargito 1000 (diconsi mille) euro, gli altri zero!

Sono quasi costretto a concludere che la crisi ha colpito solamente i ricchi ed ha risparmiato i poveri. Per fortuna!

Il guardiano del nulla

Qualche tempo fa ho citato, non mi ricordo proprio in relazione a quale motivo, una storiella sulla vita militare, un racconto nato probabilmente da qualcuno che è critico della vita militare e del nostro esercito.

Eccovi la storiella. In una caserma in cui abbonda sempre il personale ed è quindi difficile trovare un’occupazione per aiutare i soldati di carriera a non annoiarsi troppo a causa dell’ozio, avendo il comandante fatto riverniciare una sedia, ordinò che un piantone vigilasse perché qualcuno, sedendosi, non rovinasse la pittura e, peggio ancora, non si rovinasse i pantaloni.

In un ambiente in cui spesso non è richiesta l’intelligenza, ma l’obbedienza, capitò che il maresciallo stabilisse che fosse mantenuta questa vigilanza anche il giorno dopo, cosicché la cosa continuò finché qualcuno di più intelligente e più libero non si chiese il perché di questa “guardia alla sedia”. E infine scoprì finalmente l’arcano.

Pensavo ad una delle tante storielle che circolano a buon mercato nei riguardi dei carabinieri o dell’esercito, ma ho scoperto che neanche al Comune le cose vanno diversamente.

Eccovi il fatto che ognuno può verificare. Nel parcheggio scambiatore sito in via Santa Maria dei Battuti, due o tre anni fa il Comune fece costruire due capanne di tela ove erano messe a disposizione delle biciclette per gli autisti che vi parcheggiavano la macchina per raggiungere il centro. Com’era prevedibile qualche malintenzionato ha rovinato quella custodia risparmiando solamente il tetto. Da un anno all’interno non ci sono più biciclette, ma solamente erbacce. E’ rimasto solamente il “custode” che dal mattino fino all’ora di pranzo, in un bugigattolo prefabbricato, custodisce “il nulla”. Passa il tempo leggiucchiando vecchi giornali e dormicchiando.

Immagino che un tempo a questo signore i servizi sociali del Comune abbiano affidato questo compito per potergli elargire una “paghetta” ed ora continuino, pur essendo venuto a mancare il motivo per cui lo si pagava.

Purtroppo il Comune non è tanto meglio dell’esercito, deve faticare per tener occupati i suoi quattromilaseicento dipendenti. Finché il denaro pubblico va sprecato per le casette degli zingari e per i tanti “operatori del nulla”, oppure impegnati a rendere difficile la vita ai propri cittadini, sarà sempre più difficile che essi paghino volentieri le tasse.

Storia di un “invito a nozze”

Confesso: non so se sia una tentazione maligna o, finalmente, un lampo di onestà. E’ successo qualche settimana fa quando, su mandato del Consiglio di Amministrazione che mi ha incaricato di invitare, secondo la prassi, “le autorità civili, militari ed ecclesiastiche” per l’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, ho trovato qualche difficoltà a reperire un elenco di tutti i notabili che normalmente si invitano in queste occasioni. Allora m’è venuta la “tentazione” (ma, ripeto, non ho ancora capito se sia stata tale o sia stata una “ispirazione del Cielo”) di mandare ai giornali e alle televisioni locali il testo della parabole evangelica dell'”invito a nozze”.

Tutti ricordano quel re che desiderava che le persone più ragguardevoli del paese partecipassero alle nozze del figlio, nozze che egli aveva preparato con tanta cura ed amore. Purtroppo i notabili di allora, con una buona dose di ipocrisia, si scusarono e lasciarono cadere l’invito: “ho preso moglie e perciò abbimi per iscusato, ho comperato un paio di buoi, devo andare a vedere i campi, ecc.” Quel re, deluso e sdegnato, mandò l’invito a ben altre persone, dicendo ai suoi servi: «Andate per le strade, nei sobborghi, raccogliete i poveracci, gli storpi, gente che non conta, e fateli venire alle nozze di mio figlio».

A suo tempo avevo invitato la Regione, la Provincia, il Comune, gli industriali, la Camera di Commercio, le banche, i ricchi di Mestre a partecipare alla nobile impresa di far festa agli anziani, offrendo loro una dimora confortevole. Nessuno, proprio nessuno ha partecipato neppure con un euro. Mi sono rivolto allora ai poveri, ai mestrini e agli extracomunitari, che non si possono permettere non solo di andare per gli acquisti alla boutique, ma neanche in negozio, e perciò vengono al “don Vecchi” ai magazzini “San Martino”.

Loro hanno risposto a centinaia, a migliaia, con i loro spiccioli – cinquanta centesimi, un euro, cinque euro – e con questi contributi della Mestre povera ed emarginata abbiamo costruito il “don Vecchi” di Campalto.

La mia “tentazione”, o la mia “illuminazione” era quella di dire ai giornali e alle televisioni: «Invitate a nome mio i più poveri, i mestrini che non contano, le moldave, le donne ucraine, le badanti, perché chi aveva soldi s’è “scusato” a causa della crisi, mentre i poveri hanno risposto a migliaia. Sono quindi questi ultimi che meritano d’essere invitati “a nozze”, ossia all’inaugurazione.

Si fa sentire sempre più la mancanza di un presidio pastorale del territorio!

Monsignor Vecchi, da cui ho appreso più di quanto non pensassi, era solito dirmi che quando nell’opinione pubblica ritornava di frequente un termine che definisce una realtà, significava che nella società se n’era persa la presenza e che il ritornarci sopra di frequente con i discorsi non denotava la presa di coscienza del suo valore, ma piuttosto la nostalgia o il vuoto della sua assenza. Ricordo che un giorno mi ha fatto questo discorso a proposito del termine “comunità” e in specie della parrocchia, che dovrebbe essere la comunità dei credenti in un certo territorio.

Da bambino e da adolescente nel mio piccolo paese di campagna infatti non si parlava mai di comunità, perché questo valore lo si viveva, conoscendoci tutti, ed essendo, tutto sommato, solidali “nella buona e nella cattiva sorte”. Io invece ho sentito ricorrere spesso a questo termine quando sono arrivato a Mestre, dove regnava sempre più l’anonimato, l’isolamento e l’individualismo e la presunta autosufficienza.

Mi è venuta in mente questa “lezione” qualche settimana fa quando uno dei miei “ragazzini” di tempi ormai lontani mi ha chiesto di far visita e di portare l’Eucaristia a sua madre. Questa anziana signora, cattolica praticante, da cinque o sei anni è costretta a casa con la badante, pur essendo seguita con tanto affetto dai figli. Le domandai se il suo parroco sapeva della sua infermità e, come mi aspettavo, non visitando le famiglie, lui era perfettamente ignaro di questa situazione.

Il cardinale Scola, ora ormai lontano da Venezia e quindi impossibilitato a realizzare i suoi progetti, spesso ripeteva che era convinto e voleva un presidio serio sul territorio. Ho l’impressione che ancora una volta purtroppo, mons. Vecchi avesse ragione: quando si parla di una realtà e questa non è più presente, il parlarne è semplicemente nostalgia e rimpianto, non più un progetto.

Più volte dal mio angolo remoto ho denunciato l’assoluta assenza di questo presidio pastorale sul territorio e il peggio è che non solo non c’è perché mancano gli uomini per il presidio, ma perché questo discorso elementare ed antico è scomparso dal manuale e dai progetti pastorali. I preti sono in ritirata ed hanno abbandonato le linee del fronte, rifugiandosi nelle sagrestie e nei convegni.

Il don Vecchi, isola felice per tanti anziani

Vivere è faticoso per tutti, ma ancor più per gli anziani. Ben ha fatto la società civile a mandare in pensione uomini e donne a 65 anni; non so se proprio facciano bene ad innalzare l’età della pensione, come pare che i nostri governanti vogliano fare. Di certo impegnando gli anziani domandano loro uno sforzo ed una fatica supplementare, non perché il loro lavoro domandi più fatica e più intelligenza, ma perché l’anziano è più vulnerabile ed ha meno risorse.

Mio padre, che è morto a 83 anni (la mia età attuale) mentre si accingeva ad entrare anche quel giorno, come aveva fatto per tutta la vita, nella sua bottega di falegname, mi ha ripetuto più volte: «Ricordati, Armando, che noi anziani basta poco per metterci in crisi e fortunatamente basta ugualmente poco per sentirsi rasserenati». Io ho capito, magari tardi, questa verità, spero che i nostri giovani la capiscano presto, rendendo così più serena la vita della moltitudine dei membri della terza età.

Al “don Vecchi” mi pare venga data risposta positiva a questa esigenza; la gran parte dei residenti si impegna a tener ordinata la propria persona e il proprio alloggio e tutto questo riempie quasi l’intera giornata, anzi moltissimi avvertono il bisogno di qualche aiuto esterno. C’è invece un gruppo di loro che, beneficiando di una buona salute o, più spesso, abituati da una vita ad essere impegnati e a non far spazio all’ozio, si impegnano in lavori marginali, ma quanto mai utili: seguire i fiori, annaffiare le piante, dare una mano al bar o in cucina, prestare servizio presso i magazzini gestiti dai volontari, distribuire la posta, chiudere ed aprire al mattino e alla sera le porte e fare qualche altro lavoretto non troppo impegnativo.

Credo che il “don Vecchi” sia una risposta ideale alla fragilità dell’anziano; la cordialità che si respira al Centro è un elemento rasserenante, e il poter contare sulla disponibilità dei responsabili sempre pronti a fare da supporto e talvolta da supplenza ad eventi fuori dal ritmo quotidiano, offre ulteriore tranquillità.

Ora poi la scelta veramente saggia e generosa del Comune, che garantisce una presenza ed una vigilanza anche di notte, ed un piccolo aiuto a chi non ha mezzi per pagarsi una assistente familiare, pure se a “part time”, credo aggiunga benessere e serenità ulteriore. Credo che valga proprio la pena di impegnarsi perché il “don Vecchi” rappresenti “l’isola felice” per tanti anziani in disagio e sia veramente una risposta alla fragilità e l’insicurezza di tanti nonni che non possono godere del calore e della protezione della loro famiglia naturale.

La lettera al presidente Napolitano da un’anziana della nostra città

Qualche giorno fa mi ha raggiunto nella sagrestia della mia chiesa tra i cipressi una mia coetanea la quale – a differenza di me, che ho messo su pancia, che ho i capelli tutti bianchi, sempre arruffati e ribelli e che mi faccio ripetere due volte il discorso perché duro d’orecchi – era quanto mai elegante, col suo vestitino rosso, con i capelli ben curati e con un fare sciolto ed elegante, tanto da sembrare una mia nipotina.

Dal discorso che m’ha fatto, ho capito che era una persona quanto mai lucida, con un temperamento deciso, con parole calibrate ma taglienti.

Mi disse che era venuta per farsi perdonare da me perché si era permessa di “rubare” qualche pensiero de “L’incontro”, ma capii ben presto che questa era una bugietta da donne; in realtà voleva rendermi partecipe della sua indignazione nei riguardi dei parlamentari, delle classi dirigenti che stanno disonorando il nostro Paese con la loro rapacità, sete di potere, avidità ed inconcludenza.

Questa cara signora, apparentemente fragile ma con una volontà ed una lucidità invidiabili, ha scritto una lunga lettera – quattro facciate di foglio protocollo – al presidente Napolitano, dicendo ben chiaro: «Chiedo a Lei che questa lettera, scritta da una cittadina italiana (fra pochi mesi avrò 80 anni) venga letta in Parlamento, non quando ci sono quattro gatti, ma quando sono tutti presenti, perché finalmente sappiano che cosa la gente pensa e s’aspetta da loro».

Mi piacerebbe – ve l’assicuro – pubblicarla tutta quella lettera perché c’è nello scritto una veemenza ed una indignazione che danno la misura di quanto il popolo italiano sia disamorato dello Stato, rifiuti i comportamenti inconcludenti ed interessati, sia deluso dalla classe dirigente, chieda e pretenda pulizia e serietà.

Vi sono dei passaggi che sono come una lama affilata e tagliente: “non riesco più a sopportare l’arroganza degli onorevoli `disonorevoli'”, “voglio parlare di questa Italia, che è la mia Patria, ma pare che appartenga solo a loro”, “parlano senza mai concludere niente”, “riempiono solamente le loro tasche”, “lo Stato siamo noi!”, “che spettacolo da circo il Parlamento!”.

Credo che neanche il recente libro “La Casta” abbia il vigore della protesta che questa anziana signora ci mette nel denunciare l’ingordigia, il malaffare, le ruberie, i sotterfugi e l’ipocrisia dei politici nel dire di fare gli interessi dei poveri, mentre sono solo preoccupati di “mangiare” sulle spalle degli operai, dei pensionati e di un popolo che tradiscono ulteriormente inducendolo ad una vita effimera e godereccia.

Ogni sera aprirò la televisione per vedere quando Napolitano farà leggere in Parlamento la lettera di questa anziana signora che si firma con nome e cognome, ci mette l’indirizzo preciso e pure il numero di telefono.

Prometto che pubblicherò la risposta del presidente quando si sarà deciso di rispondere a questa sua cittadina!

La visita del Sindaco Orsoni al don Vecchi

Il dottor Boldrin, membro della Fondazione che governa i Centri “don Vecchi”, qualche tempo fa ci ha portato il sindaco Orsoni.

Il noto avvocato veneziano era già venuto al “don Vecchi” per la campagna elettorale. In quella occasione gli avevamo prospettato le problematiche del Centro, ma m’era parso così sperduto, frastornato per i tanti incontri, per i tanti problemi che il Comune di Venezia ha da sempre.

In verità gli avevo già mandato nei mesi scorsi, quando ero pressato dalla gran paura di non farcela a pagare Campalto, due lettere accorate per chiedere aiuto. Non avevo ricevuto risposta alcuna e ciò mi aveva un po’ indispettito e deluso. Poi, leggendo i giornali, che da mesi e mesi non hanno fatto che parlare della crisi finanziaria in cui il Comune di Venezia si dibatte, e conoscendo purtroppo, per esperienza diretta, la burocrazia comunale, dispersiva ed inefficiente – infatti i giornali in questi ultimi tempi ci hanno informato che è pure corrotta – ho provato un po’ di pena, immaginandolo indifeso ad annaspare fra infiniti problemi. Motivo per cui l’ho risparmiato dalla mia critica che non vorrebbe guardare in faccia nessuno e che esige efficienza, servizio e attenzione particolare per i più poveri.

Il sindaco ci ha ascoltato paziente; mi è sembrato che abbia condiviso i nostri sforzi tesi solamente a dare una mano al suo e nostro Comune, per cui l’amministrazione dovrebbe esserci eternamente riconoscente, perché noi facciamo presto, a poco prezzo e in maniera efficiente, quello che per il Comune richiederebbe anni e a costi astronomici.

In verità l’avvocato Orsoni non si è compromesso più di tanto, comunque credo che almeno egli ci abbia aperto la porta perché il discorso possa continuare con i suoi collaboratori.

Anche in questa occasione il sindaco mi ha ripetuto che gli ho fatto catechismo quando era bambino. Io non ricordo il bimbetto di cinquant’anni fa, ma di certo gli ho insegnato che il buon Dio vuole che amiamo il nostro prossimo, specie quello più indifeso e quello più povero. Spero tanto che egli non abbia dimenticato questo insegnamento del suo prete-catechista e mi dia una mano per aiutare i poveri.

L’antica cappella del cimitero di Mestre

Mi sento un po’ come Salomone che riuscì a costruire a Gerusalemme il tempio, la dimora di Dio in terra. David l’aveva sognato, mentre suo figlio ebbe il compito di realizzare il sogno di suo padre per riporre nella “Sancta sanctorum” le tavole della legge e il bastone di Aronne.

Così è avvenuto anche per me. Il tempietto ottocentesco, che per due secoli ha raccolto le preghiere e le lacrime dei mestrini, dopo la costruzione della nuova chiesa prefabbricata, nella quale ora celebriamo le sacre liturgie, arrischiava di rimanere in un inesorabile degrado ed abbandono. Il signor Mario De Faveri, imprenditore illuminato e generoso del contado, ha avuto il coraggio di affrontare la burocrazia sia della Veritas che della Sovrintendenza alle Belle Arti, che finalmente gli hanno “concesso la sospirata grazia” di poter pagare in proprio il restauro della “cappella della Santa Croce”.

Ne è venuto fuori un luogo pulito ed in ordine, che in verità avrebbe potuto anche essere migliore se i “competenti” non avessero messo lingua. Per il resto ci hanno pensato i fedeli, dotando la chiesa di ceriere elettrificate per non sporcare di nuovo il soffitto. Io ho avuto il “coraggio” di rimuovere una vecchia e mastodontica copia della Madonna del Raffaello che però era molto amata, sperando che ora si innamorino della copia della Madonna della Consolazione che ho installato al posto della brutta riproduzione, in modo che, almeno in cimitero, non ci siano conflitti o concorrenze tra Madonne diverse!

Un amico, già prestigioso tecnico di Radiocarpini, ha rinnovato l’impianto fatiscente di amplificazione sonora ed ora sta lavorando ad un collegamento via ponteradio tra la vecchia e la nuova chiesa in maniera che ci sia sintonia di messaggi spirituali in tutto il camposanto.

Ora abbiamo riportato “il Signore” nel tabernacolo e suor Teresa ha provveduto all’arredo sacro e floreale, più ordinato e sobrio di quello di prima.

La “vecchia cappella” è diventata veramente “l’antica cappella” acquistando dignità e sacralità. Il vecchio porticato che rappresenta “le braccia aperte” della Chiesa, sta aspettando l’intervento promesso dalla Veritas per essere un degno prolungamento ideale della “casa del Signore” per accogliere i resti mortali dei figli di Dio.

Devo imparare a lasciarmi trasportare fiducioso dalla misericordia del Signore!

Renzo Tramaglino, il famosissimo personaggio dei “Promessi sposi”, impegolato fino al collo in eventi più grandi di lui, pur essendo un sempliciotto, constatando come lassù ci sia Qualcuno che manovra i fili, non soltanto della grande storia, ma anche di quella piccola intessuta dalle banalità del quotidiano, ha avuto la sapienza di concludere “La c’è la Provvidenza!” quando, attraversato l’Adda, mise piede nel terreno sicuro della Serenissima. Meglio sarebbe dire che la fede di Manzoni sapeva leggere nella trama complicata, e spesso aggrovigliata, degli avvenimenti, che spesso sembrano assurdi, ingiusti e crudeli, una regia saggia e generosa che pian piano sbroglia la matassa ed apre sentieri fin poco prima sconosciuti. Così è capitato anche a me, che sono un povero diavolo indifeso e sempliciotto quanto il promesso sposo di Lucia.

La Regione, ch’era rimasta assolutamente sorda alle richieste d’aiuto, in modo insperato s’è offerta di finanziare un progetto pilota per gli anziani in perdita di autonomia. Nonostante questa Provvidenza mi rimaneva scoperto il tassello essenziale: reperire un terreno per dar vita a questa nuova struttura provvidenziale. Non sapevo più da che parte girarmi, sennonché l’ANAS, improvvisamente ed inaspettatamente, ha comunicato al Comune di Venezia di dover rinunciare alla nuova bretella che doveva costruire parallela a via Orlanda. Tutto questo mi potrebbe rendere fortunatamente disponibile cinquemila metri di proprietà della Fondazione, sui quali possiamo tranquillamente costruire la struttura pilota.

Stesso discorso dicasi per i magazzini della solidarietà. Il Patriarca ha ripreso in mano l’iniziativa e con un colpo di reni ha organizzato una “cordata” di piccoli imprenditori del privato sociale reperendo la somma necessaria per costruire i magazzini.

In una mezza giornata la Provvidenza ha messo assieme una serie di tasselli sufficienti per dar volto al mosaico di queste realtà solidali che fino al giorno prima ritenevo inimmaginabili.

Non ho ancora imparato ad abbandonarmi alla sapienza e all’onnipotenza del buon Dio! Spero che almeno prima di morire imparerò finalmente a rimanere a galla “facendo il morto”, ossia lasciandomi portare dall’onda del mare della misericordia del Signore.

Il nuovo carcere a Campalto: perché non farlo?

Qualche giorno fa sono venuto alla conclusione che Marco Pannella, il radicale non credente ed anticlericale, sta guadagnandosi il Paradiso digiunando per umanizzare le carceri del nostro Paese, che hanno raggiunto una brutalità veramente incivile, e sta dimostrandosi un profeta che aiuta la Chiesa fustigando col suo prolungato digiuno noi credenti così maldisposti a pagare anche piccoli “prezzi” per affermare i valori cristiani, soprattutto quelli della solidarietà, nei quali diciamo di credere.

Un proverbio spagnolo afferma che “Dio scrive dritto anche quando le righe sono storte”. Ne ho la riprova in questi giorni dal fatto che provvidenzialmente sono saltati fuori i soldi per costruire a Campalto un nuovo carcere in sostituzione di quello antidiluviano di Santa Maria Maggiore.

Con questa operazione si occuperebbero operai, dando benessere alla zona, si recupererebbero i vecchi magazzini dismessi dell’esercito, si creerebbe una fonte di guadagno per Campalto, ma soprattutto i cittadini che hanno sbagliato potrebbero scontare la loro pena in un luogo civile e vivibile.

No signori! Il solito gruppetto di persone con la testa per aria, monta la testa ad un gruppo di persone un po’ più numeroso e da mesi in Comune di Venezia c’è un tiramolla di proposte e controproposte che paralizza l’operazione, mentre delle povere creature, che pur hanno sbagliato – ma chi non sbaglia mai nella vita? – sono costrette a vivere in maniera disumana.

Ho letto sul quotidiano “Avvenire” che in una cella di sette metri quadrati sono costretti a vivere 6 detenuti, in alcune celle ve ne sono stipati 12-14, bagno e cucinino compresi. Volete che un giorno il buon Dio, nel giudizio finalmente giusto, non ci domanderà: «Dov’era il tuo fratello?».