L’esempio di vita di Lucia

Mia sorella Lucia, la caposala in pensione dell’oculistica del nostro ospedale, è partita in questi giorni, per la centottesima missione in Kenia.

Una trentina di anni fa Lucia aveva accompagnato il prof. Giovanni Rama nella sua avventura africana. Mia sorella era partita con l’équipe della sua divisione oculistica per andare ad offrire ad un piccolo ospedale sperduto nella savana e diretto da un medico “gentleman all’inglese” la prestigiosa capacità professionale del professor Rama.

L’Africa ha letteralmente sedotto mia sorella, tanto ch’ella ha sposato con un “solido matrimonio” i problemi e i drammi di quella povera gente affamata e disperata.

Lucia è ritornata parecchie volte con Rama, poi con altri medici mestrini e dell’alta Italia, poi s’è messa in proprio fondando un’associazione, coinvolgendo la nostra città e portando ogni anno soldi e cuore a quella povera gente bisognosa di tutto.

Quando parlo o scrivo di Lucia, dicendo della missione che s’è scelta, tanti pensano che ella sia una suora. No, Lucia è ormai una vecchia “ragazza” che non s’è sposata perché innamorata della povera gente di quella stazione missionaria e di quell’ospedale immerso nella terra brulla ed assolata del centro Africa.

Se penso a quelle tante donne che conosco, che tirano dietro a qualche “mammalucco” inconsistente il loro cuore e la loro femminilità, o peggio vivono per vestirsi, o per pettegolare, concludo che Lucia ha ragione! E’ assurdo vivere per nulla o per qualcosa di fatuo e di inconsistente; la vita è troppo bella e troppo preziosa per buttarla via per nulla. Agli uomini e alle donne della nostra società vorrei gridare: «Cercatevi un ideale, un motivo umano per cui vivere; non trovatevi vecchi e soli con l’amara delusione di non aver fatto felice nessuno o di essere vissuti per banalità che non meritano neppure un respiro della nostra vita!».

…Gesù rimarrebbe deluso?

Le mie “passeggiate spirituali”, com’è giusto e comprensibile per un prete, si svolgono sugli interessanti sentieri della Bibbia e, in particolare, prediligono le pagine del Vangelo.

Il mio animo divaga attratto dalle parole, dai messaggi e dalle verità in cui mi imbatto ad ogni pié sospinto. Come avviene per ogni divagazione della mente parto da una parola o da una immagine e poi, condotto dalla fantasia o dallo Spirito, mi ritrovo ad osservare ed approfondire le verità più diverse, ma sempre ottimali.

Qualche giorno fa m’è capitato di imbattermi in alcune realtà a cui Gesù è ritornato più di una volta nei suoi discorsi. Cristo, rivolgendosi ai suoi discepoli, disse loro: «Voi dovete essere la luce del mondo, il sale della terra e ricordatevi che la luce è destinata ad illuminare e il sale a dare sapore, perché se non adempiono a questa loro funzione, non servono a nulla, possono essere buttate tranquillamente nel cassonetto dei rifiuti!”

Da questi incontri m’ha colpito l’idea che se la luce è destinata ai luoghi bui, il sale agli alimenti senza sapore, il lievito alla pasta inerte e pesante, se queste devono essere le caratteristiche essenziali dei cristiani, ne consegue che i discepoli di Gesù non sono, nel pensiero del loro maestro, gente di convento, da congrega chiusa, da sagrestia, da ombra di campanile o da comunità che vivono dietro staccionate o dietro al reticolato, ma gente da barricate, gente destinata a trascinare, persone che s’immergono nella società, nella storia, nei problemi e nei drammi più difficili, per aprire vie nuove, che portano a soluzioni positive.

Tolstoi, il grande drammaturgo russo, in uno dei suoi racconti, immagina Cristo che, in incognito, va a visitare le comunità che dicevano di rifarsi al suo insegnamento, ma con sua amara sorpresa, scopre che non assomigliano per nulla al progetto da lui sognato.

Temo che oggi la delusione di Gesù non sarebbe meno amara e sconsolata, perché pare che i cristiani temano i luoghi in cui pulsa il cuore della società e in cui si fa la storia.

Una generosità che commuove e costruisce

Mestre conosce la mia trovata di munirmi di una bisaccia da cerca per trovare il denaro per finanziare il “don Vecchi” di Campalto. Non tutti però sanno che avevo in canna più di una cartuccia e nel momento della grande paura ho cominciato a premere il grilletto in tutte le direzioni.

Una delle tante trovate, che poi era una specie di uovo di Colombo, e non una gran scoperta, fu quella di accludere all’interno de “L’incontro” il bollettino di conto corrente postale. All’inizio dello scorso dicembre, stimando che il Natale vicino e la tredicesima potessero intenerire il cuore dei miei concittadini, ho inserito ben cinquemila bollettini nel numero de “L’incontro” della prima settimana di dicembre. Feci stampare in copertina la mia foto per personalizzare la richiesta di aiuto e poi, in prima di copertina, scrissi una lettera aperta intingendo la penna ora nel cuore ed ora nella preoccupazione di un vecchio prete preoccupato di far fallimento.

Non è che subito siano piovute le risposte come una pioggia torrenziale d’estate, però cominciò una pioggerella continua di risposte e la somma finale degli euro cominciò a crescere, seppur lentamente, ma in continuità. Ho cominciato a prender nota e a segnalare la sottoscrizione dei B.T.P. (Buoni Tesoro Paradiso), come ebbe a denominarle una cara figliola di un mio amico, per inviare via Internet gli accrediti in Cielo.

Questa pioggerella quotidiana mi rende lieto perché dietro ad ogni nome posso sognare il volto buono e caro di una persona amica, perché sono certo che il Signore terrà conto nel Giudizio Finale di questa generosità e perciò i miei concittadini si troveranno un bel gruzzoletto per la fine della vita ed infine perché posso onorare gli impegni presi con l’Eurocostruzione.

Potrei anche aggiungere che tali offerte assicurano il pane quotidiano per un anno intero ai cinquanta operai del cantiere del “don Vecchi 4°” e in questi tempi ciò non è proprio poco!

E’ bello vivere un’altra primavera!

Da un paio di settimane, nonostante le brinate che hanno imbiancato il grande prato a levante del “don Vecchi”, nonostante le fitte nebbie che mi hanno ricordato quei pomeriggi di novembre di quando, giovane seminarista, Venezia si incupiva e l’aria era solcata dai sordi suoni delle navi e dei vaporetti che, guardinghi, solcavano il canale della Giudecca, mi sono accorto che l’erba del parco aveva alzato il capo verde e pareva sorridesse anche al seppur piccolo raggio di sole. Il cuore s’è messo subito in tumulto a battere veloce, sognando primavera!

La dolce stagione m’è sempre piaciuta, ma in questi ultimi tempi, specie quest’anno, la desidero in maniera ardente ed appassionata. Mi sono sorpreso a pregare: «Signore, fammi il dono di poter vivere ancora una volta la stagione nella quale prati, alberi, cielo ed uomini si vestono a festa con una eleganza ed un’armonia che appaga gli occhi e il cuore»

Com’è bella primavera! Come mi spiace non aver assaporato lentamente e con soave ebbrezza le ottantun primavere che il Signore mi ha donato, dando per scontata questa sinfonia di colori ed atmosfere inebrianti!

Monsignor Vecchi era solito ricordarmi che una cosa vale di più in misura che ce n’è meno a disposizione. Ora comprendo più che mai questa verità e sento giunto il bisogno di gustare, centellinando ogni colore, ogni volto, ogni luce ed ogni sensazione.

Come vorrei dire ad ogni creatura che incontro: «Scrollati di dosso i problemi artificiosi della nostra società, butta lontano da te l’indifferenza, l’abitudine, il dare per scontato e canta col Creato. E se ti mancano note e parole, prendi lo spartito del Cantico delle Creature del Poverello d’Assisi ed intona il “Laudato sii, mi Signore, per l’acqua, le stelle, il fuoco, i fiori e gli uomini e le donne che riempiono il Creato di bellezza e di soavità!»

Dio ha sempre un momento per ascoltarci

Qualche settimana fa ho introdotto la liturgia della messa prefestiva, che celebro con gli anziani del “don Vecchi”, tra la sorpresa generale, con queste parole: “Il Signore, nonostante i suoi infiniti impegni, trova tempo questa sera per venire tra noi anziani a darci i consigli di cui abbiamo bisogno e per ascoltare le nostre richieste”. S’è fatto silenzio e la messa è iniziata, tenendo conto che c’era questo ospite importante tra noi.

M’è parso che il mio sermone, i canti e le preghiere dei fedeli, tenessero conto di questa presenza di Gesù. M’è parso ancora che ognuno si sentisse compreso, come lo furono i partecipanti alle nozze di Cana in cui Cristo fece il suo primo miracolo, sperando anche noi che lui trasformasse noi, “acqua queta della laguna”, in autentico barbera.

Questa frase m’è nata da un vecchio ricordo della mia lunga vita in parrocchia. Tanti anni fa avevo notato che un’anziana maestra in pensione, originaria dell’Istria, passava lungo tempo in chiesa nei tempi in cui essa era deserta. Se ne stava tranquilla nel suo banco, silenziosa ed apparentemente indifferente a quello che accadeva nel tempio. Siccome la conoscevo bene, perché mille volte mi aveva parlato del dramma che pesava sul suo cuore per l’uccisione del marito e del giovane figlio da parte dei titini, un giorno le chiesi come mai venisse sempre in chiesa nei tempi in cui essa era pressoché deserta. La vecchietta mi rispose con candore e naturalezza: «Il buon Dio deve essere molto impegnato con i problemi che gli pongono gli uomini di questa nostra società e perciò penso che non possa perdere il suo tempo per ascoltare questa povera vecchia; allora vengo nei tempi in cui suppongo sia più libero!»

Di certo è semplicemente meraviglioso il poter pensare che il Signore trovi sempre un po’ di tempo per ognuno di noi, per ascoltare spesso le nostre facezie e i nostri discorsi così poco saggi. Eppure è certamente così! Mia madre aveva ben sette figli, ma credo che nessuno di noi si sia mai accorto che ella non avesse tempo per ascoltare ognuno di noi sette. Papa Luciani disse che Dio “ha un cuore” di padre e di madre contemporaneamente. Se è così son ben felice di poterne approfittare.

Il professor Carlo D’Amato

Oggi ho celebrato il funerale di un mio vecchio parrocchiano, un insegnante di matematica e di fisica morto improvvisamente. La moglie e i figli vollero, concordi e determinati, che fosse il loro vecchio prete, che per una quarantina di volte aveva visitato la loro casa, che aveva avuto un dialogo aperto e cordiale con loro ed era stato vicino a questa famiglia in tutti i momenti “nodali” della sua storia, a celebrare il commiato.

Sono stato contento di questa scelta e di aver potuto accogliere nella mia povera chiesa con tanta cordialità, il capofamiglia partito improvvisamente ed in maniera tanto imprevista.

La moglie mi aveva detto che ci sarebbe stata tanta gente, io però non me ne ero preoccupato, abituato come sono a celebrare funerali con presenze tanto sparute. La chiesa invece s’è riempita come mai l’avevo vista, tanto gremita che tanta gente ha partecipato al funerale fuori dalla porta, benché all’interno ci sia posto per almeno 300 persone.

Il defunto non era un parrocchiano molto coinvolto nella vita parrocchiale, né penso abbia avuto alcuna militanza politica, né che partecipasse a salotti o facesse vita pubblica; egli aveva trascorso la vita a fare l’insegnante di matematica e fisica, due materie che normalmente non incantano e fanno sognare. Il professore a cui ho dato l’ultimo saluto era un ottimo insegnante, preparato, serio, appassionato del suo lavoro, coerente e grande lavoratore. Non mi era parso che la città si fosse accorta di questo cittadino serio ed impegnato e forse mai abbia riconosciuto il suo valore e il suo positivo apporto alla vita della comunità.

Ricordai una immagine che monsignor Vecchi adoperava talvolta: “Quando uno entra in un edificio cerca la pietra di pregio, i capitelli lavorati, quasi mai si ricorda dei mattoni nascosti dall’intonaco, che sono quelli che sostengono l’edificio”.

Il professor Carlo D’Amato è stato nella nostra città una di quelle pietre umili, ma consistenti e forti e ha certamente contribuito al bene della nostra città; senza uomini del genere sarebbe impossibile capire come, nonostante l’infinita miseria descritta dai giornali, la nostra società continui a stare in piedi.

Un pranzo di lavoro poco soddisfacente

Qualche giorno fa ho partecipato per la prima volta ad un pranzo di lavoro a cui mi ha invitato il Patriarca.

Premetto che non sono particolarmente entusiasta della soluzione dei pranzi di lavoro per trattare un qualsiasi problema. Chi prende la parola fatica a parlare perché i destinatari del suo discorso sono, naturalmente, più o meno intenti a mangiare, e chi ascolta, invece, mangia mal volentieri, preoccupato di non far rumore, di perdere le parole, e quando gli verrebbe da intervenire è nel bel mezzo del piatto di pasta! Comunque il pranzo di lavoro è andato avanti, seppur con qualche sussulto e qualche pausa per l’andirivieni della cameriera, abbastanza disinvolta, spicciativa e poco interessata al discorso.

L’architetto Giovanni Zanetti, ha trattato l’argomento della cittadella della solidarietà un po’ girando alla larga ed un po’ con un linguaggio troppo tecnico e ha informato di poter ottenere trentamila metri di terreno a titolo gratuito, in una zona a suo parere ben servita dai mezzi pubblici. Il Patriarca è intervenuto motivando la scelta come logica conclusione della sua “campagna” sul gratuito svolta durante la sua visita pastorale.

Gli interventi circa l’opportunità di dar vita a questa “cittadella della solidarietà” sono stati più smorzati e più soffici di quelli manifestati sullo stesso argomento durante una precedente cena di lavoro alla quale non partecipava il Patriarca; di certo però non ho avvertito troppo entusiasmo e troppa passione; forse ciò è dovuto al fatto che, per non so quale motivo, in questi giorni ho avuto un calo preoccupante di udito. M’è parso che con quella “brigata” non si andrà troppo lontano.

Un mio vecchio amico prete diceva spesso che lui era per la democrazia, però guidata da un forte “leader” – che, tradotto, significava che c’era bisogno di uno che ascolti pure, ma poi decida lui! Io invece penso che sia assolutamente necessario un manager che, dopo aver ascoltato, proceda mettendo in riga tutti, compresi quelli che han deciso! Per la “cittadella” siamo ancora un po’ lontani da questo; spero che non si indìca quindi una “merenda di lavoro” per proseguire il discorso!

Riflessioni su un incontro con i confratelli della terraferma

Oggi, dopo tantissimo tempo, non completamente per mia volontà, ma a causa delle mie mille magagne, dell’ostinazione di occuparmi fino in fondo di ciò che credo, a torto o a ragione, che sia il dovere del mio ufficio, e forse perché non direttamente interessato ai problemi che si dibattono, ho partecipato, seppur parzialmente, ad un incontro con i confratelli della terraferma.

A causa di un recente e notevole calo dell’udito, ho fatto fatica a capire quello che si diceva, comunque ho provato delle strane sensazioni. Avevo l’impressione di partecipare costantemente, seppur da lontano, alle vicende della mia diocesi, mediante la lettura della stampa diocesana, sentendomi coinvolto nelle problematiche che essa affronta, però questa mattina ho avvertito di essere piuttosto lontano e quasi estraneo ai discorsi e ai problemi affrontati.

Ciò mi è dispiaciuto alquanto e mi ha spinto a rinnovare il proposito, in verità poco attuato in passato, di partecipare più frequentemente a suddetti incontri, pur preoccupato che la mia partecipazione, che non sarebbe mai passiva, possa diventare una voce fuori coro e stonata.

Il mio disagio è cominciato col fatto di non conoscere molti dei presenti – questo è comprensibile perché io appartengo ormai all'”antico testamento” – per continuare nel sorprendermi per le fogge così diverse nel vestire dei preti – ma mi son detto che “l’abito non fa il monaco”- e per finire poi con la cosa più importante: non avvertire un linguaggio che mi è ormai estraneo e delle problematiche che tutto sommato non mi paiono così importanti, non solo per il bene della società attuale, ma anche per il Regno!

Non so se debbo essere in pena o essere contento di parlare ormai la lingua parlata dalla gente e non quella del clero ed essere preoccupato solamente delle cose che io ritengo essere essenziali per trasmettere il messaggio che credo possa salvare gli uomini d’oggi dalla miseria, dalla solitudine e dalla disperazione di una vita fatua ed inconsistente.

Sono tornato a casa preoccupato di sentirmi un po’ estraneo al linguaggio clericale e poco coinvolto dai problemi sofisticati a cui esso si appassiona. Perché oggi la mia preoccupazione è invece quella di seminare speranza, solidarietà e fiducia che Dio ci vuol bene, nonostante tutto, e che Cristo rimane tra gli uomini del nostro tempo anche se sono deludenti e poco riconoscenti per tutto quello che ci dona.

Mimma e gli altri che ho incontrato

Ho appena scoperto che l’epigrafe che mi è arrivata dall’agenzia di pompe funebri, per il funerale che mi si chiede di celebrare domani, riguarda una cara “ragazza” conosciuta nella chiesa di San Lorenzo trenta o, forse, quarant’anni fa. Apprendo con sorpresa, dal necrologio, che aveva quasi ottant’anni.

Era tantissimo tempo che non la vedevo, motivo per cui, nella mia memoria, dietro il nome di Mimma, mi si affacciò il volto bello ed armonioso di una giovane donna che divise il suo tempo tra il lavoro di commessa, la cura dei suoi cari e la vita di chiesa. La ricordo silenziosa e riservata, di poche parole, ma ricca di umanità, schiva ed umile, ma capace di spendersi senza riserve per i suoi cari che amò più della sua stessa vita. Anche con me era estremamente riservata, pudica nel manifestare i suoi sentimenti, ma si avvertiva dietro questa riservatezza, un cuore ricco e generoso capace di amare in silenzio, preoccupata più di dare che di ricevere.

La vita di Mimma è stata difficile, perché si è sempre fatta carico dei mali degli altri e non ha mai chiesto, e meno ancora preteso, che gli altri si facessero carico dei suoi guai.

Chiara, che le fu fedele amica per tutta la vita, ogni tanto, furtivamente, mi informava di questi suoi guai; le avevo perfino proposto di venire al “don Vecchi” sperando di darle un po’ di sollievo ma, come sempre, si rifiutò, richiudendosi a riccio e tenendo per sé prove e dolore.

Ora rimpiango di non esserle stato più accanto e di non aver detto più di frequente a questa donna anonima che ho incontrato sulla mia strada l’affetto e la stima che provavo per lei. Come sento amarezza struggente per le infinite persone che ho incontrato e che ho perso di vista. Anche sotto questo aspetto avverto più che mai il mio limite e riprovo la mia incapacità di dire le parole care nel tempo giusto.

Affido con tenerezza al Signore questa creatura, sapendo che lei di certo mi comprende e mi perdona, come affido al cuore di Dio la folla di uomini e donne che il buon Dio ha messo sulla mia strada.

La bestia

Una decina di anni fa sono rimasto stupito nel leggere uno sfogo amaro di padre David Maria Turoldo, l’ardimentoso frate dei Servi di Maria.

Padre Turoldo fu un combattente impavido, che si schierò con coraggio e con passione dalla parte degli uomini poveri e dei cittadini oppressi dai prepotenti di turno. Ricordo la preghiera appassionata che egli mise in bocca ai partigiani: la preghiera del ribelle. Le sue parole suonavano come squilli di tromba. Come ricordo le parole dolcissime con cui cantò la Pasqua del Signore: «Voglio passare per le strade della mia città e donare un fiore, senza parlare, voglio mettere nel cuore di chi incontro, buono o cattivo, credente o meno, il lieto annuncio della Resurrezione del mio Signore». Turoldo fu un uomo vero, coraggioso e forte, dolce e ricco di poesia.

Ebbene padre Turoldo, colpito dal tumore, scrisse con penna forte e tagliente, come solo lui sapeva adoperare: “La bestia s’è insediata, come su un trono, all’interno del mio corpo”. S’avvertiva la lotta dura, forse la sfida e un duello in cui si sentiva, purtroppo, perdente. Morì, non tanto tempo dopo, di cancro.

Spesso anch’io avverto con preoccupazione ed anche, devo ammetterlo, con paura, il ruggito di questa bestia. Non so fin quanto rimarrà alla catena. Mi rifugio sempre più spesso nelle parole sagge di Giobbe: “Se ho ricevuto dalle mani generose di Dio i giorni lieti, perché non dovrei ricevere dalle stesse mani anche quelli della prova e dell’amarezza?!” O nelle parole dolci e soavi di frate Francesco: “Laudato sii, mi Signore, per sora nostra morte corporale”. Sono pensieri che mi aiutano, ma che tuttavia non riescono a togliermi preoccupazione e timore.

Da una sincera collaborazione fra persone prima che politici nasce qualcosa di importante!

Nota della redazione: come sempre, questo appunto di don Armando scritto a penna e trasformato in articolo per “L’Incontro” e post per il blog, risale ad alcune settimane fa.

Oggi è stata per me veramente una splendida giornata, ma soprattutto per gli anziani poveri in perdita di autonomia. Quando ho cominciato ad occuparmi della terza età, avevo intuito che tra l’autosufficienza, che fortunatamente è presente anche in persone notevolmente anziane, e la non autosufficienza c’è un’ampia zona grigia in cui una persona non è né questo né quello, ossia non è da ricovero, però non può neanche bastare completamente a se stessa.

I responsabili del settore della Regione finora non avevano mai messo a punto dei provvedimenti per tutelare la dignità della stagione del tardo autunno delle persone anziane con pochi mezzi economici. In un incontro fortuito con Gennaro Marotta, consigliere regionale dell’Italia dei Valori, ritornando a Mestre da un dibattito tenuto presso la sede dell’emittente “Antenna Veneta”, avevo conversato con questo politico sul problema grave che affligge il “don Vecchi”, ossia sugli anziani in perdita di autonomia che non vorrebbero abbandonare il loro domicilio presso il Centro e nello stesso tempo hanno infinite difficoltà di ordine economico e di accettazione da parte delle Case di Riposo.

Il signor Marotta, con squisita disponibilità e cortesia, ci ha portato al “don Vecchi” l’assessore alle politiche sociali della Regione, il quale ha scoperto, con favore e con entusiasmo, che la soluzione prospettata dal Centro corrispondeva esattamente al suo sogno di dare una risposta valida ed umana ai nostri concittadini che vengono a trovarsi in questa zona di nessuno rappresentata dalla parziale perdita di autonomia.

E’ stato facile mettere le basi perché, con una collaborazione tra la Fondazione e la Regione, il “don Vecchi” diventi il progetto pilota che permetta la sperimentazione necessaria per mettere a punto le leggi relative.

Sono stato felice non solamente per questo accordo, per la sinergia tra pubblico e privato sociale, ma anche che persone espresse da realtà pur diverse abbiano aperto un dialogo sereno e collaborativo su un problema concreto, lasciando da parte scelte di ordine ideologico o religioso. Di tutto questo sono infinitamente grato a Gennaro Marotta dell’Italia dei Valori e all’assessore Remo Sernagiotto dell’Udc.

Dobbiamo avere Fede, anche per la soluzione dei problemi di questa nostra povera Italia!

Sono veramente desolato quando al mattino, prima di iniziare il mio ministero sacerdotale, do una veloce scorsa al “Gazzettino”.

Un premier che assomiglia un po’ a Nerone, che mentre Roma brucia si esibisce a cantare, a raccontare barzellette e a passare la notte con donne frivole, compiacenti per denaro, e di cattivi costumi!

L’opposizione che, pur eletta e pagata profumatamente per operare per il bene del Paese, pur divisa e con contrasti “interni”, è unita solamente nel rovesciare l’avversario per potersi sedere sulla stessa sedia, e non tenta un accordo serio; i mass-media che fanno a gara per mettere in mostra le vergogne del Paese e la magistratura che confessa pubblicamente d’avere un arretrato di quasi dieci milioni di cause, spendacchia soldi a non finire ed impegna il suo tempo per spiare la vita privata di Berlusconi che, manifestamente, non le è simpatico, per denunciare le debolezze, pur deprecabilissime, trascurando di rendere giustizia a chi legittimamente attende invano da anni.

Stamattina, mentre leggevo il brano del Vangelo che riguarda la tempesta che nel lago sbatacchia paurosamente la barca dei discepoli, mentre Gesù dorme, mi veniva da protestare perfino col buon Dio che pare se ne stia in disparte tacendo, mentre la barca d’Italia sta miseramente affondando.

M’è venuto spontaneo ripetere la supplica desolata dei discepoli spaventati e preoccupati per il possibile naufragio: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Ma subito mi è giunta la risposta: «Perché avete paura, non avete ancora fede?». Mi veniva da ribattere: «Non riesco proprio a leggere positivamente questa misera, tragica realtà!» Poi ho capito che era meglio, o forse non mi era possibile far altro che fidarmi, nella speranza che Cristo metta fine a questo dramma che non riusciamo a risolvere da soli.

La “malattia religiosa” del nostro tempo

Oggi, fortunatamente, non si usa più fare il panegirico del caro estinto. Le “orazioni funebri” sono serie e talvolta perfino troppo austere, teologiche ed impersonali. Alle lodi esagerate si preferisce un taglio più dimesso ed una cornice non solamente sobria, ma anche più vera. Questo mi pare giusto. Però credo che qualche accenno discreto sulla testimonianza offerta dal fratello che il Signore ha chiamato a sé, sia ancora opportuna, perché umanizza il rito e lo rende più vero e coinvolgente.

A me capita tanto spesso di “dare l’ultimo saluto” a relitti delle case di riposo, a creature vissute ai margini della società, o a persone provenienti da altri Paesi e perciò sconosciute, per cui il funerale arrischia sempre di essere anonimo, mentre quando ero in parrocchia le cose erano ben diverse: mi capitava sempre di “salutare” persone care perché conosciute e vicine, per cui i partecipanti al commiato facilmente erano coinvolti a livello emotivo, come pure a livello religioso e spirituale.

Talvolta sono i parenti a chiamarmi per parlarmi del caro estinto, ma più spesso sono io a chiedere qualche notizia perché il fratello o la sorella che presento al Signore e da cui vorrei ricevessimo “l’eredità” che ci lascisa, sia veramente fratello o sorella non solo a livello teorico, ma a livello sostanziale.

Le note più frequenti che ricevo sono che il morto era altruista – e ciò mi consola -, che era religioso ma non praticante – e questo mi rende meno felice. Pare che la caratteristica del cristiano medio della nostra società sia quella di una persona che non rifiuta il mondo religioso in cui vive, ma la cui fede incide assai poco sulla sua vita, perché non alimentata e non fatta crescere pari passo con la sua maturazione umana. Questa religiosità passiva ed inerte, che non diventa “luce” e “lievito” del vivere, mi pare una malattia religiosa alquanto preoccupante!

O sole mio!

Vi sono alcune tra le canzoni un po’, o molto, romantiche, che i nostri giovani non amano e perfino non conoscono, che io ascolto sempre molto volentieri: “O sole mio!”, “Mamma”, “Romagna mia” e qualche altra che si muove sulla stessa lunghezza armonica.

Ormai capita di rado che la radio, e peggio ancora la televisione le mettano in onda; non è di moda, non avrebbero un bacino di ascolto, ma soprattutto rappresenterebbero la reazione più sorpassata per le nuove generazioni.

Se qualcuno della mia età vuole ascoltare queste canzoni, deve accendere il giradischi nel chiuso della sua camera ed ascoltarle di nascosto come durante la guerra si ascoltava “Radio Londra”! Perfino al “don Vecchi”, la cui popolazione ha un’età che si aggira intorno agli 85 anni, e i giovani sono appena due o tre, non si riesce ad ascoltare musica del genere. Ogni volta che faccio presente che abbiamo un impianto di diffusione efficiente e che potremmo trasmettere in sottofondo musica sinfonica, canti di montagna, romanze celebri o musica da camera per ingentilire ulteriormente l’atmosfera del Centro che, fatalmente, nonostante i quadri e i fiori, sa di vecchio, m’arriva invece il gracidare acidulo e nevrotico del rock freddo o di qualche suo parente prossimo che mi irrita ed aumenta il malumore.

In questi giorni, dopo settimane e settimane di tempo cupo, di nebbie, di pioggia fredda che mi ha fatto temere che anche in Italia fosse calato il clima del nord Europa, ho sentito il desiderio di “vedere una” delle poche cose belle che sono rimaste nel nostro sud: il sole. E ho ascoltato “O sole mio” a tutto volume; l’ho ascoltato come una accorata preghiera al Creatore, che dopo essere stati privati di un governo sano, di una economia efficiente e di un vivere sereno, non ci venga tolto anche il “sole bello e radioso” che faceva cantare il cuore a san Francesco, il poverello di Assisi.

Le nostre colpe

Ci è stato insegnato fin da bambini a riconoscere le nostre cattiverie e a batterci il petto in segno di pentimento. Continuo, come tutti i praticanti, a farlo all’inizio della messa prima di incontrarmi con nostro Signore. Purtroppo, molto spesso questo atto si riduce ad essere puramente formale, o al massimo esprime il dispiacere per qualche cattiveria appena commessa.

Almeno per me, è molto raro che la mia “confessione” sia una vera ammissione di colpa nei riguardi di Dio e della società alla quale il mio peccato arreca sempre quella rottura di armonia che è invece la condizione essenziale per un buon vivere. Meno che meno il mio battermi il petto esprime il dolore per le cattiverie attuali e passate commesse dalla comunità a cui appartengo.

Papa Vojtyla prima, e Ratzinger poi, hanno compiuto questo gesto profetico. Sono assolutamente convinto che per questi uomini di Dio la richiesta di perdono sia stata una vera ammissione di colpa per i peccati gravi della Chiesa. Non credo però che la loro “confessione” abbia coinvolto anche l’intera comunità cristiana, come sarebbe giusto che fosse. C’è stato anzi qualcuno che si è ufficialmente dissociato da questa ammissione di colpa.

Ora che la televisione digitale ci offre la possibilità di una informazione più vasta, ho scoperto il canale “Rai storia”, che seguo con estremo interesse. M’è capitato di vedere, qualche settimana fa, i locali sotterranei appena aperti al pubblico, ove la “Santa” Inquisizione, fino a pochi secoli fa, sedeva in tribunale e soprattutto le prigioni orride ove i condannati per “delitti di pensiero” dovevano scontare lunghi anni di detenzione: un orrore da far rabbrividire!

Ho pensato, con infinita tristezza, ai discepoli del poverello di Assisi e di san Domenico, che si sono prestati a questa operazione così disumana e soprattutto così opposta al pensiero di Gesù, ed ho concluso che in ogni caso l’uomo non può e non deve mettere mai a servizio di qualsiasi apparato, sia pure quello della propria Chiesa, se questo non è conforme alla propria coscienza e alla propria umanità. Ho pensato pure che anch’io sono figlio di quella colpa e che io pure posso rendermi colpevole di questi crimini, perciò debbo battermi il petto per motivi di solidarietà esistenziale, anche per le colpe della mia Chiesa, colpe che non sono poche né piccole.