La politica dei rovi

Nota della Redazione: come sempre accade, questa riflessione è stata scritta molto prima dei recenti avvenimenti politici.

Io non sono colto né ho una buona memoria, però ogni tanto mi salgono, da ricordi lontani, delle verità che rappresentano per me quasi degli appigli a cui aggrapparmi quando tutto sembra precipitare.

Tante volte ho confidato alle pagine di questo diario la mia amarezza e il mio sconforto di fronte ad una società smarrita e confusa che annaspa disordinatamente ed in maniera ignominiosa tra la corruzione, l’ipocrisia, l’avidità e la prepotenza.

Non vedo rimedio se non in una vera e profonda rivoluzione morale, forse sarebbe meglio dire in una conversione globale, determinata da qualcosa che però non vedo ancora all’orizzonte, ma in cui spero.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere quel piacevole e sapiente brano della Bibbia in cui si parla per parabole della volontà degli alberi di nominarsi un re. Nascono però fin da subito le difficoltà: l’olivo rifiuta perché non vuole rinunciare all’olio, conforto degli uomini, il fico pure, perché non vede come andrebbe ad agitare i suoi rami senza poter più dare il suo dolce frutto; anche la vite rinuncia per non aver più la possibilità di offrire il suo vino, letizia degli uomini. Allora s’offre il rovo, accetta la corona e comincia da subito a sacrificare con le sue spine i colleghi rinunciatari.

La massima antica che dice “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” mi è parsa ancora una volta valida: finché gli uomini migliori, i docenti, i capitani di industria, i galantuomini e le persone per bene non si mettono in gioco, relegando in second’ordine i loro interessi, la loro quiete e il loro successo, noi in Italia continueremo soltanto ad avere i soliti spinosi e infecondi “rovi” a governarci e continueremo ad essere feriti dalla loro protervia, dall’arroganza e dal loro arrivismo. I colpevoli del malcostume imperante nei palazzi del potere è causato principalmente dai “rovi” ai quali abbiamo offerto la corona, ma anche dalla rinuncia degli onesti, dei capaci e dei galantuomini a porsi a servizio della nazione.

L’ingloriosa fine dei “potenti” che si schierano contro Cristo

Qualche giorno fa sono stato a Mogliano per celebrare il commiato cristiano per la mamma di una cara volontaria del “don Vecchi”. Assieme al vecchio parroco, che mi ha fatto arrossire perché, pur essendo quasi un mio coetaneo, è ancora “in servizio” ed è parroco da ben 35 anni sempre nella stessa parrocchia, mentre io ho ceduto le armi molto prima, abbiamo ricordato un suo vecchio predecessore, monsignor Fedalto.

Monsignor Fedalto, mestrino di nascita – ma a quel tempo Mestre era ancora sotto la diocesi di Treviso – è stato un famosissimo oratore, tanto che il parroco di Mogliano diceva che egli aveva predicato tantissime “missioni popolari”, “quaresime” e “avventi” a non finire.

A quei tempi, che corrispondevano alla mia adolescenza, quando un oratore di grido saliva in pulpito, faceva veramente scena, pestava i pugni, declamava, si commuoveva e faceva commuovere.

Ricordo di aver assistito ad una di queste prediche il cui tema di fondo era il “non prevalebrunt”, ossia le forze del male, per quanto insidiose e cattive, non avrebbero mai vinto e distrutto la roccia della Chiesa e la bianca figura del Papa.

Ricordo il vigore con cui l’oratore citava i nemici, che ad un certo momento sembrava avessero sconfitto ed umiliato la Chiesa, mentre invece erano finiti miseramente nella polvere. Aveva ragione don Fedalto, anche se lo gridava con voce tonante da oratore.

Che fine hanno fatto Mussolini, Hitler, Stalin, i persecutori della Chiesa del Messico o della Spagna? La stessa di Napoleone e di tutti i miscredenti che si sono succeduti nei secoli!

Ho pensato al sermone tonante di monsignor Fedalto leggendo la fine di Zapatero, il socialista miscredente ed anticlericale che, con perfidia e supponenza degna di miglior causa, ha nuovamente tentato di scardinare i valori morali, il costume e la fede degli spagnoli. Questo statista che ha sfidato la Chiesa e ora, con la coda tra le gambe si ritira, certo dell’inevitabile sconfitta; anch’egli sta facendo la fine di tutta quella gente boriosa che tante volte, durante i secoli, ha steso prematuramente l’atto di morte del cristianesimo.

In queste settimane ho pensato alla valanga di giovani di tutto il mondo che hanno invaso pacificamente e gioiosamente le strade e le piazze di Madrid. Spero che abbiano fatto capire a Zapatero che il domani è e sarà sempre di Cristo, mentre le forze del male delle quali egli è stato per qualche anno triste e melanconico portabandiera, sono destinate a sicura sconfitta.

Una carezza su un passato comune non sempre facile

Una persona mi aveva chiesto se poteva incontrarmi al “don Vecchi”. Al telefono mi aveva detto il suo nome e mi trattò in maniera confidenziale. Ma, un po’ perché ho poca familiarità col telefonino ed un po’ perché l’età ha logorato anche il mio udito, non riuscii ad inquadrare la persona. Quando ormai al “don Vecchi” non sapevo chi stavo attendendo e, mentre aspettavo, lavoricchiavo su “L’incontro”, qualcuno bussò alla porta; con sorpresa, incontrai uno dei primi cappellani che avevo avuto a Carpenedo.

Io sono arrivato in parrocchia in tempi cruciali, nel 1971, quando la coda della contestazione sferzava duramente la struttura e la mentalità della vecchia parrocchia di Carpenedo, che era vissuta per secoli sonnacchiosa e tranquilla, vicina, ma separata, da Mestre. Per conoscere il clima, basti sapere che il giorno dopo la mia entrata ufficiale, un gruppo di giovani venne in delegazione a chiedermi di sostituire la messa domenicale delle dieci con un’assemblea pubblica.

Fu dura, molto dura, anche perché i miei giovani cappellani tutto sommato non potevano che simpatizzare con i giovani della parrocchia. Io poi ero prevenuto, comunque sono stato sempre un resistente per natura. Ebbi la meglio, ma non senza ferite da ambo le parti.

Stamattina, incontrando il “giovane” cappellano con barba e capelli bianchi, che era venuto ad offrirmi venti azioni per il “don Vecchi” di Campalto, ho avuto l’impressione che l’età e la vita abbiano livellato e coperto ogni crepa e che gli ideali comuni abbiano ristabilito una comunione completa.

Sono stato molto felice di questo incontro e sono riconoscente a questo vecchio collaboratore che, seppure con stile e strade diverse, ha speso la sua vita per la Casa comune. Il tempo risana le vecchie ferite e quando c’è onestà di intenti e spirito di servizio si arriva sempre a comprenderci.

La visita di questo monsignore – perché il mio collaboratore, che ha fatto più carriera di me, è monsignore – l’ho colta come un dono ed una carezza su un passato non privo di difficoltà provocate dagli eventi ma anche dalla mia intransigenza.

Ricordo di un cristiano coraggioso

Ho parlato ieri della visita all’anziana mamma di uno dei miei “ragazzi” di un tempo.

Anche se ormai il mio ministero di sacerdote si svolge quasi esclusivamente al “don Vecchi” ed in cimitero, ben volentieri ho aderito ad accettare questo “lavoro straordinario”. E’ stato bello conversare con questa cara signora, da sempre riservata e di poche parole, ma ora ancor più, a causa dell’età avanzata e a qualche difficoltà a livello fisico.

Mentre conversavo amabilmente con questa creatura, vedova ormai da molti anni, mi tornò alla memoria un altro incontro ben più drammatico con un membro di questa cara famiglia. Il marito di questa signora occupò per anni un posto di primo piano nel sindacato – credo fosse segretario regionale della CISL. Quelli erano anni caldi per il sindacato e più ancora per quel sindacato, che s’era smarcato con coraggio dall’egemonia della CGL, cinghia di trasmissione diretta con Botteghe oscure.

Militare nella CISL, professare la propria fede, avere una posizione equilibrata da cristiani adulti nella Chiesa, non abbracciare una posizione costante da barricate, non era una cosa facile. Eppure quest’uomo, ancor giovane, fu un cristiano militante, libero e adulto nella fede. Un tumore lo aveva aggredito alla gola. Mi mandò a chiamare, mentre era ricoverato nel reparto di otorinolaringoiatria di Villa Tevere. Chiese lucidamente i sacramenti e li ricevette con fede e poi mi chiese di occuparmi dei suoi figli: «Il più grande, mi disse, mi pare che ormai cammini con le sue gambe, ma il più piccolo ha ancora bisogno di una guida quando non ci sarò più». Morì poco dopo.

I suoi figli crebbero in parrocchia come il padre desiderava ed ora sono due professionisti affermati e due cristiani seri. D’altronde, con un padre di quella levatura morale ed una madre parca di parole ma forte nella testimonianza, non avrebbe potuto essere altrimenti.

Oggi pare che la società e la Chiesa siano preoccupate dei giovani, mentre dovremmo essere più preoccupati che “le radici” familiari siano più ancorate sui valori più sacri e più basilari.

Si fa sentire sempre più la mancanza di un presidio pastorale del territorio!

Monsignor Vecchi, da cui ho appreso più di quanto non pensassi, era solito dirmi che quando nell’opinione pubblica ritornava di frequente un termine che definisce una realtà, significava che nella società se n’era persa la presenza e che il ritornarci sopra di frequente con i discorsi non denotava la presa di coscienza del suo valore, ma piuttosto la nostalgia o il vuoto della sua assenza. Ricordo che un giorno mi ha fatto questo discorso a proposito del termine “comunità” e in specie della parrocchia, che dovrebbe essere la comunità dei credenti in un certo territorio.

Da bambino e da adolescente nel mio piccolo paese di campagna infatti non si parlava mai di comunità, perché questo valore lo si viveva, conoscendoci tutti, ed essendo, tutto sommato, solidali “nella buona e nella cattiva sorte”. Io invece ho sentito ricorrere spesso a questo termine quando sono arrivato a Mestre, dove regnava sempre più l’anonimato, l’isolamento e l’individualismo e la presunta autosufficienza.

Mi è venuta in mente questa “lezione” qualche settimana fa quando uno dei miei “ragazzini” di tempi ormai lontani mi ha chiesto di far visita e di portare l’Eucaristia a sua madre. Questa anziana signora, cattolica praticante, da cinque o sei anni è costretta a casa con la badante, pur essendo seguita con tanto affetto dai figli. Le domandai se il suo parroco sapeva della sua infermità e, come mi aspettavo, non visitando le famiglie, lui era perfettamente ignaro di questa situazione.

Il cardinale Scola, ora ormai lontano da Venezia e quindi impossibilitato a realizzare i suoi progetti, spesso ripeteva che era convinto e voleva un presidio serio sul territorio. Ho l’impressione che ancora una volta purtroppo, mons. Vecchi avesse ragione: quando si parla di una realtà e questa non è più presente, il parlarne è semplicemente nostalgia e rimpianto, non più un progetto.

Più volte dal mio angolo remoto ho denunciato l’assoluta assenza di questo presidio pastorale sul territorio e il peggio è che non solo non c’è perché mancano gli uomini per il presidio, ma perché questo discorso elementare ed antico è scomparso dal manuale e dai progetti pastorali. I preti sono in ritirata ed hanno abbandonato le linee del fronte, rifugiandosi nelle sagrestie e nei convegni.

Un felice parallelo

Mi ha sorpreso ed incuriosito una riflessione di un cristiano di oltremare. Questo signore un giorno osservò che di prima mattina, quando però il sole era già alto all’orizzonte, la luna appariva in cielo ancora nitida e luminosa. Il fenomeno, un po’ insolito, ma interessante, destò così tanto la sua meraviglia che esclamò entusiasta: «Buon giorno luna!», quasi essa gli donasse la sua grazia gentile e bella anche di giorno.

Normalmente era abituato ad ammirare la luna come una bella signora accompagnata da una corte di stelle durante le notti, quando il cielo è terso, salutandola “buona notte luna!”, quasi che la luna fosse presente solamente durante la notte, mentre essa c’è anche quando il solleone le toglie campo.

Quel signore, con un misticismo assai semplice e popolare, partendo da questa scoperta, sviluppa il suo pensiero dicendo che il buon Dio è sempre presente durante la nostra vita, lo si scorga o meno, però talvolta Egli si manifesta in maniera sorprendente nella quotidianità nella quale pare non abbia normalmente campo. Si dilunga quindi nell’enumerare le infinite occasioni in cui il Signore splende come la luna di mattina, in situazioni nelle quali non t’aspetti di trovarlo, quasi che il buon Dio fosse relegato in chiesa, chiuso nel tabernacolo, o agli arresti domiciliari nel luogo sacro, e visitabile solamente nelle ore fissate dai sacri riti.

Probabilmente quel lontano fratello non ha letto Dante, quando scrive che il Signore si “squaderna” nelle creature e come l’artista lascia segno della sua presenza nelle “opere d’arte” da lui create.

Temo che anche molti di noi italiani, noi che dovremmo avere dimestichezza con Francesco d’Assisi, non abbiamo purtroppo imparato a vedere e lodare il Signore che ci appare in “frate foco, sorella acqua umile e casta, nelle stelle clarite e belle, e perfino in sora nostra morte corporale”.

Al Signore possiamo dire: «buon giorno e buona sera» a tutte le ore del giorno e della notte.

Messaggini per parlare ai giovani

Suor Michela, la mia anziana coinquilina al “don Vecchi”, legge “Famiglia Cristiana” ed ogni settimana, quando le arriva il numero nuovo, mi passa il vecchio. Quindi appartengo all’indotto dei lettori di questa ancora prestigiosa rivista di ispirazione religiosa.

A dire il vero non sono un fan di questo periodico perché, specie dopo l’ultimo rinnovamento, lo trovo frammentato, un po’ frivolo, aperto eccessivamente alla pubblicità, ma soprattutto ho più di una riserva sul nuovo indirizzo redazionale. Accetto e condivido tutte le posizioni dei periodici cattolici, siano essi simpatizzanti per le soluzioni che si rifanno ai vecchi archetipi della sinistra che della destra, i quali sono ora pressoché una pallida nostalgia del passato e quasi un pretesto per distinguersi dagli altri; invece non simpatizzo punto quando queste tensioni ideali finiscono per confluire in uno schema politico di partito, perché su questo terreno si corre il pericolo di dividerci anche tra i cattolici.

Non spendo troppo tempo per leggere “Famiglia Cristiana” per i motivi suesposti, ma un’occhiata curiosa ed attenta la riservo sempre alla rubrica curata da Antonio Mazzi, mio coetaneo. Don Mazzi è sempre originale, sempre libero nei giudizi e soprattutto capace, nonostante i suoi ottant’anni suonati, di un atteggiamento di ricerca che lo fa approdare a soluzioni, magari marginali, ma che sempre denotano la sua passione per l’uomo e soprattutto per il messaggio di cui è portatore.

In un numero abbastanza recente del periodico, don Mazzi, osservando come le nuove generazioni comunicano tra loro quasi esclusivamente attraverso i messaggini del cellulare, che si devono concentrare in un paio di battute, ma che evidentemente bastano ai nostri giovani per comunicare e capirsi, ha compilato una serie di questi messaggini in chiave pastorale e di proposta religiosa (riporto su “L’incontro” del 20 novembre 2011 questa iniziativa).

Non so se egli realizzerà in proprio questo strumento di comunicazione o se l’affiderà ai lettori, comunque debbo apprezzare anche questa piccola iniziativa che è in realtà gigantesca di fronte all’amara constatazione dell’inerzia e dell’immobilismo pastorale nei quali stagnano le nostre parrocchie.

Purtroppo, una volta ancora, “in un mondo di ciechi il monocolo è un re”.

Umili domande alla politica e una preghiera per il mondo della finanza

Ricordo che tantissimi anni fa c’è stato un momento molto critico per l’economia del nostro Paese e che si doveva prendere una decisione importante ed immediata per evitare il peggio. Ho letto allora sull’editoriale di un quotidiano che ci si è rivolti a Pella, allora ministro delle finanze e del tesoro e il giornalista, competente in materia, affermava che in Italia erano soltanto due o tre gli uomini della finanza che avevano competenza per prendere una decisione in maniera saggia ed appropriata.

Son passati decenni da quel frangente, ma mi pare che la situazione non sia di molto cambiata. Ora è la volta di Tremonti: quando parla sembra un oracolo che dà sentenze illuminate ma incomprensibili ai più. Possibile che non si possa organizzare uno staff di cervelloni esperti della materia che studino il problema e poi prendano assieme decisioni oculate, senza che un giorno si e un giorno no i soliti politici, che pare sappiano tutto di tutto, non escano con valutazioni e critiche che sanno più di partito che di economia?

Ormai da un paio di anni non si fa che parlare di borse che vanno a fondo, che bruciano ogni giorno decine e centinaia di miliardi, di Stati che fanno debiti su debiti e di banche che vendono titoli spazzatura.

Io rimango attonito e stordito di fronte a questo dramma che mi rimane oscuro ed incomprensibile e, da povero ignorante qual sono, ho il timore che sia soltanto la povera gente a rimetterci. Mi domando poi perché non si possano mettere con le spalle al muro questi speculatori internazionali che fanno il buono e il cattivo tempo e perché lo Stato non si comporta come una famiglia seria che non fa il passo più lungo della gamba ed evita di indebitarsi? E perché non si dice alla gente che se si vuol star meglio dobbiamo imparare dai cinesi a lavorare di più, impedendo ai sindacati di fomentare pretese impossibili e agli industriali di arricchirsi sulla pelle degli operai.

So che sarà difficile rispondere a queste domande e che i sogni degli umili sono utopie che si possono realizzare solamente in tempi molto lunghi. In tanta confusione non resta che aggiungere qualche preghiera in più per gli economisti, i banchieri, gli industriali e gli uomini della finanza; chissà che il Signore non faccia il miracolo, perché solamente un miracolo potrà farli rinsavire.

Com’è difficile per tanti sacerdoti il dialogo con l’uomo di oggi!

Un mio amico, che normalmente frequenta la chiesa della Madonna della Consolazione del nostro cimitero, m’ha confidato che qualche settimana fa è entrato nel duomo di una città del Veneto mentre teneva l’omelia il vescovo del luogo. Mi diceva di essere rimasto deluso per il sermone pieno di luoghi comuni, ma soprattutto poco incidente e stimolante.

Io sento, ormai da decenni, una grossa preoccupazione nei riguardi del ceto sacerdotale. Temo che il frequentare quasi solamente gente di Chiesa, che parla con un certo gergo, che si nutre di una cultura che non si confronta quasi mai con quella che permea il pensiero della nostra società, che non legge i romanzi e i giornali che formano la mentalità dell’uomo della strada, che non frequenta i cosiddetti “lontani”, finisce col farsi un’idea erronea dell’uomo di oggi, quando gli si parli con un linguaggio che a lui non è più familiare, linguaggio che è compreso solamente da uno sparuto numero di persone che sono, tutto sommato, emarginate nella nostra società, così da non essere più un campione dell’umanità che popola il mondo di oggi.

Mi è capitato di parlare una decina di anni fa, con un prete che aveva una grossa responsabilità come educatore nella nostra diocesi, il quale, nel suo discorso, parlava e dava risposte ad un tipo di uomo che non era del mondo di oggi ma quello di san Tommaso di molti secoli fa. Io tentavo di dirgli: «Guarda che l’uomo di san Tommaso non esiste più. Quello rappresentava un anello nella specie umana in costante evoluzione, esso può interessare gli archeologi, ma non gli educatori e i sacerdoti di oggi!». Non ci capimmo, credo che abbia continuato a tentare di formare l’uomo conosciuto dalle pagine ingiallite della scolastica.

Io non sono in grado di dire se l’uomo di oggi sia meglio o peggio di quello dei tempi passati, comunque sono certo che l’uomo di oggi ha una sensibilità, capisce certi discorsi, rimane estraneo e indifferente ad altri, avverte certi problemi, parla e capisce una lingua nuova, quella di oggi. A quest’uomo dobbiamo tentare di parlare, di passargli valori, di aprirgli orizzonti, di donargli pace, e per far questo non possiamo non immergerci nel mondo di oggi, buono o cattivo che sia; altrimenti ci parliamo addosso e l’ostacolo tra noi e lui diventa la muraglia cinese.

Vacanze a tutti i costi

Ancora una volta quest’anno la gente, soprattutto le persone care che mi conoscono e mi vogliono bene, incontrandomi, mi han chiesto, quasi per istinto: «Don Armando, non si prende qualche giorno di vacanza?». Oppure qualcuno, ancora più condizionato dal costume del nostro tempo, mi ha domandato: «Dove va in vacanza quest’anno?», dando per certo e scontato che anch’io ci dovessi andare.

Questo mondo non cessa di sorprendermi per la sua illogicità. Da un lato il governo, parlamento, mass-media e perfino la Chiesa, tramite la stampa amica, non fan altro che terrorizzare informando sul crollo delle borse, sull’andamento poco favorevole dell’economia nazionale, europea e perfino degli Stati Uniti, tanto che ce li descrivono vicini al fallimento, e dall’altro lato Anas, Autostrade e servizi di polizia stradale ci informano e ci mettono in guardia e si mostrano preoccupati per l’esodo biblico di ferragosto. La televisione poi, con frequenti carrellate, ci mostrano delle spiagge talmente affollate di creature nude come vermi che, pigiate come sardine in scatola, si contendono qualche centimetro della sabbia della spiaggia.

Qualche pensatore e soprattutto i difensori della fede, danno per certo l’affermarsi delle religioni monoteiste, quasi esse rappresentino un segno dello sviluppo dell’intelligenza umana e della nostra civiltà. In realtà le cose non stanno proprio così. Mai come adesso imperano gli idoli, i miti e le mode. Queste tre componenti della società contemporanea schiavizzano ed impongono gravami pesantissimi ed assurdi al modo di pensare ed ai comportamenti dell’uomo di oggi.

Qualche settimana fa ho riportato sulla copertina de “L’incontro” l’immagine di una piccola chiesetta alpestre con la didascalia “O beata solitudine o sola beatitudine”, un motto della spiritualità benedettina. Voce che grida nel deserto! Oggi credo che dovrebbe tornare san Benedetto da Norcia per convincere i vacanzieri del 2011 della validità di questa massima.

Tanti anni fa la mia vecchia parrocchia di san Lorenzo possedeva un “Rifugio” vicino a Misurina, in una località bellissima, ma assolutamente isolata. Quando arrivavano i ragazzi dalla città, per i primi giorni sembravano disorientati e disturbati psicologicamente per il tanto silenzio e la mancanza di folla. Quasi per istinto si rifugiavano in un baretto vicino dove funzionava un vecchio jukebox che col suo gracchiare profanava la sacralità della valle. Soffrivano di crisi di astinenza da rumore e da folla.

Se andiamo avanti di questo passo il Sert dovrà offrire il metadone quando i “villeggianti” ritorneranno intossicati da folla e da rumore.

Il don Vecchi, isola felice per tanti anziani

Vivere è faticoso per tutti, ma ancor più per gli anziani. Ben ha fatto la società civile a mandare in pensione uomini e donne a 65 anni; non so se proprio facciano bene ad innalzare l’età della pensione, come pare che i nostri governanti vogliano fare. Di certo impegnando gli anziani domandano loro uno sforzo ed una fatica supplementare, non perché il loro lavoro domandi più fatica e più intelligenza, ma perché l’anziano è più vulnerabile ed ha meno risorse.

Mio padre, che è morto a 83 anni (la mia età attuale) mentre si accingeva ad entrare anche quel giorno, come aveva fatto per tutta la vita, nella sua bottega di falegname, mi ha ripetuto più volte: «Ricordati, Armando, che noi anziani basta poco per metterci in crisi e fortunatamente basta ugualmente poco per sentirsi rasserenati». Io ho capito, magari tardi, questa verità, spero che i nostri giovani la capiscano presto, rendendo così più serena la vita della moltitudine dei membri della terza età.

Al “don Vecchi” mi pare venga data risposta positiva a questa esigenza; la gran parte dei residenti si impegna a tener ordinata la propria persona e il proprio alloggio e tutto questo riempie quasi l’intera giornata, anzi moltissimi avvertono il bisogno di qualche aiuto esterno. C’è invece un gruppo di loro che, beneficiando di una buona salute o, più spesso, abituati da una vita ad essere impegnati e a non far spazio all’ozio, si impegnano in lavori marginali, ma quanto mai utili: seguire i fiori, annaffiare le piante, dare una mano al bar o in cucina, prestare servizio presso i magazzini gestiti dai volontari, distribuire la posta, chiudere ed aprire al mattino e alla sera le porte e fare qualche altro lavoretto non troppo impegnativo.

Credo che il “don Vecchi” sia una risposta ideale alla fragilità dell’anziano; la cordialità che si respira al Centro è un elemento rasserenante, e il poter contare sulla disponibilità dei responsabili sempre pronti a fare da supporto e talvolta da supplenza ad eventi fuori dal ritmo quotidiano, offre ulteriore tranquillità.

Ora poi la scelta veramente saggia e generosa del Comune, che garantisce una presenza ed una vigilanza anche di notte, ed un piccolo aiuto a chi non ha mezzi per pagarsi una assistente familiare, pure se a “part time”, credo aggiunga benessere e serenità ulteriore. Credo che valga proprio la pena di impegnarsi perché il “don Vecchi” rappresenti “l’isola felice” per tanti anziani in disagio e sia veramente una risposta alla fragilità e l’insicurezza di tanti nonni che non possono godere del calore e della protezione della loro famiglia naturale.

Bisogna tornare a vivere l’Eucarestia come la intendeva Gesù

Gesù, nell’ultima cena “dopo aver reso grazie a Dio, prese del pane e disse: «questo è il mio corpo, prendete e mangiate», poi prese il bicchiere di vino e disse: «questo è il mio sangue, prendete e bevete»; concluse poi affermando : «ogni volta che vi incontrate, fate questo in mia memoria».

Fin dai primi anni di catechismo ci è stato spiegato che quando i discepoli di Gesù si incontrano, devono compiere questo “memoriale”, ossia devono ricordare e rendere vivo ed attuale il dono che Gesù ha fatto di Sé con la sua vita, il suo messaggio, la sua morte, la sua passione e resurrezione, e per ottenere questo, devono ripetere il gesto di mangiare e bere il pane e il vino, segni dell’offerta di Cristo a farli totalmente propri, così da non cogliere il sapore ma la loro sostanza trasfigurata, assimilandoli perché diventino alimento del loro pensiero, del loro modo di concepire la vita e la morte, ossia diventare quello che san Paolo tradusse bene con quella sua affermazione: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.

I cristiani hanno mantenuto sì la raccomandazione di Gesù con la celebrazione eucaristica, ossia con la santa messa, però pian piano ne hanno fatto un rito così concentrato ed essenziale per cui n’è rimasta quasi solamente la sostanza, così scheletrica da non suscitare più emozioni,                                                                                                                                                                                                             ossia s’è perso tanto della sua vitalità, riducendola a rito, non un’esperienza esistenziale coinvolgente. Tutto questo l’avevo capito da tanto tempo, poi l’abitudine finisce sempre per farmi accettare la più facile semplificazione.

In questi giorni ho letto nel volume “L’eremo non è un guscio di lumaca” come la teologa e mistica Adriana Zarri – che ne è l’autrice e ha scelto di vivere solitaria in un eremo, praticamente un cascinale abbandonato sulle colline piemontesi – come essa celebrasse la “sua messa” solitaria – ma non tanto! La comunione eucaristica del pane e del vino di questa asceta dello spirito diventava un gesto sacro all’interno della sua colazione serale, nella quale entrava la vita ordinaria fatta di cibo, di relazioni umane, di sentimenti, di rapporti col cielo, la natura, gli animali, i ricordi. Tutto ciò faceva un tutt’uno con l’aprirsi al dono di Cristo per inserirlo veramente nella sua vita.

Io non so come potrei offrire questo concetto ai fedeli durante le messe nella mia chiesa della Madonna della Consolazione, in questa cornice esistenziale, ma avverto più che mai che “i segni” devono diventare più pregnanti, più significativi e coinvolgenti ed incidenti nello spirito, nella ragione e nel comune sentire se non voglio che si riducano ad una “sciarada” pressoché incomprensibile e lontana dalla vita, dagli interessi e dalle relazioni di tutti i giorni.

Quale futuro per la solidarietà cristiana che sembra non attrarre più i giovani?

C’è un problema che mi preoccupa a livello ecclesiale: non vedo all’orizzonte della vita ecclesiale l’arrivo di rinforzi in generale e, in particolare, nel settore della carità. Mi può far anche piacere che spesso i giornali locali si interessino delle mie imprese caritative, ma sarei molto più contento se ci fosse quasi una gara tra preti nel far di più e nel far meglio.

Io penso di essere un attento osservatore di ciò che avviene nel campo della solidarietà cristiana. Non dico che non ci sia nulla, perché ogni tanto mi capita di leggere che nella parrocchia della Gazzera ci si fa carico dei cristiani del Libano, che a Chirignago si ospitano dei profughi dell’Africa subsahariana, che a Catene si accolgono i bambini di Chernobil, che a Carpenedo c’è un bel gruppo di persone che aderiscono all’iniziativa delle adozioni a distanza, che riesce a portare degli aiuti consistenti per dare una cultura di base ai ragazzi e ai giovani di certe regioni dell’India, delle Filippine e dell’Africa; che nelle due parrocchie di viale San Marco, una è impegnata per finanziare l’ospedale di Wamba e l’altra raccoglie fondi per gli affamati del Sudan; che ad Altobello si fa funzionare una mensa per i poveri, ai Cappuccini un’altra e a San Lorenzo un’altra ancora. Tutto questo è molto bello, però mi pare che manchino i rincalzi del mondo dei giovani.

Un tempo c’era, a Mestre, un gruppo numeroso della gioventù francescana, un altro chiamato “gruppo del martedì” ed un altro ancora della San Vincenzo, tutti veramente impegnati sul fronte della carità, e dei giovani preti e frati che guidavano questi giovani generosi ed entusiasti. Ora ho l’impressione che le strutture caritative poggino soprattutto sugli anziani e il mondo giovanile sia piuttosto assente, facendo così mancare, da un lato l’entusiasmo e la passione tipica dei giovani, e dall’altro la speranza dei rincalzi e dei ricambi.

Io poi ero fino a poco tempo fa preoccupato di non vedere a chi lasciare i miei sogni e i miei progetti non ancora realizzati e che non riuscirò di certo a realizzare, ora però è arrivato don Gianni.

Giorgio Mar

E’ morto un altro mio amico. Giorgio Mar aveva soltanto un paio di anni meno di me. Sto osservando che chi parte in questo tempo è quasi sempre nato fra il 1925 e il ’35; sono queste le classi dei “richiamati”. Io sto dentro a questa fascia e perciò prima o poi mi arriverà la cartolina di precetto.

Con Giorgio ci conoscevamo da più di quarant’anni e da una vita ci scambiavamo i nostri pareri sul governo, sulla Chiesa e sulla parrocchia. Quasi sempre ci trovavamo d’accordo, il nostro denominatore comune era il non schierarsi mai per una parte, il mantenere sempre il diritto di critica e il puntare sul positivo, non lasciandoci condizionare dalla “moda” del momento a tutti i livelli, sia politico che religioso e civile.

Di Giorgio mi piacevano molte cose: la fedeltà alla Chiesa, ma non ad una certa Chiesa, la fedeltà all’educazione e alla cultura ricevute da giovani, l’amore per la sua famiglia numerosa, la grande disponibilità, il suo brontolare su tutto, ma mai in maniera cattiva.

La sua carriera lavorativa iniziò col dazio, per finire nell’economato in Comune. Lavorò sempre con serenità, ma rimase libero nel giudicare i suoi datori di lavoro, non prendendoli mai troppo seriamente e criticandoli di frequente, ma sempre in maniera bonaria.

Lo scorso anno ebbe il primo scappellotto a livello della salute; pensavo che fosse causato dalla sigaretta che aveva sempre in bocca. Un mese fa però arrivò il secondo avviso, quello definitivo. Credo sia morto rimanendo convinto di farcela, ma non fu così.

Rimpiango di Giorgio le sue visite puntuali alla domenica mattina, mentre io facevo lumini nella sagrestia della mia vecchia chiesa in cimitero. Commentavamo bonariamente i fatti della settimana che riguardavano, come sempre la parrocchia, la politica e la Chiesa. Ci trovavamo sempre d’accordo sul non essere degli allineati, né dei condizionati dalle “mode” politiche o ecclesiali. Da sempre ci sentivamo dei liberi battitori, per nulla preoccupati d’essere un po’ sempre fuori coro.

Per questo motivo, durante la mia vita, mi sono sentito sempre un po’ solo. Ora, con la partenza di Giorgio, lo sento ancora di più. Mi consolo sapendo che non ne avrò per molto, appunto perché appartengo ad una delle classi che in questo tempo sono “richiamate”.

Un incontro quotidiano che mi aiuta a sentire l’umanità ancora cara ed accettabile

Io sono tanto riconoscente al Signore che spesso mi fa incontrare delle persone che mi riconciliano con l’umanità e m’aiutano a credere ancora nell’uomo nonostante tutto.

Per me, credere nel buon Dio non è un problema, perché lo vedo da mane a sera in ogni angolo del mondo in cui vivo e il suo volto m’appare splendido, il suo cuore caldo ed amorevole. Per me credere è un dono meraviglioso, che mi dà speranza, coraggio, fiducia nel domani e volontà di camminare ogni giorno verso l’incontro che sarà certamente un fatto meraviglioso.

Quanto condivido la testimonianza della monaca di clausura di un convento di Bologna che, intervistata dal nostro famoso reporter, Sergio Zavoli, che le domandava se lei e le sue monache avessero paura della morte, rispose: «Anche noi siamo povere creature e temiamo la morte, essa però ci permetterà di incontrarci con quel Signore che abbiamo amato e che abbiamo messo sopra ogni interesse; sarà veramente meraviglioso poterlo incontrare, vedere la bellezza del suo volto, abitare nella sua casa!»

Io però faccio un’enorme fatica a credere nell’uomo. Ogni mattina i quotidiani impiegano il novantanove virgola nove del suo spazio e delle sue parole per descrivermi dettagliatamente le miserie, la cattiveria, i soprusi, l’egoismo, la volontà di dissacrazione, la profanazione del corpo e del creato. Forse per questo il Signore tanto di frequente mi fa incontrare delle belle figure di uomo che mi riconciliano con l’umanità.

Don Mazzolari, nel magnifico prologo al suo volume “Impegno con Cristo” afferma che bisogna impegnarci comunque, anche se gli altri non s’impegnano, perfino se il nostro impegno non risolve nulla. Io però, che sono un povero diavolo e non ho l’animo nobile ed alto di don Mazzolari, ho bisogno di incontrare sulla mia strada testimoni di umanità per trovare il coraggio di credere nell’uomo.

Ogni giorno incontro verso mezzogiorno un mio coinquilino dal volto aperto e sorridente che parte di buon mattino dal “don Vecchi” e rimane al capezzale della figlia, che vive in uno stadio pressoché vegetativo, non comunica ed è nutrita con una sonda. Da due anni e più ogni giorno sta accanto a questa figlia per tutta la lunga mattinata, eppure mai una sola parola di rammarico, mai il volto buio, mai perfino una preghiera perché il buon Dio sollevi la figlia da questa condizione disperata. Il suo volto sereno e il dono di sé senza recriminazioni, si sovrappongono a tutti i titoli e la cronaca buia della nostra società e, grazie a Dio, mi rendono l’umanità ancora cara ed accettabile.