Non è giusto lasciarla passare

All’inizio dell’anno, su sollecitazione di un consigliere della Fondazione Carpinetum, ho scritto una lettera ad uno dei sub commissari che aiutano Zappalorto nella gestione del nostro Comune per informarlo che i settanta anziani del Don Vecchi di Campalto da ben tre anni sono praticamente prigionieri in quella struttura perché Via Orlanda, la strada che congiunge il Don Vecchi al centro di Campalto, è assolutamente impraticabile. Sollecitavo questo pubblico amministratore ad affrontare il problema, per arrivare poi, in seconda istanza, almeno ad inserirlo nel programma di interventi che il Comune si impegna ad affrontare nei prossimi tre anni.

Dal Comune silenzio assoluto!

Ritengo però che non sia lecito permettere ad un funzionario, a cui paghiamo lo stipendio, di essere tanto maleducato da non rispondere alle richieste dei cittadini. Aspetterò ancora un paio di settimane e poi mi farò nuovamente vivo, intervenendo per l’ennesima volta. Sono convinto che purtroppo noi cittadini non interveniamo con sufficiente determinazione nei riguardi di questi burocrati, se non altro per far capire loro che sono al nostro servizio. Un tempo mi è capitato di leggere un articolo sul numero esagerato di segretarie di cui potevano disporre il sindaco e i singoli assessori. Non credo siano state tutte licenziate tanto da costringere il sub commissario a rispondere personalmente!

La tarda conferma

La società civile si è accorta per tempo dei Centri Don Vecchi, la soluzione che affronta in maniera realistica, rispettosa degli anziani ed economica il problema del domicilio assistito.

Sono veramente innumerevoli i comuni che si sono interessati alla nostra esperienza con i Centri Don Vecchi. In realtà, nonostante gli apprezzamenti e i consensi, non c’è stato molto seguito.

I comuni purtroppo sono imbrigliati in un’esasperata burocrazia che rende praticamente impossibile ogni iniziativa. Il mondo ecclesiale pareva invece che non avvertisse questo problema e che non avesse colto la nostra sperimentazione come qualcosa di estremamente valido. In questi giorni però sono venuto a conoscenza che la Conferenza Episcopale Italiana, l’Arcidiocesi di Firenze e la relativa Cassa di Risparmio hanno deciso di realizzare entro il 2016 un “condominio solidale” a Novoli, periferia di Firenze.

Si tratta in pratica di un mini Don Vecchi per cinquanta anziani e, anche se tutto sommato “la montagna ha partorito il topolino”, siamo felici che realtà così significative della Chiesa Italiana, pur con vent’anni di ritardo, praticamente sanciscano la validità del nostro progetto.

Benedizione delle case

Io sono da sempre un propugnatore quanto mai convinto della validità del vecchio strumento pastorale denominato “Benedizione delle case”, definizione che potrebbe essere opportunamente aggiornata con quest’altra “Visita annuale alle famiglie della parrocchia”.

So pure che sono un “profeta” per nulla ascoltato e, ad eccezione di pochissimi colleghi, per nulla seguito.

Per fortuna non mi sono mai lasciato condizionare da alcuna moda e perciò procedo imperterrito per la mia strada. Qualche settimana fa, dopo aver proposto l’iniziativa al parroco di riferimento senza esito alcuno ed essendo io assistente spirituale, regolarmente incaricato dai Centri Don Vecchi, ho preso l’iniziativa cominciando con quello di Marghera: una breve visita pomeridiana per un incontro con una quindicina di residenti al giorno. Sono più che felice, sono strafelice: un incontro cordiale, un rapporto confidenziale di anziani che hanno trovato finalmente un porto sicuro.

Ho constatato che non tutti sono santi e che non tutti vanno a Messa alla domenica, ho però trovato tanta apertura, tanta fiducia e riconoscenza.

La carità apre i cuori più chiusi e più freddi!

Centenaria

Il due gennaio la signora Gianna Gardenal, da vent’anni residente al Centro Don Vecchi, ha celebrato i suoi cento anni di vita. Alla signora Gianna voglio molto bene perché è una donna buona ed intelligente, vive una vita serena, amata dalle figlie e dai numerosi nipoti, affettuosamente assistita da Tania. Nonna Gianna passa le sue giornate pregando, ascoltando la televisione, perché è quasi cieca, e riposando quando è stanca.

Infinite volte mi ha ringraziato per averle dato il suo “quartierino” in cui vive felice, accarezzando i suoi fiori e, ad ogni nostro incontro, mi ripete che questi ultimi vent’anni, vissuti al Don Vecchi, sono stati i più belli della sua vita. Con fare sornione poi mi ripete che sta aspettando la chiamata al cielo, ma lei è una donna paziente perciò aspetta volentieri anche se il Signore è in ritardo.

Non è che al Don Vecchi tutto scorra liscio e tranquillo, i problemi di cinquecento anziani e delle relative famiglie sono molti ma, se non ricevessi altre attestazioni d’affetto e di riconoscenza all’infuori di quelle della cara nonna, queste sarebbero più che sufficienti per gratificarmi e aiutarmi ad andare avanti.

Per Venezia non c’è salvezza

Mi rattrista il dover parlar male ancora una volta di Venezia perché, nonostante tutto, l’amo e sono orgoglioso di abitarvici, però ogni giorno di più mi convinco che per questa città non c’è più salvezza.

Voglio evitare di ripetermi sulla cattiva amministrazione, sulle occasioni perdute, sul mal governo e sull’acqua alta, ma vorrei richiamare la vostra attenzione sullo sconfinato esercito di burocrati impietosi, stupidi ed irresponsabili che la stanno soffocando.

I motivi di sconforto, di amarezza e di sdegno sono stati tanti, questo è solo l’ultimo.

Una cara signora, che ha avuto l’incarico dalla sorella deceduta alcuni anni fa di distribuire ad opere benefiche il patrimonio che ha lasciato, ha deciso di donare alla Fondazione i proventi della vendita di un “bacaro” che si trova vicino a San Marco.

Si tratta di una cifra ingente con la quale potremo finanziare la struttura per le emergenze abitative destinata a: divorziati, disabili, vecchi preti, operai ed impiegati di altre città che lavorano a Mestre, parenti di degenti in ospedale, giovani che tardano a sposarsi per la mancanza di un alloggio. Un complesso di 65 appartamenti che offriranno un servizio quanto mai necessario e soprattutto creeranno quella cultura e quella mentalità solidale di cui Mestre ha bisogno come il pane quotidiano.

Ebbene i burocrati del Comune, che sono poi gli stessi che hanno fatto perdere a Venezia il grattacielo di Cardin, le carceri, lo stadio e quant’altro, stanno facendo l’inimmaginabile per impedire o ritardare un’operazione benefica di notevole portata culturale e sociale.
Perché? Proprio non lo so!

Soldato semplice

Quando, alcuni giorni fa, ho spedito al Presidente e ai membri del Consiglio di Amministrazione le mie dimissioni da direttore della Fondazione dei Centri Don Vecchi, ruolo da me ricoperto fino al 31 dicembre, per una strana associazione d’idee sono ritornato con il pensiero ad un romanzo della mia fanciullezza: “I ragazzi della Via Pàl”.

I più anziani ricorderanno che in quell’esercito immaginario tutti avevano un ruolo di comando tranne Nemecsek, unico soldato semplice, che riceveva ordini da tutti.

Nella mia lettera di dimissioni ho rimesso nelle mani del consiglio le sorti dei Don Vecchi, la cui costruzione è stata l’impresa che più mi ha impegnato ed appassionato negli ultimi vent’anni della mia vita.

Con suddetta lettera però ho anche dato la mia totale disponibilità alla Fondazione per svolgere, qualora mi venga richiesto, le attività che ancora sono in grado di fare.
Confesso che mi è costato un po’, ma non più di tanto!

Sono ben cosciente che essere fedele a questa scelta mi costerà molto perché da tanti anni mi sono abituato a prendere decisioni ma soprattutto perché da sempre ho portato avanti con tanta e forse troppa determinazione gli obiettivi che credevo giusti, comunque anche questo sacrificio fa parte della stagione che sto attualmente vivendo.

La scommessa difficile

Le vicende della nascita dell’ultimo Don Vecchi ci hanno offerto una medaglia con due volti estremamente diversi.

La prima faccia si è presentata quasi trionfale, mano a mano che il progetto maturava mi sembrava fosse avvolto dall’inno alla gioia del finale della nona sinfonia di Beethoven: prestito a tasso zero di quasi tre milioni di euro, offerta di trentamila metri quadrati di superficie da parte del Comune, un prezzo estremamente conveniente praticato dell’impresa appaltatrice per una struttura che in soli dieci mesi fu ben bella sfornata.

L’altra faccia della medaglia è stata totalmente diversa: la fretta di riempire i sessantacinque alloggi, l’accettazione di anziani al limite estremo dell’autosufficienza e forse un po’ più in là, il venir meno della diaria promessa dalla Regione e per finire il timore che la struttura possa poi rivelarsi assai dispendiosa per i costi di gestione. Motivo per cui è stato gioco forza correre ai ripari offrendo solamente un monitoraggio e riducendo all’osso il personale, anche perché l’ubicazione ai margini della città rende quanto mai difficile reperire volontari.

Comunque come Cesare quando passò il Rubicone pronunciando la famosa frase: “Il dado è tratto!” anche noi non abbiamo che una possibilità: “Vincere la scommessa”.

Il cuore mi dice che la vinceremo comunque!

“Là c’è la provvidenza!”

Ho avuto l’opportunità di toccare con mano quanto sia vera l’affermazione che il Manzoni mette in bocca allo sfortunato Lorenzo Tramaglino, il protagonista dei “Promessi Sposi”.

Sento il bisogno di raccontare ad amici e colleghi due episodi tra i più significativi che mi siano capitati mentre ero attanagliato dalla preoccupazione per come saldare i conti delle strutture mediante le quali speravo di tradurre concretamente il comandamento di Gesù: “Ama il prossimo tuo”.

Una mattina, mentre mi dibattevo tra le difficoltà economiche ed i conti da saldare relativi al Don Vecchi Due, un’anziana signora, dopo aver atteso tre quarti d’ora perché mi liberassi dagli impegni, entrò in ufficio e senza tanti preamboli mi disse: “Don Armando ho deciso di donarle un miliardo di lire per la sua opera”.

La somma mi arrivò per un cammino un po’ tortuoso perché lei morì improvvisamente e qualcuno dei parenti tentò di approfittarne, comunque poi la somma mi arrivò fino all’ultimo centesimo ed ora 142 anziani beneficiano di un alloggio presso la struttura pagata in notevole parte da questa benefattrice. Pensavo che nella mia vita un “miracolo” del genere non mi sarebbe più capitato, invece mi sbagliavo. Un’altra donna, che sta elargendo l’eredità di una sorella defunta, qualche giorno fa mi ha promesso settecentomila euro (l’equivalente di un miliardo e mezzo di vecchie lire) che supera di un bel po’ l’offerta precedente!

Se gli obiettivi sono validi e disinteressati al Buon Dio non mancano proprio “gli amici” per farci pervenire ciò che ci occorre.

Provare per credere!

Il paradiso terrestre

Dopo aver chiesto senza risultato per quattro anni al giovane parroco di visitare, conoscere e benedire la settantina di residenti in uno dei cinque Centri Don Vecchi, sollecitato dagli interessati, ho perso la pazienza e ho “varcato in armi” i confini del territorio altrui. L’invasione è durata appena quattro pomeriggi, ma il risultato è stato veramente splendido. La dimora, più che signorile mi è parsa principesca. I castellani Teresa e Luciano, anfitrioni insuperabili, e soprattutto gli anziani ospiti mi hanno letteralmente riempito il cuore di tenerezza, simpatia e riconoscenza, tanto che più volte mi sono sentito perfino a disagio, perché mai mi era capitato di ritenermi un benefattore dell’umanità. L’accoglienza è stata quanto mai cordiale, anzi spessissimo, affettuosa e materna e più di uno mi ha confidato che per lui è stata una grazia l’aver scoperto il “paradiso terrestre”! Oltretutto poi mi hanno consegnato ben cinquecento euro da destinare alla costruzione del Don Vecchi 6. Spesso sento parlare di una pastorale complicata e macchinosa mentre ne abbiamo una offertaci dalla tradizione così semplice e vantaggiosa!

Prendere la gente per il suo verso

E’ una vita che vado ripetendo ai miei colleghi che è più opportuno e giovevole per noi preti tentare di cogliere le opportunità che ci vengono offerte dalla vita piuttosto che sforzarsi di piegare la vita stessa ai nostri schemi mentali, spesso fuori tempo e spesso per nulla graditi.

E’ una necessità nutrire lo spirito ma ci sono vari modi per farlo. Frequentemente si organizzano con fatica e con pochi aderenti esercizi spirituali, ritiri, incontri biblici o corsi teologici, tanta fatica ma con scarsi risultati, poche adesioni e per di più dei soliti devoti!

A fine ottobre ho invece battuto un’altra strada, scoperta ormai molti anni fa: il mini pellegrinaggio a Monte Berico.
In un battibaleno abbiamo riempito tre pullman: 170 adesioni!

Viaggio piacevolissimo nella cornice incantata dei caldi colori autunnali, confidenze cordiali tra vecchi e nuovi amici. Il priore dei Servi di Maria ha narrato la storia del Santuario, punto di riferimento per la fede dei veneti ed io, con la mia omelia, ho affermato che la Madonna ci accoglie sotto il suo manto purché accettiamo il nostro prossimo, donando il meglio di noi stessi. Al termine un’apprezzata “signora” merenda, servita in una veranda che si apriva sul bosco, ha suscitato in tutti noi sentimenti di fraternità, amicizia, alimento della fede e riconoscenza. Nella bocca di tutti parole di letizia e di gratitudine.

Baruffe chiozzotte

Nota della redazione: questa riflessione risale a ottobre. Successivamente la concessione è finalmente giunta.

I miei rapporti col Comune, ossia con gli uffici e con i suoi dipendenti, non sono mai stati idilliaci. Credo che i motivi di fondo siano questi.

  1. Ho la convinzione profonda che tutta la struttura comunale sia al servizio del cittadino e non viceversa. Non accetto di dovermi mai presentare col cappello in mano a mendicare un servizio che mi è dovuto.
  2. Non accetto e non accetterò mai una burocrazia lenta, farraginosa e cartacea. I dipendenti del Comune devono essere lesti, efficienti, rispettosi come qualsiasi altro dipendente di qualsiasi negozio o impresa. Quindi non accetto la “casta” dei dipendenti pubblici.
  3. Non ho mai avuto una grande opinione di quei Consigli periferici di carattere consultivo, perché ho l’impressione che siano composti da personaggi della sottopolitica, verbosi e inconcludenti.

Dato questo mio modo di pensare più di una volta ho avuto modo di entrare in rotta di collisione con rappresentanti del Comune.

Al momento in cui sto buttando giù queste note, sto attendendo da sette mesi la concessione edilizia per il “don Vecchi sei”, la struttura che tende a creare opinione pubblica e cultura verso le emergenze abitative. Mi sono scontrato ancora una volta, tanto che qualcuno mi ha minacciato di chiedere all’avvocatura del Comune di sporgermi querela.

Pure in passato mi è capitato qualcosa del genere con la municipalità, che allora si chiamava “Consiglio di quartiere”. Avendo ottenuto in affitto dal demanio militare quarantamila metri quadri della superficie attorno al forte di Carpenedo perché i ragazzi potessero giocare, ho chiesto ad un imprenditore di spianare il terreno e poi, essendomi accorto che il pallone rischiava di andare in strada con pericolo per gli automobilisti e per gli stessi ragazzi, trovai chi si è offerto di proteggere il campo con una rete alta parecchi metri.

Ma mentre si stava mettendo in atto questa operazione, un membro del Consiglio di quartiere di Rifondazione comunista, passando di là si accorse di quanto il prete stava facendo. Il Consiglio di quartiere mi convocò in veste di imputato.

A verbale si imputava alla “ditta don Armando Trevisiol” di aver manomesso il terreno, mettendo in pericolo le ninfee nane esistenti in quel luogo. Per non aver grane, ma soprattutto per la difficoltà di seguire i ragazzi, restituii al demanio il terreno che, ben presto, si coprì di gramigna e rovi, altro che di ninfee nane! Ognuno può immaginare quale opinione ebbi di questi pubblici amministratori.

Ora ho protestato per il fatto che gli stessi amministratori, mi minacciano di farmi querelare solamente perché ho ritenuto doveroso protestare per l’eterna lentezza del Comune, che finisce per impedire ai cittadini volonterosi di supplire alle sue carenze e a gente che soffre per mancanza di lavoro di poterne avere uno sicuro almeno per un paio d’anni.

Credo che protestare non sia solamente un diritto, ma un sacrosanto dovere!

Il Patriarca al “don Vecchi 5”

A tre mesi dall’inaugurazione ufficiale il Patriarca ha fatto una breve visita al “don Vecchi 5”. In verità la presentazione della nuova struttura alla città era avvenuta a maggio in maniera frettolosa perché l’assessore alla Regione, dottor Sernagiotto, che aveva puntato a “coprire” quella zona grigia compresa tra l’auto e la non-autosufficienza, “correva” per essere eletto al Parlamento europeo.

Forse questo amministratore della Regione voleva presentare all’opinione pubblica quella sua intuizione che avrebbe permesso agli anziani di allungare la loro autonomia e, nello stesso tempo, avrebbe risparmiato all’ente pubblico l’onere pressoché impossibile delle rette per non autosufficienti.

Sernagiotto penso che abbia considerato il “don Vecchi 5” come il fiore all’occhiello del suo servizio in Regione. Con la scelta di creare questa struttura intermedia volle dimostrare che è possibile raggiungere i due obiettivi suddetti.

La Fondazione dei Centri don Vecchi, senza volerlo, aveva già fatto questa esperienza nelle sue strutture esistenti perché esse, partite per ospitare persone autosufficienti, in vent’anni avevano mantenuto la domiciliarità anche per gli anziani che avevano perso molto della loro autonomia. Il “don Vecchi 5” è diventato così non solamente un’esperienza pilota che vuole aprire una soluzione innovativa per i problemi della terza e quarta età, ma pure una sfida sulla possibilità di garantire agli anziani altro tempo di vita da uomini e donne pressoché normali.

L’uscita di scena dell’assessore alla sicurezza sociale, dottor Sernagiotto, ha almeno per ora, congelato il secondo aspetto dell’operazione, aspetto che prevedeva un contributo, pur minimo, per garantire un maggior supporto all’anziano residente. A livello personale sono stato quasi contento dell’inghippo perché, senza contributo, il “progetto sfida” diventa più radicale “costringendo” le famiglie ad essere più vicine al loro famigliare, fornendogli quell’aiuto che è postulato dalla stessa natura.

Comunque l’esperienza è partita. Infatti tutti i 65 alloggi, sono già occupati e forse per l’autunno del 2015 potremo tirare le somme e farne un bilancio.

Tornando al Patriarca, egli ha parlato agli anziani, dimostrando di essere sufficientemente informato sulla “dottrina del don Vecchi”. Ha scoperto la dedica ai benefattori insigni e visitato molto rapidamente la struttura, perché impegnato in altri servizi. Don Gianni, il parroco di Carpenedo, che è pure presidente della Fondazione, ha presentato in maniera brillante l’opera destinata agli anziani in disagiate condizioni economiche. Io, sollecitato dal Patriarca a prendere la parola, ho precisato che ero il “passato prossimo” dell’opera, ma che mi avviavo rapidamente ad essere il “passato remoto”; comunque desideravo affermare con decisione che i Centri don Vecchi vogliono essere un segno visibile, comprensibile e concreto dell’attenzione della Chiesa di Venezia nei riguardi dei fratelli in difficoltà, anche se a molti pare che la Fondazione viva ai margini della vita ecclesiale.

Nevegal

Qualche settimana fa abbiamo chiuso la “stagione autunnale” delle uscite organizzate per animare la vita piuttosto abitudinaria dei residenti presso i Centri don Vecchi.

Fin dall’inizio di questa iniziativa l’abbiamo denominata “mini pellegrinaggio” o, meglio ancora, “gite pellegrinaggio” perché uniscono il “sacro” con il “profano”. Ai residenti ben presto si sono uniti gli anziani del “Ritrovo” della parrocchia di Carpenedo ed anche un certo numero di anziani provenienti dall’intera città.

L’iniziativa è quanto mai attesa e gradita, infatti anche in questa occasione, i due pullman, capaci di 112 persone, si sono riempiti in un battibaleno.

L’organizzazione è ormai molto vicina alla perfezione. Presiedono al “minipellegrinaggio” i coniugi Ida e Fernando Ferrari, i quali prendono contatto con il santuario prescelto e fissano i tempi di partenza. Accanto a loro lavora uno staff quanto mai affiatato ed efficiente: il signor Sergio, olimpico per la serenità e le battute sornione, che riceve le prenotazioni, i coniugi Anna e Gianni Bettiol, Graziella e Paolo Silvestro e Luciana e Massimo Di Tonno, che preparano la merenda, aiutano i più fragili o quelli in carrozzella a prender posto sui pullman e a riordinare le sale dopo la merenda che segue alla messa. Una signora del Centro don Vecchi di Campalto intona con voce sicura e guida il canto. A me è riservato il compito di preparare la presentazione degli obiettivi che ci prefiggiamo con l’uscita, le numerose preghiere dei fedeli per coinvolgere e precisare il tema specifico per ogni pellegrinaggio, la celebrazione dell’Eucaristia e, in particolare, l’offerta del messaggio specifico mediante la predica.

Dunque questa uscita ci ha portato al Nevegal. In un’ora e mezza di percorso abbiamo raggiunto la meta. Il nuovo santuario dedicato alla Madonna di Lourdes è collocato in un anfiteatro, una radura verde in mezzo ad un bosco del monte Nevegal a mille metri sul livello del mare. La grotta è in stile moderno e la chiesa, per fattezze e colore, sembra una grandissima baita di montagna. L’ambiente è davvero suggestivo anche se la sua costruzione data solamente da vent’anni.

M’ero fissato, per l’occasione, il discorso che non servono miracoli particolari per rendere sacro e benedetto un luogo particolare, perché tutto quello che ci circonda è già miracolo e quando una qualsiasi comunità di discepoli di Gesù prega animata dalla fede, può incontrare il Signore. La preghiera ci rende coscienti di tutto quello che abbiamo ricevuto e ci aiuta a godere di più del dono di Dio.

L’incontro all’altare è stato di intensa spiritualità e più che mai graditi sono stati la merenda e il lungo tempo per le chiacchiere.

I nostri pellegrinaggi, fra i tanti pregi, hanno pure quello di rendere lieta la preghiera, la meditazione e lo stare assieme.

“Felicissima”

Già ho scritto che quando mi libererò da certi impegni – e a questo proposito mi sono già fatto un cronoprogramma presiso – ho in animo di dedicare mezza giornata alla mia chiesa del cimitero, rimanendovi dal primo mattino fino a mezzogiorno: pregando, studiando, ricevendo chi volesse incontrarmi e svolgendo quelle mansioni religiose proprie di questo luogo particolare.

Mentre il pomeriggio voglio dedicarlo interamente ai quasi cinquecento residenti presso i cinque Centri don Vecchi, cosa che in quest’ultimo tempo non ho fatto perché troppo impegnato in altre faccende.

In queste ultime settimane però mi sono recato almeno due o tre volte la settimana al Centro degli Arzeroni. Dare l’avvio ad una comunità di una settantina di residenti al limite, o appena oltrepassato il limite dell’autosufficienza, credetemi, non è proprio la cosa più facile di questo mondo.

L’intesa tra chi ha progettato la struttura e chi ha un suo progetto molto preciso e sofferto che abbia a funzionare offrendo agli anziani un ambiente caldo ed efficiente, spesso lascia a desiderare alquanto perché in genere per l’architetto l’obiettivo più importante e pressoché assoluto è l’estetica, mentre per chi deve organizzare la vita, specie di persone anziane, che sono poco duttili per le loro condizioni fisiche e mentali, gli obiettivi sono ben altri: la funzionalità, la rispondenza alle abitudini e agli stili di vita degli anziani e, non ultimo, l’economicità, perché i soggetti che abbiamo scelto di accogliere sono i più poveri della nostra città. Una volta che questi due progetti si mettono a confronto e si devono assolutamente coniugare, spesso nascono notevoli difficoltà. Al don Vecchi degli Arzeroni le cose non sono andate molto diversamente. A questa difficoltà s’aggiunge il fatto che la Fondazione non può permettersi se non il personale strettamente essenziale e complica ulteriormente la cosa che la catena di comando sia composta esclusivamente da volontari – perciò ognuno vi porta le sue idee che non può imporre ed uno si deve coordinare con quelle degli altri. Confesso che spesso i miei sonni sono stati turbati da incubi notturni suscitati da queste problematiche.

Questo pomeriggio, dopo aver chiuso la mia “cattedrale”, ho fatto una capatina all’ultima struttura per gratificare i volontari, per oleare i rapporti e portare avanti la soluzione che io credo ottimale. Temevo, perché c’era la prima prova del nove per l’efficienza del pranzo. Devo felicemente confessare che ho trovato l’ambiente migliore di quanto sperassi: volontari motivati e disponibili e soprattutto i primi ospiti felici.

Temevo che avvenisse al “don Vecchi” quello che mi capitava di vedere ogni anno al “Germoglio”, la scuola materna della parrocchia nella quale per le prime due o tre settimane mi pareva di trovarmi in una “valle di lacrime”, motivo per cui l’inserimento dei bambini doveva essere graduale e progressivo.

La prima anziana che ho incontrato mi ha subito detto, forse per farmi contento: «Sono felicissima, mi trovo tanto bene!». Un’altra poi mi ha portato a vedere la sua suite che s’apre sul giardino di villa Angeloni: un appartamentino arredato con estremo buon gusto, ordinato e pulito. I responsabili poi mi han detto che in tre settimane sono stati ormai assegnati ben 50 dei 65 alloggi disponibili.

Se “il buon tempo si vede dal mattino”, ho di che consolarmi.

Una creatura ormai matura

La vita è un’esperienza sempre nuova, anche quando si vivono gli ultimi albori della propria esistenza. Mentre per la giovinezza c’è una folla di educatori che tentano di aiutare il ragazzo e poi il giovane, a crescere, ho invece la sensazione che ci siano pochi o nessun educatore che aiuti il vecchio a vivere in maniera lucida e serena il tempo del suo vespero e del suo tramonto.

Ripeto ancora una volta che la mia cultura in ogni campo, compreso quello dell’età senile, è molto limitata. Onestamente ho letto delle bellissime preghiere, messe in bocca a preti anziani, per chiedere a Dio saggezza, serenità, coraggio, equilibrio e comprensione, alcune delle quali ho pubblicato nel mensile “Sole sul nuovo giorno” e me le rileggo con gaudio interiore e profitto. Ho pure letto qualche articolo, però ben poca cosa in rapporto alle problematiche che interessano la terza e la quarta età.

La tecnica ha inventato protesi di ogni genere per le carenze fisiche: occhiali per la vista, protesi per i denti, auricolari per l’udito, deambulatori per le gambe, pace makers per il cuore, stimolanti per altri organi, ma per quello che riguarda le patologie psicofisiche, o meglio esistenziali degli anziani, mi pare che la cultura… sia piuttosto carente e quanto mai indietro.

Io mi sto muovendo a tentoni, talvolta goffo e talvolta maldestro, in queste sabbie mobili degli ultimi tempi, delle quali non ho conoscenza. Penso sia opportuno offrire la mia testimonianza sperando di essere utile, o perlomeno donare qualche elemento di confronto per la gente della mia età, ma di certo non mi avventuro neppure di un millimetro nel campo della tecnica. Sono assolutamente rassegnato, ho abbandonato le mie armi di fronte al computer e a tutte le diavolerie connesse ad Internet. La conquista più avanzata è stata quella del telefonino, però l’unica operazione che conosco è quella di telefonare, meno però quella di ricevere tutte le telefonate.

Vorrei invece fare qualche confidenza ai miei coetanei per quanto riguarda l’impresa dei Centri don Vecchi. So bene che sono l’unico a Mestre ad averla fatta, ma sono certo che pure altre persone di altre città ne hanno fatto di simili. Ho avuto un’intuizione circa la domiciliarietà dell’anziano, ho sviluppato l’idea con l’aiuto di tanti altri concittadini e ne è venuta fuori una bella cosa (almeno io ne sono convinto, ma ne ho avuto il conforto di molti altri).

I primi quattro Centri sono nati “a mia immagine e somiglianza”; mi sono arrabattato, ho spinto, sono sceso a qualche compromesso, però sono quelli che ho sognato. Per quanto riguarda il quinto, quello degli Arzeroni, le cose sono andate un po’ diversamente; ho di certo tentato di dare il mio contributo, ma la forma non è la mia, ma di altri.

Sto avvertendo quanto mi costa voler collaborare, pur cosciente di essere superato, di non dover premere più di tanto, di dovermi fidare dell’intelligenza e delle scelte altrui.

Passare da protagonisti a osservatori benevoli e positivi, m’è costata la fatica di Sisifo.