Alla ricerca di un terreno per i nostri anziani

Nota della Redazione: questo articolo risale a fine gennaio. Fra quel tempo e oggi abbiamo visto il netto rifiuto di un quartiere di Mestre e il reperimento di un’area anche migliore.

L’assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, in un incontro avuto al “don Vecchi”, ha lanciato la proposta di un “don Vecchi avanzato” per gli anziani in perdita di autonomia. La Regione darebbe un valido supporto al progetto con la concessione di un mutuo a tasso zero rimborsabile in 25 anni e con la promessa di un modesto contributo per fornire la cura della persona e dell’ambiente destinati ad anziani pur fragili, ma che possono vivere ancora una vita normale. Questi anziani non sarebbero così costretti alla “condanna” del ricovero in casa di riposo, dovendo anche pagare, come i condannati a morte in Cina, la pallottola con la quale sono soppressi (dove però, al posto del costo modesto di una pallottola pagherebbero quello ben più salato della retta mensile).

A sentire l’assessore della Regione, il procedimento doveva essere facile e veloce, probabilmente neppure lui conosceva bene il percorso di guerra a cui bisognava sottostare. La burocrazia italiana, alla quale si aggiunse quella europea, perché il “fondo di rotazione” che consente suddetto mutuo proviene da una fonte della Cee, ha preteso il suo costo in pratiche burocratiche. Comunque siamo giunti ad un esito positivo.

Ora però l’inghippo è rappresentato dall’infinita inerzia ed indecisione dell’amministrazione del nostro Comune, perché la superficie che la Fondazione dispone a Campalto è subordinata al passaggio della via Orlanda bis.

L’amministrazione ci ha proposto quindi una superficie alternativa, ma ha paura della scontata reazione dei soliti comitati o dei soliti protestatari che chiedono tanto, ma non sono disposti a dar nulla.

Io sono sempre irritato quando gli amministratori non sanno assumersi le proprie responsabilità e si lasciano condizionare dagli arroganti, dagli stupidi, dagli egoisti, dall’opinione pubblica. Comunque, essendo convinto che sarebbe un autentico sacrilegio e un peccato che grida vendetta a Dio se il Comune soltanto per pavidità non approfittasse di questa opportunità tanto favorevole, qualora non intervenisse in maniera tempestiva nel mettere a disposizione una superficie, “sparerò” a zero non solo sul mucchio, ma con un”fucile di precisione” sui responsabili ben identificabili, che hanno un nome e un cognome e che, per scelta spontanea, si sono offerti a perseguire il bene della città.

Anziani e parrocchie, un rapporto non sempre facile

Il mio osservatorio, i miei monitoraggi e le mie inchieste sulla fede sono elementari sia dal punto di vista scientifico che da quello numerico. Non pretendo perciò che i miei dati siano significativi per l’opinione pubblica, essi però hanno certamente una profonda ripercussione sulla mia coscienza e sulla mia sensibilità di sacerdote.

Ho ribadito tante volte che, data la mia età e dato il mio ministero sacerdotale specifico, ora mi occupo quasi esclusivamente degli anziani e del fine vita.

Sono arrivato alla triste conclusione che non è come credevo, che gli anziani fossero ancora il grande e provvidenziale serbatoio che custodisce la fede e i grandi valori cristiani. Constato che c’è una grossa fetta di anziani che non potendo più praticare la chiesa e non avendo più alcun rapporto con la propria comunità cristiana geografica, finisce per entrare in una specie di letargo religioso che paralizza ogni espressione di fede.

Nel colloquio che tento sempre di premettere alla funzione di commiato, col quale cerco di informarmi sui lati positivi della vita del defunto, sulla testimonianza specifica di ogni creatura che può diventare dono ed eredità per chi rimane, non manco mai di fare una domanda sulla fede e sulla pratica cristiana del defunto. A questa domanda mi sento tanto spesso ripetere che lui o lei molto probabilmente era un credente, quasi mai un praticante, o per impossibilità o per scelta.

Quando poi mi spingo più in là per chiedere se il parroco lo conosceva, lo visitava o gli portava la consolazione cristiana, quasi mai mi si dice che il parroco era a conoscenza della infermità e, meno ancora, che visitasse il vecchio o l’infermo. Pare pure che i nuovi ministri della pastorale, quali i diaconi, gli accoliti, associazioni o movimenti di spirituali o di ricerche religiose, si interessino ben poco e raggiungano ancor meno questa falda di battezzati che quasi mai conclude la vita terrena – come si diceva un tempo – “muniti dei conforti religiosi”.

La presenza nel territorio della pastorale parrocchiale mi pare pressoché nulla. Non voglio, ancora una volta, ripresentare i miei tentativi a questo riguardo, ma mi pare che sia quanto mai urgente e necessario approntare delle iniziative pastorali che non s’accontentino dei praticanti, ma che puntino ad avere relazioni anche con chi non può o non ci pensa a frequentare la chiesa.

L’Europa, l’Italia, il Comune…

Anche quando uscirà questa pagina del mio povero diario spero che le cose delle quali ho pieno il cuore, e che mi preoccupano alquanto, siano felicemente risolte.

Ho osservato il silenzio perché ora non porto più la responsabilità della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ritengo giusto che chi è al timone scelga la rotta e le modalità di condurla e che chi vi collabora non lo intralci, anzi favorisca in ogni modo il suo modo di raggiungere lo scopo. Ho poi grande fiducia e grande rispetto per il giovane “capitano” e perciò spero proprio che ci porti alla meta.

Grazie a Dio siamo riusciti, pur con qualche difficoltà, ad ottenere il finanziamento per il “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia. L’assessore Sernagiotto ha ottenuto un fondo di rotazione di cui a noi sono stati destinati quasi tre milioni di euro, da restituire in 25 anni a tasso zero.

Sarà di certo un percorso di guerra quello di incassare concretamente la somma, perché alla burocrazia italiana dovremo sottostare; in questo nostro caso si è aggiunta quella europea.

Comunque, disponendo di collaboratori ormai abituati a percorrere gli itinerari tortuosi ed assurdi della burocrazia, credo che da questo lato ce la faremo. Mentre le difficoltà insorgono a causa del nostro Comune. La fruibilità di un terreno che la Fondazione possiede a Campalto è condizionata dal fatto che il Comune decida di fare o non fare la via Orlanda bis.

Il nostro Comune, anche in questo settore, si rifà al comportamento dell’asino di Buridano, che non riesce a scegliere. Allora ci ha ventilato, in alternativa, un’altra soluzione, ma anche per questa sta manifestando indecisione.

Intanto il tempo passa ed aumenta il rischio di perdere questa insperata e splendida opportunità. Oggi è in gioco il domani e la serenità di un’altra ottantina di anziani poveri e per di più alquanto acciaccati.

Io sarei stato per lo scontro frontale, per l’assalto mediatico all’arma bianca. Avrei portato alla sbarra dell’opinione pubblica l’indecisione e l’ambiguità di certi personaggi che tengono banco nella giunta comunale di Venezia. Appartengo infatti alla categoria del piccolo David che ha fiducia nella sua fionda e nei ciottoli del torrente, piuttosto nell’armatura pesante della diplomazia.

Spero, una volta tanto, di aver torto e che il guanto di velluto del nuovo Consiglio di amministrazione raggiunga lo scopo senza ferite e “spargimento di sangue”. Sarò quindi ben felice se la Fondazione otterrà, prima della scadenza del tempo, la superficie alternativa a quella che abbiamo indicato alla Regione. Se così non avvenisse, “non ci saranno santi che tengano”: attaccherò con ogni mezzo chi si è offerto di governarci e ora non ha più coraggio di farlo.

Il Don Vecchi 5 è una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana

E’ arrivato il finanziamento della Regione per realizzare il nuovo Centro “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia fisica. Ora possiamo sperare di riuscire a far vivere in maniera autonoma anche gli anziani, che pur avendo ancora la testa a posto, hanno bisogno di più di un supporto per godere ancora della loro autonomia decisionale e “da persone” fino all’ultimo respiro.

La stampa locale sta dando molta evidenza a questo fatto e credo che abbia ragione perché si tratta di “un fatto epocale” che finalmente difende la libertà e l’autonomia dell’anziano, lo rende libero da dipendenze burocratiche, da un lato, e dall’altro gli permette di non pesare sui figli, che in questo momento di crisi hanno essi stessi molto da faticare per arrivare alla fine del mese.

Nello stesso tempo permette all’ente pubblico di non dissanguarsi per dover affrontare rette pesantissime ed impossibili con l’aumento esponenziale della popolazione anziana e la diminuzione della forza lavoro che si sobbarchi questo peso economico.

A questo riguardo sento il bisogno di precisare qualche aspetto che potrebbe essere frainteso. La Regione non ci regala nulla; ha costituito un fondo di rotazione col quale possiamo affrontare il costo della struttura, ma dovremo restituire fino all’ultimo millesimo ciò che ci viene anticipato.

Al Comune abbiamo chiesto “il diritto di superficie” per costruire la struttura. Neanche questo ente ci darà niente per niente: pagheremo questo diritto di superficie pur alleggerendo l’onere del Comune di pagare delle rette veramente salate alle case di riposo per non autosufficienti.

Da noi i futuri residenti pagheranno solamente i costi condominiali e le utenze e chi avesse un reddito abbastanza consistente darà un contributo di solidarietà per chi ha la pensione minima. Tutto ciò si chiama, ed è, solidarietà. Molti lo daranno volentieri questo contributo mentre gli avidi e gli egoisti invece lo dovranno fare perché questo è giusto.

Se il Comune sarà sollecito ed intelligente quanto la Regione, al massimo entro due anni la nostra città potrà disporre di quasi quattrocento alloggi per anziani poveri e questo non è poco.

Voglio precisare altre due cose che reputo importanti: le nostre strutture sono e saranno, oltre che comode, anche signorili, perché siamo convinti che “i poveri sono i nostri padroni”! Secondo: questa operazione la consideriamo una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana, poiché vogliamo che non si rifaccia a criteri di beneficenza e di filantropia. Stiamo facendo tutto questo solamente “perché Dio lo vuole!”.

Il Don Vecchi di Campalto è nato senza l’aiuto dalle istituzioni ma dal cuore della gente comune!

Il “don Vecchi” di Campalto è stato finito anche nei minimi particolari. Il 15 ottobre l’abbiamo inaugurato in maniera solenne davanti a cinque-seicento persone che sono sopravvissute ad un vento di bora che tirava glaciale, pur di vedere “il miracolo” sbocciato, come per incanto, sulla gronda della laguna.

All’inaugurazione ha partecipato la più bella gente di Mestre e dintorni, in un clima di entusiasmo e di ammirazione. C’era ben donde essere entusiasti di fronte ad un complesso di 64 alloggi, con servizi di prim’ordine, luoghi ampi e ben arredati, con lo scoperto vasto e già seminato e verde, con piante ed arbusti in fiore, pannelli solari e fotovoltaici già funzionanti.

Dalle autorità presenti non abbiamo avuto sostegni economici di nessun genere, ma noi, gente alla buona, ci siamo accontentati anche del dono dei loro complimenti e dell’invito ad andare avanti.

Questo miracolo è stato concepito, voluto e cresciuto nel cuore della povera gente, nonostante la crisi economica e i prelievi fiscali, il crollo delle borse e il dramma di Berlusconi che, col cuore sanguinante, ha dovuto mettere le mani nelle tasche dei poveri e che per darci il permesso a costruire questa struttura per gli anziani più poveri della città, per questo “lusso” che ci siamo presi, ha preteso il 21% del costo, ossia seicentocinquantamila euro – un miliardo e trecento milioni delle vecchie lire! Questa è l’Italietta per la quale più di un migliaio di parlamentari si danno da fare onde garantire serenità e sviluppo per i più poveri.

Credo che sia davvero doveroso da parte mia informare i miei concittadini su come le istituzioni hanno concorso per il “don Vecchi” di Campalto. Ebbene, ve lo faccio sapere chiaramente: tra la Regione Veneto, la Provincia, il Comune di Venezia, la Fondazione Carive della Cassa di Risparmio, l’Associazione Industriali, la Camera di Commercio, la Banca Antoniana, la Cassa di Risparmio di Venezia, solamente il Banco San Marco ha elargito 1000 (diconsi mille) euro, gli altri zero!

Sono quasi costretto a concludere che la crisi ha colpito solamente i ricchi ed ha risparmiato i poveri. Per fortuna!

Il concepimento del don Vecchi e quella bistecca fiorentina…

L’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto e le promesse per il “don Vecchi” quinto, ossia quello che stiamo progettando con la Regione e che dovrebbe rappresentare un ulteriore passo in avanti, cioè il tentativo di mantenere nel proprio domicilio anche gli anziani che stanno perdendo decisamente l’autonomia a livello fisico, mi ha portato in questi ultimi tempi a ricordi ormai lontani.

Una ventina di anni fa, stavo faticosamente mettendo a fuoco nella mia mente il progetto che doveva permettere all’anziano di non essere costretto al ricovero in un ospizio, o alla amarezza di dover mendicare dai figli denari per sopravvivere o essere condannato alla solitudine in condomìni anonimi. Sennonché lessi con curiosità su “Famiglia Cristiana” che a Lastra a Signa, presso Firenze, avevano trasformato una casa di riposo in una specie di condominio per anziani.

Convinsi l’architetto Renzo Chinellato, che a quel tempo tentava di tradurre in un progetto le mie fantasticherie, ad andare nella lontana Toscana per vedere come stavano le cose. Scoprimmo il prototipo, in verità assai rozzo, anche perché risentiva di un adattamento, ma l’idea c’era tutta. Soprattutto mi accorsi che i residenti avevano un volto più sereno di quello di tutti gli ospiti delle case di riposo che avevo visti fino ad allora.

Il prototipo fu perfezionato, ingentilito, reso signorile a livello abitativo e più accessibile a livello economico e ne venne fuori il “don Vecchi” che risultava quale una “mercedes” in confronto alla “Balilla” di Lastra a Signa.

Il ricordo mi rimase però nel cuore come un’esperienza bella e positiva, suppongo anche per il fatto che l’architetto mi offrì il pranzo in una locanda di campagna in cui mangiammo pasta e fagioli e la bistecca fiorentina. Mi par di sentire ancora il profumo del braciere in cui danzavano le fiamme di legna dei boschi toscani e il gusto ineguagliabile di quel ben di Dio che è la bistecca di Firenze! Ne mangiai mezza, ma me ne sarebbe bastata un quarto per saziarmi e per sentire quanto era buona. La festa per il concepimento del “don Vecchi” non poteva essere più affascinante.

Tornammo a casa entusiasti, quasi illusi che nel “don Vecchi” ci sarebbe stato un caminetto con una enorme bistecca a rosolare sulla graticola. In realtà oggi ci dobbiamo adattare al menù del Catering Serenissima, ristorazione nella quale non è prevista la bistecca fiorentina!

Il don Vecchi, isola felice per tanti anziani

Vivere è faticoso per tutti, ma ancor più per gli anziani. Ben ha fatto la società civile a mandare in pensione uomini e donne a 65 anni; non so se proprio facciano bene ad innalzare l’età della pensione, come pare che i nostri governanti vogliano fare. Di certo impegnando gli anziani domandano loro uno sforzo ed una fatica supplementare, non perché il loro lavoro domandi più fatica e più intelligenza, ma perché l’anziano è più vulnerabile ed ha meno risorse.

Mio padre, che è morto a 83 anni (la mia età attuale) mentre si accingeva ad entrare anche quel giorno, come aveva fatto per tutta la vita, nella sua bottega di falegname, mi ha ripetuto più volte: «Ricordati, Armando, che noi anziani basta poco per metterci in crisi e fortunatamente basta ugualmente poco per sentirsi rasserenati». Io ho capito, magari tardi, questa verità, spero che i nostri giovani la capiscano presto, rendendo così più serena la vita della moltitudine dei membri della terza età.

Al “don Vecchi” mi pare venga data risposta positiva a questa esigenza; la gran parte dei residenti si impegna a tener ordinata la propria persona e il proprio alloggio e tutto questo riempie quasi l’intera giornata, anzi moltissimi avvertono il bisogno di qualche aiuto esterno. C’è invece un gruppo di loro che, beneficiando di una buona salute o, più spesso, abituati da una vita ad essere impegnati e a non far spazio all’ozio, si impegnano in lavori marginali, ma quanto mai utili: seguire i fiori, annaffiare le piante, dare una mano al bar o in cucina, prestare servizio presso i magazzini gestiti dai volontari, distribuire la posta, chiudere ed aprire al mattino e alla sera le porte e fare qualche altro lavoretto non troppo impegnativo.

Credo che il “don Vecchi” sia una risposta ideale alla fragilità dell’anziano; la cordialità che si respira al Centro è un elemento rasserenante, e il poter contare sulla disponibilità dei responsabili sempre pronti a fare da supporto e talvolta da supplenza ad eventi fuori dal ritmo quotidiano, offre ulteriore tranquillità.

Ora poi la scelta veramente saggia e generosa del Comune, che garantisce una presenza ed una vigilanza anche di notte, ed un piccolo aiuto a chi non ha mezzi per pagarsi una assistente familiare, pure se a “part time”, credo aggiunga benessere e serenità ulteriore. Credo che valga proprio la pena di impegnarsi perché il “don Vecchi” rappresenti “l’isola felice” per tanti anziani in disagio e sia veramente una risposta alla fragilità e l’insicurezza di tanti nonni che non possono godere del calore e della protezione della loro famiglia naturale.

Profumo di fraternità

Recentemente mi sono recato al “don Vecchi” di Marghera per informare i residenti che i due volontari che quattro anni fa si sono assunti la responsabilità di gestire il Centro, lo hanno avviato e seguito fino ad oggi, se ne andavano da Marghera per aprire il nuovo Centro e far nascere la nuova comunità di Campalto.

Lino e Stefano in questi quattro anni hanno donato il loro tempo e le loro energie perché il “don Vecchi” di Marghera crescesse in un clima di fraternità e in un ambiente signorile e sereno. Ora che stanno raccogliendo i frutti dell’impegno non facile di far convivere persone provenienti da ambienti e da esperienze le più diverse, e non tutte facili, hanno sentito il dovere di rendersi disponibili per aprire la nuova comunità di Campalto. Senza batter ciglio e pretendere riconoscimenti di sorta hanno fatto fagotto e sono partiti verso una realtà che ora assomiglia più ad un cantiere che ad una convivenza per anziani. Non ci saranno né fanfara, né sindaco, né Patriarca a riconoscere i loro meriti, devono accontentarsi del grazie di questo povero vecchio prete che non cessa di sognare la Terra Promessa. Essi lasciano una dimora avviata per sobbarcarsi l’impegno di dar vita ad una comunità di cui, per ora, ci sono solo i muri; impegno certamente arduo!

Nel contempo essi hanno preparato, a sostituirli, una coppia di sposi, Teresa e Luciano ai quali ho chiesto di diventare padre e madre della grande famiglia di soli nonni che ha dimora presso la chiesa dei Santi Francesco e Chiara di Marghera. Neanche per queste due care persone ci saranno mandati ufficiali, contratti per remunerazioni adeguate, ma solo l’onore di poter servire anziani, vecchi genitori dei quali molto spesso i figli non si sono fatti carico.

In questo passaggio di consegne senza difficoltà s’è respirato solamente profumo di fraternità, sogno di un mondo nuovo, desiderio di far felici gli infelici.

Il tutto si è svolto in un ambiente quasi incantato, prato verde rasato come un tappeto, pavimenti lucidi, quadri alle pareti, silenzio e buon gusto. Me ne sono tornato a casa con la sensazione che il “Regno” di cui Cristo parla di frequente nel Vangelo sia del tutto simile, se non uguale, a quello che già esiste in via Carrara 10 a Marghera, accanto alla Chiesa dei Santi Francesco e Chiara.

Devo imparare a lasciarmi trasportare fiducioso dalla misericordia del Signore!

Renzo Tramaglino, il famosissimo personaggio dei “Promessi sposi”, impegolato fino al collo in eventi più grandi di lui, pur essendo un sempliciotto, constatando come lassù ci sia Qualcuno che manovra i fili, non soltanto della grande storia, ma anche di quella piccola intessuta dalle banalità del quotidiano, ha avuto la sapienza di concludere “La c’è la Provvidenza!” quando, attraversato l’Adda, mise piede nel terreno sicuro della Serenissima. Meglio sarebbe dire che la fede di Manzoni sapeva leggere nella trama complicata, e spesso aggrovigliata, degli avvenimenti, che spesso sembrano assurdi, ingiusti e crudeli, una regia saggia e generosa che pian piano sbroglia la matassa ed apre sentieri fin poco prima sconosciuti. Così è capitato anche a me, che sono un povero diavolo indifeso e sempliciotto quanto il promesso sposo di Lucia.

La Regione, ch’era rimasta assolutamente sorda alle richieste d’aiuto, in modo insperato s’è offerta di finanziare un progetto pilota per gli anziani in perdita di autonomia. Nonostante questa Provvidenza mi rimaneva scoperto il tassello essenziale: reperire un terreno per dar vita a questa nuova struttura provvidenziale. Non sapevo più da che parte girarmi, sennonché l’ANAS, improvvisamente ed inaspettatamente, ha comunicato al Comune di Venezia di dover rinunciare alla nuova bretella che doveva costruire parallela a via Orlanda. Tutto questo mi potrebbe rendere fortunatamente disponibile cinquemila metri di proprietà della Fondazione, sui quali possiamo tranquillamente costruire la struttura pilota.

Stesso discorso dicasi per i magazzini della solidarietà. Il Patriarca ha ripreso in mano l’iniziativa e con un colpo di reni ha organizzato una “cordata” di piccoli imprenditori del privato sociale reperendo la somma necessaria per costruire i magazzini.

In una mezza giornata la Provvidenza ha messo assieme una serie di tasselli sufficienti per dar volto al mosaico di queste realtà solidali che fino al giorno prima ritenevo inimmaginabili.

Non ho ancora imparato ad abbandonarmi alla sapienza e all’onnipotenza del buon Dio! Spero che almeno prima di morire imparerò finalmente a rimanere a galla “facendo il morto”, ossia lasciandomi portare dall’onda del mare della misericordia del Signore.

Un doveroso ringraziamento al prof. Sandro Simionato

Finalmente una buona notizia dal Comune! Qualche giorno fa un funzionario della pubblica amministrazione, che si occupa degli anziani e dei disabili, ci ha telefonato per informarci che nel bilancio approvato il 30 giugno, – l’ultimo giorno utile – il Consiglio Comunale, nel budget inerente al comparto della sicurezza sociale, è stata approvata la proposta di un finanziamento per l’assistenza notturna agli anziani che vivono nei trecento alloggi dei Centri “don Vecchi”, messi a disposizione dalla Fondazione Carpinetum.

Mai nella mia vita ho seguito con maggior attenzione e trepidazione le travagliate vicende inerenti, quest’anno, all’approvazione bilancio della pubblica amministrazione del Comune di Venezia. Ogni giorno leggevo con apprensione le notizie che apparivano sulla stampa locale concernenti i sempre nuovi “tagli” imposti dalla crisi finanziaria che investe l’intero Paese. La “coperta” era ed è veramente corta, per cui cultura, sport, servizi scolastici e tutti gli altri che dovrebbero godere della magra disponibilità finanziaria della pubblica amministrazione di Venezia, tiravano dalla loro parte, lasciando fatalmente scoperte altre parti.

Non avendo la Fondazione “santoli che contano” all’interno del Consiglio Comunale, temevo che proprio la realtà degli anziani residenti al “don Vecchi”, sarebbe rimasta allo scoperto. Invece no! Non so quale “santo” debba ringraziare, comunque ora avremo al “don Vecchi” un portierato sociale durante il giorno e pure degli addetti all’assistenza anche per la notte.

Nel numero consistente di anziani, quali sono quelli residenti al “don Vecchi”, anziani che superano poi tutti ed abbondantemente, gli ottant’anni, i malori notturni sono quanto mai frequenti, tanto che il 118 è di casa al nostro Centro.

Di certo dovrò “accendere una candela” alla dottoressa Francesca Corsi, che da sempre ha perorato la causa degli alloggi protetti in genere e in particolare di quelli del “don Vecchi”, ma un “moccolo” lo accendo pure volentieri all’assessore alle politiche sociali, prof. Sandro Simionato, che spesso è stato oggetto dei miei strali. Ora però, in questa situazione difficile, se non tragica, del bilancio comunale, l’esser stato capace di destinare nuovo denaro ad una voce per l’assistenza notturna, è certamente un merito ed io ritengo doveroso rendere onore a questo merito, seppur parziale e tardivo.

Il don Vecchi 4 nasce grazie a tanti gesti d’amore dei semplici

Era nei progetti che fra un paio di mesi – e precisamente alle ore 11 dell’8 ottobre, il Patriarca, cardinale Scola, avrebbe benedetto ed inaugurato il “don Vecchi” di Campalto – altri 64 alloggi per anziani poveri costruiti secondo la formula innovativa e vincente degli alloggi protetti.

Le cose però non andranno così perché a quel tempo il Cardinale sarà già a Milano. Il centro di Campalto si inaugurerà comunque: la benedizione del nostro vecchio patriarca Marco Cè o del giovane vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, o comunque di monsignor Bonini o del neo monsignor Danilo Barlese, penso sia altrettanto efficace perché i nostri anziani si trovino bene nel nuovo Centro e vivano una vecchiaia serena.

Spesso in queste mie “confidenze”, ho parlato dei guai, degli ostacoli e delle difficoltà incontrate in questo ultimo paio d’anni in cui è compendiata la storia della nuova struttura. Io sono abituato a giocare allo scoperto e a parlare apertamente ai miei concittadini che considero da sempre miei compagni in questa avventura; non vorrei perciò che essi pensassero che io abbia incontrato solamente spine in questo percorso, perché in verità questa storia è stata una bella storia in cui non sono mancate “le rose”; anzi dovrei dire che in questo tempo il sogno è diventato un autentico roseto.

Voglio solamente accennare a qualche “sorpresa” bella, anzi affascinante, colta durante questo percorso. Da quella dello scultore veneziano Enrico Camastri, che ci ha offerto “La Madonna dell’accoglienza”, un altorilievo di due metri per uno in terracotta – impresa quasi leggendaria per uno scultore – alla signora dottoressa Elena Vendrame, mai vista e mai conosciuta, che ci ha regalato cinquantamila euro, alla nonna Rossi di Marghera, che ci ha lasciato un’eredità del valore di quasi mezzo milione di euro, al signor Mario Tonello di Mirano, che ci ha donato il suo appartamento, alla signora Amelia Conte che ci ha fatto un lascito di ventimila euro, all’Associazione “Carpenedo solidale” che ci ha messo da parte mobili pregiati da arredare un castello, all’altra associazione di volontariato “Vestire gli ignudi” che ci ha donato un finanziamento così consistente da portarci fuori dalle preoccupazioni e dai guai.

Accanto a queste “rose” così straordinarie ed esemplari, c’è stata poi un’infinità di “roselline” più modeste ma altrettanto belle e profumate: dalla pioggerella continua di offerte che da mesi continua a cadere dolce come quella “di marzo” del poeta della nostra infanzia, alla signora che s’è tolta i denti d’oro e ci ha mandato l’equivalente (100 euro per Campalto), alla giovane collaboratrice dal cuore d’oro e dalle mani prestigiose che sta restaurando, con una incredibile maestria, i vecchi lampadari che impreziosiranno la nuova struttura.

E’ stato un ininterrotto succedersi di gesti cari e gentili con i quali la città ha dato volto bello e cuore caldo alla nuova dimora per i nostri nonni.

Gli angeli di Mestre

Tanti anni fa, certamente più di mezzo secolo fa, ho letto un bel romanzo di Cronin, lo scrittore inglese dal racconto scorrevole e persuasivo, autore di “Anni verdi”, “La cittadella”, “Le chiavi del Regno”, “Le stelle stanno a guardare”, “L’albero di Giuda” ed altri dei quali non ricordo più il titolo.

Uno di questi romanzi aveva come titolo “Angeli nella notte” e raccontava il servizio generoso e caro che le infermiere svolgevano durante il giorno e soprattutto di notte negli ospedali. Durante la notte insonne degli ammalati, di frequente questi “angeli” vestiti di bianco s’accostavano per confortare, sorridere ed aiutare e portare la dolce e calda umanità dei loro cuori di donna.

Quante volte ho sperimentato personalmente, durante i miei numerosi ricoveri, la dolcezza e il conforto di queste care creature, sempre pazienti, pronte e disponibili, e quante volte ho ringraziato il buon Dio per questi “angeli della notte”!

In questo tempo di forzato “riposo”, dovuto alla mia caduta rovinosa, ho pensato che a questo mondo sono ancora numerose e provvidenziali queste creature senza nome che svolgono il loro servizio silenzioso in tutti i settori della nostra società.

Ad ottobre inaugureremo il “don Vecchi” di Campalto, io non posso permettermi la prodigalità del dottor Padovan della ULSS, il quale ha diviso un milione tra i dipendenti che hanno trasferito l’Umberto 1° nell’Ospedale dell’Angelo, però un segno lo voglio dare a quegli angeli ignoti della città che m’hanno offerto un aiuto determinante per la realizzazione della nuova struttura. Offrirò loro le “chiavi” della “città degli anziani”. Ho già provato le chiavi e preparato la pergamena con le motivazioni. Ho cominciato a buttar giù la lista dei nomi e subito mi sono accorto che questi “angeli” sono una “legione”. Sono costretto a fare una scelta come ha fatto l’italia dopo la grande guerra portando nell’Altare della Patria “il Milite ignoto”. Ma voglio che si sappia fin d’ora, se consegnerò fisicamente le chiavi ad una ventina di concittadini, che il mio gesto vuol manifestare riconoscenza ed amore a quella moltitudine – veramente una moltitudine – di persone che m’hanno aiutato a realizzare questo nuovo “miracolo” del costo di sette miliardi di vecchie lire.

Ogni persona a cui il Patriarca consegnerà le chiavi della “città degli anziani”, rappresenterà un numero sconfinato di altri cittadini che hanno operato per la realizzazione di quest’opera a favore dei nostri vecchi. Come mi commuove, mi fa felice il pensiero che Mestre possa contare ancora su questo popolo di “angeli” che fanno da contrappeso all’egoismo, all’indifferenza, alla furbizia di qualcuno che pensa solamente a se stesso e ai propri vantaggi.

Quella caduta mi ha aperto gli occhi

I nostri vecchi, giustamente, ci hanno insegnato che ogni esperienza umana ha due facce, come ogni medaglia. Noi cogliamo per prima e di più la facciata che ci tocca più direttamente nella nostra sensibilità e siamo spesso tentati di trascurare l’altra facciata, quella in penombra, che consideriamo meno interessante, che però è parte integrante ed inscindibile della facciata più appariscente.

Tantissime volte la gente del quartiere, pensando che nel convento di clausura di via san Donà vivesse un folto gruppo di giovani donne chiuse nel loro chiostro ed intente solamente alla preghiera, mi facevano osservare: “Perché queste religiose, invece di starsene tutte chiuse nel loro convento salmodiando da mane a sera, non accudiscono agli ammalati, non si dedicano ad educare i bambini e a soccorrere i poveri?”

Confesso che queste osservazioni facevano un po’ di breccia anche nella mia coscienza. Io non sono mai stato un grande ammiratore delle mura, delle grate, delle tonacone delle suore, le figlie predilette di Dio. Le ho sempre sognate belle, luminose, giovani, avvenenti, operose e piene di entusiasmo. Capisco però che neanche le suore possono fermare l’orologio e il calendario del tempo!

Un giorno in cui con delicatezza riportavo questi discorsi alla priora del convento, ella gentilmente mi fece osservare che loro tentavano di testimoniare la facciata in penombra della medaglia della vita: il bisogno dell’uomo di stare in silenzio, di riflettere, di rapportarsi con l’assoluto. Capii che le monache di clausura non avevano tutti i torti nel fare quello che stavano facendo.

In questi ultimi tempi, in cui mi sono trovato imprigionato in un busto metallico per tenere in asse le due vertebre che mi sono rotte per una rovinosa ed inspiegabile caduta, di frequente ho pensato al discorso delle due facce della medaglia fattomi dalla suora di clausura.

Il primo pensiero è certamente banale e fanciullesco: “come facevano i soldati di ventura del Medioevo a rinchiudersi in quelle pesanti armature e a battersi pure col nemico usando degli spadoni quanto mai pesanti?” Questa però, convengo, è un’osservazione banale dell’altra facciata della medaglia offertami dalla mia caduta e dalla relativa prescrizione medica di portare il busto.

Però ben presto s’affacciò alla mia coscienza un’altra lettura che mi ha fatto pensare e perfino concludere che il mio guaio non è stato del tutto insignificante: “O felice caduta, che mi ha aperto gli occhi su una realtà che mi tocca da vicino”.

Al “don Vecchi” siamo circa 250 anziani con l’età media di 86 anni e le cadute e le relative rotture del femore sono all’ordine del giorno. Allora, osservando la seconda facciata della mia dolorosa caduta, mi sto chiedendo ogni momento: “come fanno i miei coetanei che sono soli, che non hanno soldi, ad affrontare i guai come il mio o peggio del mio?”. Soltanto quando si è “come loro” si può capire.

Conclusione: ho ringraziato il Signore della caduta perché mi ha aperto gli occhi ed ho fatto il proposito che mi impegnerò fino allo spasimo perché quando dovesse capitare ad un povero vecchio di avere questa amara esperienza abbia almeno a fianco chi gli dia una mano.

Il mio impegno solidale è la mia preghiera

So in partenza che non riuscirò a passare all’opinione pubblica le motivazioni profonde che supportano il mio impegno a creare strutture e servizi per i poveri in generale e, in particolare per gli anziani indigenti. So pure che farò ben fatica a farmi comprendere anche dai cristiani praticanti e perfino dai miei colleghi sacerdoti. I giudizi in proposito che avverto nell’aria sono disparati, ma nessuno corrisponde alla realtà.

Qualcuno, in maniera sbrigativa, pensa che abbia “il male della pietra” e perciò costruisca strutture solamente per questo istinto, indipendentemente da ogni motivazione razionale. Qualche altro, con giudizio più severo, crede che io abbia la mania del protagonismo e perciò i “don Vecchi” siano nati per procurarmi gloria certa. Infine talaltro, più benevolo, approva l’operato pensando che io faccia un’azione di supplenza a quello che dovrebbe fare la pubblica amministrazione o, nella migliore delle ipotesi, che io intenda far da stimolo e da apripista alla società che tarda a farsi carico degli anziani e dei poveri in genere.

Può darsi che la mela che offro alla povera gente e alla mia città abbia nel suo interno qualche vermiciattolo del genere, però io non lo conosco e soprattutto non lo voglio.

Una volta per tutte voglio dichiarare pubblicamente che il mio impegno nel campo della carità cristiana o semplicemente della solidarietà, è per me una espressione coerente alla mia fede, un atto di culto a Dio, come potrebbe essere la celebrazione liturgica, quale una messa bassa o un pontificale. Il mio impegno solidale è semplicemente la mia preghiera e il culto che intendo rendere a Dio come altri preti fanno con la catechesi, la visita agli ammalati o la costruzione di una chiesa.

Qualche anno fa scrissi a proposito di un mio confratello che aveva promosso nella sua chiesa l’adorazione perpetua, che io preferivo invece onorare il Cristo non sotto le specie eucaristiche, ma sotto le “specie umane”, espresse dal povero, dal vecchio o semplicemente da chi ha bisogno, perché ho fatto la mia scelta in rapporto al discorso di Gesù: “Avevo fame, avevo sete, ero nudo, senza casa, in prigione ed in ospedale e tu m’hai o non mi hai dato aiuto”.

A me pareva che la mia scelta fosse coerente, pur nulla togliendo a chi sceglie di onorare Cristo sotto le specie del Pane consacrato.

Il mio confratello non mi comprese o io non mi sono spiegato, per cui sembrò che io criticassi la sua scelta, pur rimanendo vero che ero più convinto della validità della mia.

Per me dare serenità ed aiuto ai poveri, mediante qualsiasi soluzione, corrisponde all’adorazione, alla celebrazione dei sacramenti, alla catechesi o all’azione di evangelizzazione o a quella missionaria. Spero di non sbagliare, anche perché la mia scelta è ben più faticosa di quella di chi sceglie diversamente. Mi conforta però che l’opinione pubblica in genere comprende e favorisce più me che gli altri.

La proposta che non farò

Ci sono certi eventi che producono nella mia sensibilità umana un impatto così forte da non essere capace di smaltirlo in poco tempo, anche perché ritengo doveroso tenermi nel cuore questa benefica sofferenza.

Ricordo di aver sentito di una certa querelle sorta tra gli alti ranghi del nostro Paese per il fatto che il presidente Napolitano insisteva con decisione per uno stanziamento consistente per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia – e la sfilata delle forze armate fu certamente un elemento clou di questa celebrazione.

Il presidente Napolitano è arrivato un po’ tardi all’amor di Patria perché nel suo passato le sue simpatie erano rivolte altrove, ma ora pare convinto quanto mai perché l’ho visto impettito e commosso di fronte al grande spettacolo di cinquemila soldati, ben vestiti e ben addestrati, alla sfilata (e d’altronde di tempo ne avevano a iosa per prepararsi a questa esibizione).

Io non sono estremamente esperto di conti, ma se comincio a pensare alle paghe da versare a cinquemila uomini, paghe che vanno da quella dell’ultimo volontario arruolato al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, ai costi per i carri armati, i camion, i missili, i fucili e quant’altro, la mia mente si annebbia.

Mentre i miei occhi osservavano lo scorrere veloce dei vari corpi in armi, con le loro divise impeccabili e il portamento marziale, il mio animo andò alla proposta ingenua, ma sapiente, di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, che una quarantina di anni fa scrisse al presidente degli Stati Uniti e della Russia, dicendo loro: “Datemi ciascuno l’equivalente del costo di un cacciabombardiere ed io risolverò con quel denaro il problema dei milioni di lebbrosi nel mondo”. Non credo che abbia avuto risposta, era una proposta troppo saggia perché dei capi di Stato lo potessero prendere in considerazione.

Mentre io guardavo con curiosità la marcia dei vari corpi del nostro esercito, mi sono chiesto: “Se io scrivessi a Napolitano proponendogli: `Presidente, mi dia il costo della sfilata del 2 giugno, il costo delle paghe dei cinquemila uomini che hanno marciato e delle armi che orgogliosamente hanno mostrato ai ventimila romani che sono andati ad applaudirli, io le garantisco di costruirle tanti “don Vecchi” da accogliere tutti gli anziani poveri che vivono almeno da Napoli a Bologna!'”

Non ho però scritto a Napolitano perché penso che la proposta sia troppo valida perché possa essere presa in considerazione dal capo della burocrazia d’Italia!