Giocare a “nascondino”

Spesso ripenso alle mie povere riflessioni affidate alle pagine de “L’incontro” per verificare se sono veramente oneste e se offrono ai lettori almeno qualche verità e un po’ di aiuto fraterno. Recentemente ho scritto che sarei molto contento se il Signore mi desse la possibilità di vivere almeno un’altra volta l’incanto della primavera, e più recentemente, che avendo compiuto ottantasei anni, dovrei essere pronto, come San Paolo, a ricevere “la corona di gloria”; questo almeno è il mio desiderio e la mia speranza. Sennonché, qualche giorno fa, mentre divagavo su questi pensieri mi sono ricordato di come scherzavamo con mio padre quando, ormai abbastanza anziano, ripeteva questa frase: “Mi basterebbe vedere mio figlio Armando prete poi me ne andrei felice all’altro mondo”. Arrivato io al sacerdozio gli domandammo: “Papà, ora che Armando è diventato sacerdote; sei contento di andartene?” al che ci rispondeva che però avrebbe tanto desiderato veder salire all’altare mio fratello Roberto, l’ultimo nato, che ha vent’anni meno di me. Anche Roberto, ora parroco a Chirignago, divenne prete. Allora, ora uno ora l’altro di noi fratelli gli chiedeva divertito: “Papà ora vai?”. Ma egli pronto soggiungeva: “C’è in seminario, prossimo al sacerdozio anche mio nipote Sandro, figlio della Rachele, e mi piacerebbe tanto vedere anche lui servire il Signore!”. Sandro è diventato prete anche lui facendo felice ancora una volta mio padre. Ho l’impressione però che avesse in serbo nel suo animo qualche altra desiderio con cui giustificare ancora una volta il desiderio di rimanere qui con noi. Sennonché una mattina, dopo aver aperto la sua bottega di falegname, se ne andò improvvisamente. Ho la sensazione di essere veramente figlio di mio padre e temo che, anche se avrò la grazia di godere della nuova primavera, che il verde dei prati e le belle margherite già preannunciano, sicuramente troverò qualche altro desiderio da soddisfare prima di essere pronto per andare nell’aldilà!

Compleanno

Invidio le persone che compiono gli anni inosservati, senza che nessuno se ne accorga e senza regali. A me capita esattamente l’opposto; un po’ per colpa mia, che spiffero sempre ai quattro venti le mie cose, ed un po’ per la vita pubblica che conduco, devo pagare uno scotto a questo tipo di omaggio che di certo ha dei risvolti positivi ma, anche il suo prezzo che talora è consistente. Comunque il compiere ottantasei anni mi ha costretto a riflettere e a ringraziare il Signore, sia per la mia vita passata, che è stata bella e piena di soddisfazione, sia per quella presente perché il Signore sta continuando a donarmi una vita interessante, intensa, e piena di cose positive. In occasione del compleanno, che quest’anno è capitato nel bel mezzo della Quaresima, non ho potuto fare a meno di collegarlo al cammino che sto facendo, assieme alla mia comunità, verso la Pasqua e la Resurrezione vedendo, nel “segno”, quella reale che ci immette nella vita nuova. L’annuncio della Resurrezione che ci invita a vivere da uomini nuovi mi fa piacere ma mi apre pure il cuore alla speranza di quella definitiva che per me è assai vicina. In questa prospettiva mi sono tornate alla mente le parole di San Paolo: “Ho fatto la mia corsa, ho combattuto la mia battaglia, ho conservato la fede ed ora non mi resta che ricevere la corona di gloria”. Mi sono però trattenuto dal pronunciarle perché mi sembrava di pretendere troppo anche perché posso ben dire che, facendomi prete, ho ricevuto già il centuplo per la mia scelta ed ora posso solo sperare che la bontà del Signore mi doni anche la “vita eterna”.

La desertificazione del nostro mondo

Da qualche mese ogni giorno leggo una paginetta del “Breviario Laico” scritto dal Cardinal Ravasi. Il volume, edito dalla Mondadori e pubblicato nella collana “Oscar best-sellers”, offre ogni giorno una riflessione sempre dotta e brillante dell’attuale Ministro della Cultura del Vaticano che, partendo da una citazione di illustri pensatori, sviluppa una breve meditazione. Ammiro tantissimo Ravasi per la sua cultura ma raramente il suo dire tocca il mio cuore perché il suo è un discorso sempre scarno ed intellettuale del quale mi resta quasi sempre ben poco. Nell’introduzione Ravasi inizia le sue riflessioni con questo racconto di cultura araba.

Dio aveva creato il mondo come un giardino, fitto di alberi, pullulante di sorgenti, costellato di prati e di fiori. Là aveva deposto gli uomini e le donne ammonendoli: “Ad ogni cattiveria che commetterete lascerò cadere un granello di sabbia in questa immensa oasi del mondo” ma gli uomini e le donne, indifferenti e frivoli, si dissero: “Che cosa è mai un granello di sabbia in una così immensa distesa verde?” e si misero a vivere in modo fatuo e vacuo perpetrando allegramente piccole e grandi ingiustizie. Essi non si accorsero che, ad ogni loro colpa, il Creatore continuava a calare sul mondo i granelli aridi di sabbia. Nacquero così i deserti che di anno in anno si allargano stringendo in una morsa mortale il giardino della terra tra l’indifferenza dei suoi abitanti.

Questo racconto, che inquadra in maniera pressoché perfetta l’insipienza delle nostre industrie che stanno letteralmente desertificando la terra, vale anche per i comportamenti umani. Un tempo i sacerdoti ci mettevano in guardia dal commettere anche i peccati veniali perché “aprivano le porte a quelli mortali”, ora pare che non ci si preoccupi né degli uni né degli altri, distruggendo così la sensibilità delle nostre coscienze, inaridendo il nostro cuore e rendendolo incapace di cogliere ciò che nella vita c’è di più bello e più delicato. Se non ci fermeremo “il deserto” ci ruberà tutta la gioia del vivere!

Preghiera di “pronto soccorso”

Qualche giorno fa ho letto la testimonianza di una certa Monica, residente a New York, che ci offre questo semplice ma edificante esempio di fede. Questa cristiana della grande metropoli racconta che ad un’amica che le chiedeva consiglio perché tormentata da un dubbio, rispose suggerendole di pregare. Al che questa soggiunse: “Ma come?” ed ella continuò: “Ci sono tanti motivi per farlo; nel corso degli anni ho pregato nei momenti felici per gratitudine e in quelli dolorosi in cerca di aiuto e consolazione. Ho compreso che non esiste un metodo particolare, un metodo che funzioni meglio degli altri e che una breve preghiera di “pronto soccorso” – Dio aiutami – è egualmente efficace di un salmo recitato in Chiesa in ginocchio!”. Questa signora ha proprio ragione: anch’io ho fatto la medesima esperienza. Al mattino recito il breviario, poi vado ad aprire la “mia Cattedrale” e quando passo davanti al Tabernacolo il cuore mi spinge a pronunciare, davanti al segno della presenza di Gesù nel nostro mondo, questa preghiera di “pronto soccorso” – Mio Dio e Signor mio – e neppure quando, qualche ora dopo, officio la Santa Messa riesco a raggiungere questa intensità di comunione col Signore. Spessissimo, quando recito le tantissime e bellissime formule di preghiera non raggiungo la stessa intensità di comunione con Dio che avverto quando recito implorante la piccola e cara “preghiera” che la signora americana ha definito tanto bene chiamandola preghiera di “pronto soccorso”.

Il sindaco

Mentre butto giù queste note è in pieno svolgimento la campagna per le primarie del centro sinistra per proporre a Venezia e Mestre il suo candidato sindaco. Non sto a ripetermi sui problemi in attesa di soluzione che aspettano il nuovo primo cittadino. A me vengono le vertigini al pensiero che la passata amministrazione ha lasciato sessantacinque milioni di debito, per cui credo che una persona, anche solo minimamente responsabile, dovrebbe farsi pregare in ginocchio per accettare di impegnarsi nel risanamento di questo buco portando il bilancio del Comune al pareggio. Vedo però che invece non mancano i candidati che hanno cominciato a sgomitare per avere il privilegio di addossarsi una croce del genere! Mi auguro che posseggano delle formule magiche e misteriose per realizzare questa “impresa davvero impossibile”. Per quanto riguarda la destra non ho ancora visto all’orizzonte alcun personaggio di sorta; spero che abbiano un asso nella manica di grande valore! Ad essere onesto verso i miei concittadini, io mi auguravo che i possibili candidati non uscissero dalla vecchia guardia, sia del centro sinistra che del centro destra, ma soprattutto non avessero nulla a che fare con le segreterie dei partiti, considerati i fallimenti e i disastri che hanno provocato nel passato e che sono sotto gli occhi di tutti. Finora ho auspicato e pregato affinché sia la destra che la sinistra riuscissero ad individuare, pregandolo in ginocchio, qualche cittadino onesto e di buona volontà, che avesse già dimostrato le sue capacità manageriali disposto ad offrire cinque anni della sua vita per riassestare l’apparato comunale e le sue finanze disastrate ponendo almeno le premesse per un’amministrazione ordinata e positiva. Ho l’impressione che il mio auspicio abbia poche possibilità di realizzarsi, mi accontenterei che il Signore offrisse a Venezia almeno un piccolo Renzi con la voglia di fare e con la voglia di sbarazzarsi di tutto il vecchiume del passato.

La radio vaticana

Alcune settimane fa, con tanta sorpresa, mi è giunta dall’emittente del Vaticano la richiesta di un servizio sull’esperienza dei nostri Centri Don Vecchi. L’operatore che mi ha interpellato mi ha informato che il servizio avrebbe avuto una durata di dieci minuti, un tempo notevole per una trasmissione del genere, e che sarebbe andato in onda, in diretta, durante una catechesi che Papa Francesco avrebbe tenuto sul tema degli anziani. La cosa non poteva che farmi un enorme piacere perché il nostro progetto, che ormai data vent’anni, non tende tanto a risolvere il problema della domiciliarità degli anziani poveri della nostra città, anche se l’offerta di quattrocento alloggi protetti non è proprio cosa di poco conto, ma tende piuttosto a creare cultura a questo proposito, proponendosi come alternativa alle Case di Riposo che, in moltissimi casi, si riducono ad un operazione commerciale con l’unico scopo di fare business. I nostri Centri rappresentano certamente una soluzione alternativa, migliore e più economica. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere che un gruppo industriale gestisce in Italia centinaia di Case di Riposo le cui rette sono elevatissime ma, nonostante un certo smalto esteriore, non sono realtà più di tanto migliori dei vecchi ricoveri per anziani. Per questo motivo sento il bisogno di difendere, con le unghie e con i denti, il nostro progetto che rende l’anziano protagonista anche negli ultimi anni della sua esistenza offrendogli il vantaggio di abitare in ambienti signorili, in un alloggio di cui ha il possesso a pieno titolo e soprattutto che gli dà l’orgoglio di vivere senza pesare, non solo sull’ente pubblico ma pure sui propri figli. Spero di tutto cuore che anche questa trasmissione televisiva faccia da cassa di risonanza al nostro progetto!

La festa della donna

Lo stesso Presidente della Repubblica ha affermato, in occasione dell’otto marzo, festa della donna, che la nostra società deve molto alle donne. Il Pontefice poi, ultimamente, ha ribadito questo concetto, se possibile, anche con maggior vigore. Io, fino a poco tempo fa, ero piuttosto sospettoso e scettico nei riguardi di questa celebrazione dal momento che le femministe, in maniera spesso volgare e sbracata, le avevano dato una connotazione ed un respiro “radical-liberale” ma soprattutto avevano rivendicato, per le donne, diritti piuttosto dubbi quali: l’aborto, il libero amore, le nozze tra lesbiche e le maternità innaturali. Ora però ho finito per sposare questa celebrazione per rilanciare le peculiarità della femminilità quali: la bellezza, il sentimento, la tenerezza, la delicatezza dell’amore, la sacralità della maternità. Constatando poi che anche nei Centri Don Vecchi sono molte le donne che danno il “là” al clima e all’atmosfera in questi “borghi” per anziani, ho deciso di offrire loro, in segno di gratitudine, un riconoscimento per i loro meriti e il ringraziamento per quanto vanno facendo. Dapprima ho pensato a dei rami di mimosa che avrei colto dal bellissimo grande albero che troneggia nel nostro parco, come una perla che brilla al dolce sole di primavera, poi ho concluso che era meglio lasciare la mimosa nel parco perché continuasse a manifestare, ancora per parecchie settimane, il nostro affetto e la nostra riconoscenza offrendo, alle collaboratrici più generose, una bella “murrina” che ricordasse loro quanto bene vogliamo loro e quanto siamo orgogliosi di loro.

Scommessa ormai quasi certamente vinta

L’avventura del Don Vecchi 5, la struttura sperimentale pensata come soluzione economicamente ed umanamente più sostenibile nel dare una risposta innovativa e positiva agli anziani in perdita di autonomia, è partita in quarta: il prestito di quasi tre milioni a tasso zero da parte della Regione e la promessa di un finanziamento di venticinque euro per ogni residente ci ha indotto, con grande coraggio, a rendere operativa la nuova struttura con la scommessa di offrire una prospettiva di vita serena agli anziani ultraottantenni. L’impresa costruttrice, avendo la garanzia di pagamenti sicuri e regolari, ha lavorato sodo impegnando un numero consistente di operai e in meno di un anno ha consegnato il grande edificio. I guai sono iniziati subito dopo perché, l’elezione al Parlamento Europeo del dott. Sernagiotto, assessore alla Sicurezza Sociale della Regione Veneto e partner di questa coraggiosa sperimentazione sociale, che tra l’altro farà risparmiare all’Ente Regionale una somma enorme, ha messo in grande difficoltà questa esperienza pilota perché la Regione non ha mantenuto tutte le sue promesse e la Fondazione è stata costretta a riempire, il più rapidamente possibile, il nuovo Centro per coprire le spese correnti. La Fondazione non ha potuto fare altro che ridimensionare il suo intervento limitandosi a garantire, con personale proprio, solo il monitoraggio sia di giorno che di notte, e pur offrendo un alloggio di tutto rispetto con un’infinità di spazi comuni, ha dovuto chiedere alle famiglie di farsi carico direttamente, o mediante assistenti, della cura dei loro cari accolti nella struttura. Pian piano c’è stato chi si è fatto carico della gestione della vita quotidiana, chi di guidare il personale, chi di gestire, a titolo di volontariato, i vari servizi, cosicché, anche se ancora con qualche difficoltà, la nuova struttura è a regime e la “missione impossibile” ha avuto un esito positivo.

Investimenti

Fare i manichei nelle cose di Chiesa credo sia altrettanto sbagliato che impostare la pastorale sull’efficienza sostenuta da una finanza consistente. La vita di una parrocchia, lo si voglia o no, ha però anche delle componenti economiche che devono essere gestite con intelligenza e coerenza. Ricordo un detto latino che afferma: “Homo sine pecunia est imago mortis”, l’uomo senza soldi è l’immagine della morte. L’importante è che le risorse permettano di vivere e nel contempo diventino uno strumento pastorale.

Nella precedente riflessione ho tentato di suggerire ai colleghi e ai fedeli che la carità, nel bilancio della parrocchia, è una voce attiva e questo per incoraggiare ad un sempre maggior impegno caritativo. Ora vorrei dimostrare che lo spendere per annunciare il messaggio di Cristo mediante i mass-media, che oggi abbiamo a disposizione, non è solamente un investimento che produce a livello apostolico ma è anche un investimento che mette a disposizione ulteriori mezzi economici con cui è possibile seminare la “Buona Novella”. Monsignor Vecchi mi diceva che le spese sostenute per la stampa di apostolato sono spese sempre utili e sono sempre un investimento produttivo.

Mi sia concesso fare un esempio concreto: ogni settimana per “L’incontro” noi stampiamo trentamila fogli A4, tante sono le pagine del nostro periodico, con i costi relativi alla carta, alle matrici, all’inchiostro e alla macchina da stampa, costi quanto mai rilevanti poiché il periodico è distribuito gratuitamente. Nonostante questo, o meglio, proprio per questo, posso garantire, con prove alla mano, che questo investimento, con quello della carità, è una delle fonti di introito più redditizia per la Fondazione. Una volta ancora mi pare quanto mai valida l’esortazione di San Paolo che invita a seminare sempre e comunque con estrema generosità.

Bilanci

Non sono moltissimi i parroci che, spinti da un desiderio di trasparenza, pubblicano sui loro bollettini parrocchiali il bilancio delle attività della loro comunità. Ho osservato poi che quei pochi che trovano il coraggio di rendere conto, ai componenti della loro parrocchia, dell’andamento finanziario, mettono sempre la voce “Carità” nella colonna delle passività. Sento il desiderio, anzi il bisogno di dire ai miei colleghi che, da almeno mezzo secolo, io ho avuto la fortuna di fare una bellissima scoperta di cui desidero rendere partecipi anche loro. Nella mia esperienza pastorale, più che sessantennale, ho sempre constatato che la voce “Carità” costituiva un’entrata e non un’uscita o, per dirla con altre parole, un’uscita che ha prodotto un guadagno maggiore della spesa. Potrei citare, dati alla mano, che questo è sempre avvenuto fin da quando ero cappellano a Mestre con Don Vecchi ed è puntualmente continuato nei trentacinque anni in cui sono stato parroco a Carpenedo. Spero che nel raccontare queste mie esperienze qualcuno non mi accusi di essere autoreferenziale ma, non posso però fare a meno di citare la situazione della Fondazione dei Centri Don Vecchi e dei quattro Enti caritativi che ruotano attorno ad essa, dei quali io non ho più alcuna responsabilità diretta. Ebbene non ce n’è uno che chiuda il bilancio annuale in rosso, anzi sia la Fondazione che le Associazioni “Vestire gli Ignudi”, “Carpenedo Solidale”, “La buona Terra” e “Lo Spaccio”, pur offrendo almeno centomila contributi all’anno ai poveri, sono tutte in attivo. A livello personale ho felicemente scoperto che ricevo sempre più di quanto offro. Non dovrei però stupirmene perché Gesù da duemila anni ha parlato del “Centuplo”.

Primavera

Più volte mi sono sorpreso, durante i giorni più freddi ed uggiosi dell’inverno che stiamo lasciandoci alle spalle, a chiedere quasi inconsciamente al Signore: “Vengo quando vuoi perché di anni me ne hai donati molti e belli, però mi piacerebbe vedere, una volta ancora, la primavera”. Un paio di volte al giorno, quando percorro Viale Garibaldi e scorgo quei rami scheletrici dei tigli che lo fiancheggiano e che alzano tristi le loro lunghe e scarne dita verso il cielo grigio e nuvoloso, mi vien da sognare e desiderare di ammirarli almeno ancora una volta coperti di foglie di un bel verde tenero e sentire il profumo dolce e delicato dei loro fiori. Quando passeggio per i viottoli del parco del Don Vecchi e scorgo le prime e più coraggiose margherite che sorridono felici al sole, mi viene la nostalgia di quel prato verde trapuntato di fiori di vari colori ancor più bello dei vecchi e preziosi arazzi dei palazzi nobiliari. Quando il mio sguardo si allarga e vedo il lungo filare di oleandri verdi sì, ma di un verde spento e sporco, mi vien da sognare quella barriera bianca, rosa e rossa che da giugno in poi fa invidia al Paradiso Terrestre, allora la lode al Dio del Creato si mescola alla nostalgia e al desiderio di provare, almeno ancora una volta, la dolcezza e l’incanto della primavera. In questi giorni ho condiviso più che mai l’affermazione di una mia coinquilina, più che centenaria, che mi ha confidato cosa dice spesso al Signore: “Sono pronta a venire però, Signore, sappi che ho pazienza, tanta pazienza e sono disposta ad attendere ancora un po’ che Tu mi chiami!”.

A futura memoria

Di certo non mi attribuisco il merito di essere “il padre fondatore” dei Centri Don Vecchi, però mi pare onesto ed innegabile riconoscermi una certa “paternità”, non solamente sulla costruzione ma soprattutto, sulla “dottrina” cardine di questa iniziativa di carattere sociale.

Come ho scritto più volte l’input mi è venuto da molto lontano. Un parroco di Carpenedo, don Lorenzo Piavento, ai tempi della scoperta dell’America, fece un lascito di un appezzamento di terreno e di una casupola di quattro stanze a favore di “quattro donzelle povere e di buoni costumi”. La struttura, nonostante la vendita del terreno circostante e varie ristrutturazioni effettuate nei secoli passati, è giunta fino ai giorni nostri.

La spinta a sviluppare questo germe mi venne al tempo dell’abolizione dell’equo canone quando gli anziani, che vivevano con pensioni misere, vennero a trovarsi in condizioni di estremo disagio. L’antica “Società dei Trecento Campi” donò un terreno alla parrocchia e, dopo infinite vicissitudini, vent’anni fa fu costruito il primo Centro di cinquantasette alloggi che dedicai al mio maestro Monsignor Valentino Vecchi, il quale, primo tra i preti di Mestre, prese a cuore le sorti della Chiesa mestrina elaborando una visione ed un progetto di pastorale globale.

L’idea era di offrire agli anziani più poveri, ancora autosufficienti, un piccolo alloggio funzionale e dignitoso ma soprattutto alla portata delle loro modeste risorse economiche in alternativa e in contrapposizione alle case di riposo. In questa logica mi preoccupai di offrire un alloggio, il più rispondente possibile ai bisogni degli anziani, con spazi interni ed esterni atti alla socializzazione. In questo progetto ho escluso ogni forma di assistenza particolare tendendo a far sì che i residenti si avvalessero dei servizi del Comune e della ULSS previsti per ogni cittadino e incentivando i familiari a farsi carico dei loro anziani.

I Centri Don Vecchi prevedono solo un assistente con il compito di fare da collegamento con le famiglie o di fare intervenire chi di dovere nelle urgenze. Mi auguro che questa impostazione leggera e quasi esclusivamente autogestita faccia di ogni centro un piccolo borgo piuttosto che un ricovero per vecchi. Queste sono le mie intenzioni anche se prevedo che prima o poi l’apparato burocratico ed assistenziale, sempre in agguato, si approprierà di questo progetto innovativo e lo stravolgerà.

“Il peccato originale” dei partiti italiani

Non sono molti i paesi, a regime democratico, in cui, maggioranza ed opposizione, trovano il modo di governare assieme come è accaduto in Germania nel momento in cui nessun partito o coalizione, dopo una consultazione elettorale, è riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta. Constato però che in questi paesi, pur in un rapporto dialettico vivace e a volte complesso, le varie forze politiche trovano sempre il modo di offrire un governo alla loro nazione. L’Italia, a questo riguardo, mi pare rappresenti un caso pressoché unico. Qualche anno fa, in verità, per garantire una stabilità di governo, è stato fatto un tentativo per creare il bilateralismo, un’alternanza tra Centro Destra e Centro Sinistra ma, purtroppo, è durato solo una breve stagione e con tanti tormentoni. In tempi lontani anche De Gasperi e i suoi successori più prossimi tentarono di dare stabilità ma anche quel tentativo si è dissolto non appena è venuta a mancare la personalità forte e autorevole del politico trentino che riusciva a tenere unito quel gregge irrequieto. Ora si è tornati ad una frammentazione crescente. Nel Centro Destra oltre a Forza Italia possiamo annoverare “Fratelli d’Italia”, “Il nuovo Centro Destra”, il partitino di Storace, la Lega irrequieta e divisa ed ora Fitto che, non contento, sta cercando di fondare un nuovo partito per complicare ulteriormente la situazione. Nel Centro Sinistra, dove pareva esistesse finalmente una certa stabilità, oltre a “Sel” di Vendola e ai Grillini, anche la minoranza PD si comporta nei confronti dei propri compagni come se si trattasse di fratellastri invisi vogando sempre contro. È fin troppo evidente che nessuno di questi “ducetti” si preoccupa delle sorti del Paese ma pensa solo alla propria affermazione e al proprio successo personale. Ho ammirato Renzi e ho pregato per lui che afferma di avere a cuore le sorti dell’Italia, temo però, che nonostante all’orizzonte non ci siano altre maggioranze possibili, prima o poi finirà con il cadere in qualche trappola che nemici ed “amici” potrebbero tendergli.

Folgorazioni

Per una strana e misteriosa associazione di idee, qualche settimana fa, mentre preparavo l’omelia per la festa della Trasfigurazione, mi è tornato alla mente un dramma di Cesbron, il famoso letterato francese, dramma che avevo letto moltissimi anni fa. La tesi di fondo del racconto evangelico della Trasfigurazione è questa: Gesù offre ai suoi discepoli una sorta di “folgorazione” quando scoprono in Lui, il Maestro che avevano seguito da tempo e ascoltato con interesse, la luce e l’autorevolezza del Figlio di Dio, e riescono a scorgerlo in una luce nuova tanto sfolgorante da avvertire perfino la voce di Dio che lo presenta loro come il Suo vero ed amato Figlio che dovevano ascoltare con fiducia. Molto evidentemente Gesù li stava preparando ad avere fede in Lui e nel Suo messaggio per quando, di lì a poco, sgomenti e in preda ad una comprensibile, immensa e tragica delusione per avergli creduto e per averlo seguito, avrebbero assistito alla sua condanna al patibolo della Croce e alla sua sepoltura e, almeno apparentemente, alla sua sconfitta.

Nel racconto di Cesbron è descritta la tentazione mortale a Santa Teresa del Bambin Gesù morente. Satana, sotto l’aspetto di un medico, le insinua il dubbio di aver sbagliato tutto per aver speso la propria vita su un obiettivo totalmente fasullo facendo vivere, a Santa Teresa, un momento di angoscia terribile. La tentazione si conclude invece a lieto fine perché l’amore per Gesù, a cui aveva dedicato tutta la sua vita, la rassicura e la rasserena.

Ed ora confesso il motivo del mio grande interesse per questa vicenda. Ho appena compiuto ottantasei anni, avverto tutta la mia fragilità fisica ed intellettiva e mi domando sempre più frequentemente: “Quanti mesi ho ancora davanti a me? Regge l’obiettivo al quale ho dedicato l’intera vita? La mia fede è vera oppure è stata una comoda illusione?”. Talvolta mi sembra di provare la stessa preoccupazione e la stessa angoscia della giovane religiosa morente della quale Cesbron illustra magistralmente il dramma interiore. Ora anch’io sento il bisogno di ricordare certe esperienze forti del mio passato e certe “folgorazioni” che un tempo hanno illuminato il mio cammino, chiedo quindi a Cristo di condurre anche me sul Monte Tabor e di apparirmi, ancora una volta, nel Suo fulgore di Figlio di Dio a cui potermi affidare abbandonandomi serenamente tra le Sue braccia.

Questa volta sono con la Merkel

Ho seguito con attenzione le elezioni in Grecia, mi sono preoccupato per il risultato che ha consentito ad un giovane venditore di fumo di diventare capo del governo ed infine ho ascoltato le sue richieste rivolte all’Europa.

L’Unione Europea ha già fatto abbondantemente credito alla Grecia ma quest’ultima, non solo ha scialato assumendo decine di migliaia di impiegati negli enti pubblici, ma pretenderebbe, come purtroppo avviene anche da noi, di continuare a vivere una vita al di sopra delle proprie possibilità, lavorando poco e pretendendo molto. In passato ho più volte affermato che i tedeschi dovrebbero manifestare maggiore umiltà ricordando il loro passato, però bisogna anche riconoscere la loro serietà, la sobrietà di vita, l’intelligenza sia della classe operaia, capace di accettare sacrifici pur di superare la crisi economica, che della classe dirigente: seria, collaborativa tanto da essere capace di governare con una grande coalizione che ha unito, ormai da anni, maggioranza e minoranza, cose che da noi purtroppo sono inimmaginabili.

Di fronte alle assurde pretese dei nuovi governanti della Grecia ho capito e condiviso le titubanze e soprattutto la fermezza dei tedeschi nel pretendere, dalla classe dirigente greca, serietà e l’impegno a smantellare un apparato burocratico che soffoca la loro nazione. Così come non reputo saggi e seri i genitori accondiscendenti con le bizze e le pretese insensate ed egoiste dei loro figli, privi del coraggio e dell’onestà necessari per dire di no, credo che anche tra gli stati europei, la serietà dei paesi più virtuosi dovrebbe educare e portare a più miti consigli i più riottosi.