Il secondo centro

All’inizio del 1995 alla segreteria del Don Vecchi 1 continuavano a giungere nuove domande di anziani che chiedevano un alloggio, tanto che quando abbiamo cominciato il secondo centro ne avevamo due-trecento in attesa.

Per costruire nuovamente c’era sempre il problema di trovare una superficie disponibile. Per fortuna a monte della prima struttura c’era pure un’altra area di circa 10 mila metri quadrati, anch’essa di proprietà della stessa Società dei 300 campi, affittata ad un contadino che abitava da quelle parti. Mi feci coraggio e chiesi alla società di vendermi quest’area. C’era però l’inghippo dell’affittuario. Lo convinsi a rinunciare a quell’area puntando sul discorso dell’opera di carità che intendevamo fare e, non so se per questo motivo o se per la promessa di offrirgli “una mancia abbastanza considerevole”. La società dei 300 campi mi cedette l’area al prezzo di 350 milioni di vecchie lire.

Col consiglio del giovane geometra Andrea Groppo, pure lui mio vecchio scout, che ora è vicepresidente della Fondazione Carpinetum e che allora fu per me più che il braccio destro, abbiamo aperto un bando di concorso. Vinse questo concorso l’impresa Hausotec, il progettista della quale era il giovane e brillante architetto Francesco Sommavilla e l’impresario suo fratello.

Il costo era particolarmente elevato perché la nuova struttura comprendeva 138 alloggi e molte altre sale per la vita comunitaria. Quando sottoscrissi il contratto mi mancava ben un miliardo e mezzo di vecchie lire! Ora capisco che in quell’occasione forse ho sfidato la Divina Provvidenza e l’ho fatto con un po’ troppa impudenza.
Comunque il Signore fu buono come sempre e mi aiutò suggerendo a me la “trovata” di “vendere le pietre col cuore”, ossia l’iniziativa di offrire ai concittadini l’opportunità di intestare ad un loro caro defunto una mattonella del grande viale che gira attorno all’intero fabbricato. Raggranellai più di un centinaio di milioni, sempre delle vecchie lire.
Il Signore poi suggerì ad alcuni concittadini di concorrere in maniera seria a quest’opera di bene. Essendo ormai novantenne non ricordo più tutti i nomi e la consistenza delle offerte dei benefattori più insigni, comunque ad esempio la signora Corà mi donò un miliardo, i coniugi Teti e Roberto Ricoveri 250 milioni, la dottoressa Giustina Saccardo Scaldaferro 350 milioni, la signora Coletti 20 milioni. E a queste offerte più consistenti se ne aggiunse una miriade di altre da benefattori generosi.

Non mancarono le difficoltà con l’impresa, perché forse avevamo “tirato” troppo nel contrattare, sta di fatto che, quando il 27 maggio 2001 sempre il cardinale Marco Cè inaugurò il Don Vecchi 2, avevo totalmente saldato il costo dell’edificio. Diedi quindi per scontate l’amicizia e la fiducia che il buon Dio mi aveva dimostrato e i suggerimenti della dottoressa Francesca Corsi, mia alunna alle Magistrali, che, a quel tempo, era funzionario addetto all’assistenza di anziani e disabili del Comune di Venezia.

Questa seconda struttura è forse la più felice nelle sue articolazioni architettoniche e la più rispondente alla vita, parzialmente autonoma, degli anziani. Essa offre, come avevamo previsto, 136 alloggi di varie misure, molti locali per l’uso comune, la grandissima hall, una sala per le conferenze, capace di 100 posti a sedere, oltre alla sala per la presidenza, gli uffici di amministrazione, la cappella, una palestra completamente attrezzata e uno spazio sconfinato nell’interrato di tutto l’edificio. La trovata più intelligente è stata quella di costruire una galleria coperta che congiunge il primo al secondo fabbricato, mettendo quindi in comune i vari servizi. Anche questo secondo complesso si riempì in un battibaleno. (7/continua)

L’arte ai Don Vecchi

Fino a mezzo secolo fa, Mestre era considerata un dormitorio per le decine di migliaia di operai che lavoravano nelle fabbriche di Marghera o la periferia povera e dimenticata di Venezia o un paesotto di campagna, al di là della laguna.

Seguo sempre con grande attenzione gli interventi sulla storia di Mestre che Sergio Barizza, storico brillante e competente, scrive ormai da molte settimane su L’Incontro circa le vicende del passato di Mestre. Ogni volta leggo con curiosità i suoi articoli, ammiro la perizia con cui illustra le poverissime “reliquie” di una storia poco celebre e mi sorprendo di come sa scoprire e incorniciare vicende poco gloriose e degne di attenzione. Però fortunatamente, da qualche decina d’anni, un gruppo di cittadini che ama la nostra città si è impegnato per darle un volto più nobile e una vita meno incolore, ottenendo risultati apprezzabili. Sto pensando a tante realtà associative, tutte vere e proprie “medaglie al petto” di Mestre poichè una città si può considerare tale soltanto se oltre alle case, alle botteghe e alle fabbriche offre anche cultura, ricerca, gusto del bello, poesia e bellezza.

La Fondazione Carpinetum, fin dalla sua nascita, si è assunta pure essa il compito di contribuire a far crescere a Mestre l’arte, e soprattutto la pittura. Vorrei ricordare ai miei concittadini che i Centri don Vecchi ospitano una grande pinacoteca nella quale chi cerca poesia e bellezza può trovare un paio di migliaia di opere d’arte di artisti in gran parte locali. Recentemente questa istituzione ha cominciato a dar vita a gallerie permanenti, dedicate a singoli pittori locali. Nel centro di Carpenedo c’è una galleria stabile e visitabile, che offre circa novanta opere di Vittorio Felisati. Al Don Vecchi di Marghera, invece, abbiamo una galleria dedicata a Umberto Ilfiore, mentre il Don Vecchi 5 ne ospita un’altra dedicata a Vittorio Felisati e al Don Vecchi 6 c’è quella di Toni Rota. Al Centro Don Vecchi 7, che sarà inaugurato a fine giugno, vi saranno altre gallerie permanenti: una di Renzo Semenzato, una di Agostino Avoni e una di Rita Bellini.

I Centri don Vecchi si qualificano principalmente per lo studio, la ricerca e la sperimentazione di soluzioni abitative più attente alla sensibilità e alle esigenze della terza e della quarta età, ma s’impegnano anche affinché i concittadini anziani e pure i giovani possano godere della bellezza che ci regalano gli artisti del nostro tempo.

Con questo mio intervento, vorrei raggiungere i pittori di Mestre, di Venezia e dell’hinterland, che desiderano farsi conoscere e “passare alla storia”, per informarli che siamo disponibili ad esporre una ventina delle loro opere, in una sede sempre degna.

Il primo centro

Dopo un’attenta valutazione sull’impresa alla quale affidare la costruzione abbiamo scelto una grossa ditta di Jesolo che aveva lavorato moltissimo per enti religiosi e che ci sembrò quanto mai seria: l’Eurocostruzioni di Sergio Menazza. I lavori procedettero tanto celermente che dopo un anno il fabbricato era già pronto.

L’architetto scelse, come schema costruttivo, la “casa romana”, cioè un cortile interno, chiuso dai quattro lati dal fabbricato. Il complesso è costituito da 57 alloggi di diversa misura per singoli e per coppie, una grande sala da pranzo, la segreteria, l’ambulatorio per il medico, una cucina capiente con relativa dispensa, una cappella da 50 posti, un locale per la parrucchiera e altre salette di disbrigo.

Il primo Centro don Vecchi, come tutti gli altri che sono stati costruiti in seguito, è strutturato con alloggi bilocali o monolocali di varie superfici, dotati di impianti e sistemi di chiamata tali da garantire ai residenti una certa sicurezza, pur nell’ambito della più assoluta autonomia e privacy, all’interno delle singole unità abitative. Sono inoltre dotate di ambienti e spazi comuni per la ristorazione, la vita di relazione, il relax fisico, le attività ricreative e culturali, in modo da assicurare una vita quanto mai vicina alla normalità, ma nello stesso tempo protetta e supportata dai servizi che suppliscono alle carenze dell’età. Ai Don Vecchi è attivato un adeguato sostegno al soddisfacimento dei bisogni primari e assistenziali dei residenti, si favoriscono la socializzazione, le relazioni interne ed esterne, l’impiego del tempo libero e il mantenimento delle capacità fisiche.

A inaugurare solennemente questo primo centro fu l’allora Patriarca, il cardinale Marco Cè, alla presenza di più di cinquecento persone. La stampa locale ne parlò tanto e tanto bene che la struttura in un battibaleno fu riempita, tanto che più di 250 domande rimasero inevase.

A questa prima impresa partecipò in maniera determinante uno dei miei ragazzi di un tempo, il ragioniere Rolando Candiani che, andato in pensione prematuramente, si dedicò corpo e anima a questa avventura, coinvolgendo pure sua moglie Graziella. Questi due intelligenti e generosi collaboratori hanno il merito di aver impostato l’impianto amministrativo e d’aver creato una bella comunità, anche perché io ero impegnato in parrocchia a tempo pieno.

Non va dimenticato che il finanziamento di ognuno dei Centri don Vecchi è sempre stata una grossa sfida. Questo primo centro lo realizzammo impiegando qualche risparmio con un contributo consistente, a titolo di sperimentazione, da parte della Regione e soprattutto “vendendo” le stelle della chiesa dei Santi Gervasio e Protasio. La chiesa di Carpenedo, costruita dal Meduna in stile neogotico, ha infatti tutto il soffitto dipinto di azzurro e trapunto di stelle. Per far cassa i parrocchiani sono stati invitati a “comperare” qualcuna di queste stelle da dedicare ai loro defunti.

Confesso che le ho “vendute” tutte, anzi forse qualcuna in più di quelle che gli imbianchini erano riusciti a farci stare sul soffitto! Comunque con questo espediente riuscimmo a racimolare più di qualche decina di milioni di vecchie lire, tanto che fummo in grado di raggiungere una tale copertura economica che quando si terminò l’edificio non solo pagammo tutti, ma ci rimase persino qualche risparmio per il futuro. (6/continua)

L’avvio del progetto

(continua dal post precedente) I guai però cominciarono ben presto. Il terreno aveva destinazione agricola e quindi ci voleva una delibera di cambio d’uso da parte del Comune, cosa possibile secondo le norme vigenti perché l’opera prospettata aveva una destinazione squisitamente sociale. Questa mutazione d’uso avvenne dopo infinite difficoltà.

Il Comune, seguendo progetti a me ignoti, aveva già destinato l’area alla costruzione di abitazioni popolari. Senonché, per mia fortuna, gli abitanti del rione, guidati dal parroco di allora, che era don Rinaldo Gusso, ora in pensione, preoccupati che quella zona si dequalificasse per la presenza di tanta povera gente, si opposero in maniera così decisa da costringere il Comune, che nel frattempo mi aveva espropriato suddetto terreno, a desistere dal suo proposito, cosicché per una decina di anni l’area rimase senza alcuna destinazione.

Venni a sapere, in maniera accidentale, che nel caso il Comune entro 10 anni dall’espropriazione di un terreno non realizzi l’opera per cui l’aveva espropriato, il vecchio proprietario poteva rivendicarne il possesso. Cosa che feci con estrema determinazione. Il progetto prospettato però era talmente innovativo, e il Comune così lento a capire i tempi nuovi, che le cose andarono molto per le lunghe. Si pensi che arrivai a minacciare il sindaco, che allora era l’avvocato Ugo Bergamo, che se entro una certa data non mi avesse fatto avere la concessione edilizia, ogni giorno avrei fatto suonare le campane a morto in segno di protesta. Non so se per questa minaccia o per altri motivi, ottenni finalmente il sospirato permesso a costruire.

Il compianto geometra Pettenò aveva già presentato un progetto in Comune, ma con il passare degli anni era perfino andato perduto. Incaricammo quindi l’architetto Renzo Chinellato di redigere un nuovo progetto, dopo esserci documentati visitando alcune realizzazioni a Pordenone e Udine, ma fu soprattutto una struttura realizzata in Toscana, precisamente a Lastra Signa, a darci delle idee più convincenti perché le finalità erano analoghe a quelle che noi, magari confusamente, sognavamo.

Alla conclusione di questa ricerca arrivammo a precisare queste caratteristiche di fondo:

  • offrire una residenza dignitosa agli anziani in precarie condizioni economiche e bisognosi di un alloggio protetto;
  • promuovere l’autosufficienza fino al limite estremo mantenendo l’anziano in situazione di normalità di vita e nello stesso tempo offrirgli supporti che sopperiscano all’attenuarsi delle sue facoltà fisiche e mentali;
  • favorire la socializzazione fra i residenti promuovendo uno spirito, uno stile e un senso di comunità solidale, così da favorire concretamente lo sviluppo di un radicale senso di solidarietà; in questo senso gli anziani più attivi o più abbienti andavano incoraggiati a farsi carico di quelli con maggiori difficoltà fisiche ed economiche, che risiedano o meno all’interno dei centri.

Il primo centro e i sei che seguirono sono stati dedicati alla memoria di monsignor Valentino Vecchi, arciprete del duomo e delegato pastorale per Mestre e la Terraferma, sacerdote che, superata l’impostazione campanilistica delle parrocchie di Mestre, per primo promosse strutture e cultura poste a servizio dell’intera città. Dopo tante tribolazioni cominciò concretamente l’avvio di questa bella avventura. (5/continua)

Un passo decisivo

Il “Piavento di Carpenedo”, con le sue anziane residenti, costituiva già una piccola testimonianza di una comunità cristiana che continuava a farsi carico, ormai da secoli, pur in misura pressoché simbolica e con una soluzione ben miserella, dei suoi vecchi in difficoltà, tuttavia questa soluzione rimaneva assolutamente inadeguata come capienza e non in linea con le esigenze più elementari del nostro tempo. Dopo l’intervento di restauro in questa struttura potevano dimorare sei signore; ognuna disponeva di una sola stanza, relativamente piccola, dove dormire e farsi da mangiare. Le difficoltà nascevano dal fatto che in uno spazio così ridotto spesso nascevano incomprensioni e frequenti liti e poi questa piccolissima struttura offriva dimora a un numero irrisorio di persone in rapporto a una comunità che contava quasi 6.500 abitanti.

Quindi cominciai prima a sognare e poi a progettare una struttura ben più capiente e più adeguata alle esigenze del nostro tempo. Ipotizzai fin da subito un centro molto più ampio, con alloggi pur piccoli ma che offrissero la possibilità di una vita autonoma, più confortevole e soprattutto alla portata anche di chi godeva solamente della pensione sociale. L’inizio dell’avvio di questo progetto nacque in seguito ad un’offerta fattami da un’altra antica società operante a Carpenedo fin dall’anno 1200 e giunta fino ai giorni nostri: la Trecento campi.

Accenno solamente per sommi capi a questo ente benefico. Il vescovo di Treviso, poiché la parrocchia di Carpenedo fino al 1926 apparteneva a quella diocesi, “illo tempore” aveva costituito un “livello”, ossia aveva assegnato agli abitanti di questa parrocchia che viveva ai confini della diocesi, l’uso di 300 campi di bosco ove essi, povera gente, potessero approvvigionarsi di legna e tagliare l’erba per le bestie. Ripeto che questa società è giunta fino ai nostri giorni ed è, dopo infinite peripezie, così strutturata: i capi famiglia eleggono un consiglio di 15 membri, questo a sua volta elegge una deputazione, praticamente il governo, che poi elegge il presidente. Il parroco di questa comunità per statuto funge da “ispettore” che può partecipare alle riunioni del consiglio e della deputazione con il compito di garantire che siano rispettate le finalità sociali della società.

Io ero, fin dall’inizio, in ottimi rapporti con i membri di questi organismi che, a quel tempo, erano formati da persone sagge e sensibili alle problematiche dei poveri, tanto che venendo a sapere dei miei progetti decisero di mettermi a disposizione una certa somma. Io però chiesi loro di mettermi invece a disposizione una superficie per edificare la sognata struttura per anziani poveri. Dopo le varie consultazioni e delibere mi offrirono quattromila metri di terreno di proprietà della società adiacenti al viale don Luigi Sturzo e confinanti con il terreno che la famiglia Mistro lavorava in affitto da suddetta società. Quindi feci così un altro passo, abbastanza significativo, verso quel progetto che cominciava a prender forma. (4/continua)

I miracoli della carità

Carissimi amici, un paio di settimane fa vi ho confidato che, negli ultimi quindici giorni di marzo, il buon Dio mi ha fatto delle “belle sorprese”. Vi ho raccontato che una signora di Venezia mi donato 25 mila euro per i poveri; che la dottoressa Chiara Rossi ci ha lasciato in eredità 15 mila euro; che monsignor Centenaro, uno dei più eminenti prelati del clero veneziano, quasi novantenne, ha scelto di abitare al Centro don Vecchi degli Arzeroni per occuparsi della cura spirituale dei suoi 250 anziani; e che il direttore di un grande ipermercato, appena andato in pensione, ci ha chiesto di fare il volontario in qualità di “commesso” allo spaccio solidale.

Vi dicevo che il mio sogno sarebbe avere a disposizione la prima pagina di un quotidiano, nazionale o locale, per raccontare eventi come questi che farebbero tanto bene a tutti. Vi confesso che spesso sarei tentato di riprendere a scrivere “il diario” per potervi offrire belle notizie, fresche di giornata, che per fortuna sorgono insieme al sole ogni giorno. So però di essere troppo vecchio per cimentarmi in un’impresa simile!

Desidero tuttavia raccontarvi qui una notizia molto bella e innovativa nel campo della solidarietà. Un paio di settimane fa il comitato direttivo dell’associazione Vestire gli ignudi, che gestisce l’enorme emporio di vestiti usati per i cittadini in difficoltà, dopo aver redatto il bilancio consuntivo, ha messo a mia disposizione 200 mila euro per “fare del bene”!

Qualcuno si domanderà com’è possibile che quest’associazione abbia un introito simile facendo la carità. È presto detto! I magazzini San Martino contano circa 50 mila ingressi l’anno e, se ogni “cliente” dona ogni anno anche solo quattro euro per vestirsi, il “guadagno” risulta evidente. La filosofia è che si chiede poco, ma tutti donano, nell’intento di creare un “volano” che generi carità.

Il direttivo mi ha affidato quest’ingente somma da spendere per i poveri. L’anno scorso ho aiutato le mense e tutte le purtroppo piccole associazioni parrocchiali per i meno abbienti. Quest’anno ho impiegato euro 150 mila euro per fornire il pranzo a metà prezzo (2,5 euro) a tutti i residenti dei Centri don Vecchi con un reddito mensile inferiore a 500 euro.

Inoltre, e questa è la bella novità, l’articolo di don Fausto Bonini sulla “parrocchia veneziana” di Ol Moran, in Kenya (su L’Incontro, NdR), mi ha suggerito un altro progetto da sostenere. In quei luoghi un giovane sacerdote veneziano, don Giacomo Basso, sta compiendo dei veri e propri miracoli. Dal momento che per gli studenti della scuola le distanze da percorrere sono proibitive, ha pensato di compartecipare alle spese per la costruzione del primo convitto.

La spesa ammonta a 40 mila euro e noi ne abbiamo mandati 20 mila, confidando nel fatto che le parrocchie di Mestre e di Venezia non si faranno battere, in questa gara di solidarietà, da una fondazione che gestisce già 500 alloggi per i poveri.

Non nascondo che mi piacerebbe anche insegnare a Matteo Salvini e al suo “amico – nemico” Luigi Di Maio che il problema dell’Africa non si risolve lasciando annegare gli immigrati nel Mediterraneo o inviando denaro ai “satrapi” d’Africa affinché acquistino armi e si uccidano a vicenda.
Invece è fondamentale creare, nei Paesi dove quelle persone vivono, una nuova classe di uomini e donne culturalmente ed economicamente preparati per dare un volto nuovo e migliore all’Africa. I nostri missionari hanno sperimentato questa soluzione da tempo e ne offrono gratuitamente la ricetta a chi vuole bene all’umanità.

Forse mi aspetto troppo da quei 20 mila euro, ma mi pare che seminare speranza faccia sempre bene!

Il Piavento

Dalle piccole esperienze delle quali ho parlato nel mio secondo “capitolo” circa una soluzione abitativa degna e possibile per anziani, pian piano nacque un indirizzo più preciso e definito.

Questa scoperta della necessità di trovare soluzioni che rendessero meno angosciosa la situazione degli anziani, specie di quelli che vivevano soli – situazione che può configurarsi nel discorso delle “nuove povertà” – ebbe come spinta ultima due esperienze di ordine pratico.

La prima fu determinata dall’aver constatato, dopo la prima visita a tutte le famiglie della parrocchia, in occasione della benedizione delle case, che almeno un sesto degli abitanti aveva più di settant’anni e che moltissimi di loro vivevano da soli perché la “famiglia patriarcale” nella nostra città era scomparsa ormai da molto tempo; quindi più di mille anziani vivevano in questa condizione quanto mai triste e solitaria.
La seconda fu che proprio in quegli anni era stato abolito il blocco degli affitti e perciò gli anziani, che normalmente godevano di pensioni esigue, s’erano trovati spiazzati e in grossissime difficoltà per pagare l’affitto di casa.

Una ipotesi di soluzione a questo problema mi venne dal fatto che in parrocchia, in via Vallon, esisteva, ed esiste ancora, una casupola di due piani nella quale vivevano otto anziane, casupola che io ho restaurato completamente destinando una stanza a soggiorno per un po’ di vita in comune e costruendo due bagni da una seconda stanza, perché fino ad allora le anziane fruivano di un solo bagno posto fuori dall’edificio e per nulla riscaldato.

Questa casa, che dopo la ristrutturazione tutti ritennero e ritengono una “villetta” e che si denomina Piavento, era il frutto di un lascito di un antico parroco di Carpenedo, don Lorenzo Piavento, che al tempo della scoperta dell’America aveva destinato nel suo testamento a “donzelle di buoni costumi”. La casupola fu poi innalzata di un piano da parte di monsignor Romeo Mutto con la vendita di un podere adiacente, nel quale oggi ci sono i negozi di mobili.

La ragione sociale di questo piccolo immobile era quella di “Opera pia”, ente che una ventina di anni fa lo Stato voleva accorpare ad uno più grande, ma che noi difendemmo con i denti perché rimanesse in gestione alla parrocchia. Tanta fu la determinazione che riuscimmo a tenerlo legato alla parrocchia sotto la ragione sociale “Fondazione Piavento onlus”, ente del quale il parroco pro tempore di Carpenedo rimane presidente nominando altri due consiglieri per amministrarlo. (3/continua)

Storie belle di brava gente

Mi piacerebbe tanto poter disporre ogni settimana di almeno una facciata de Il Gazzettino, della Nuova Venezia o del Corriere del Veneto per raccontare ai concittadini, con un titolo a sei colonne, le storie belle che germogliano tra di noi, alle quali quasi nessuno dà voce e visibilità. Ogni giorno la radio, i giornali e la televisione ci mettono sotto gli occhi una valanga di vicende amare e meschine che sviliscono la dignità umana e ci spingono a credere che nella nostra società tutto sappia di prepotenza, di disonore, di egoismo e d’imbroglio. Fortunatamente la realtà è molto diversa, perché nel silenzio e nella discrezione fioriscono quotidianamente gesti nobili e generosi.

Mi duole davvero tenere solo per me le testimonianze esemplari di gente meravigliosa come quella che, in quest’ultimo quarto di secolo, ha permesso all’Avapo di realizzare uno stupendo “ospedale a domicilio” o alla Fondazione Carpinetum di costruire 500 alloggi per anziani in difficoltà e per altre categorie in profondo affanno esistenziale. Mi soffermo su queste due realtà, che sono il fiore all’occhiello di Mestre, perché le conosco da vicino, tuttavia sono assolutamente certo che nella nostra città c’è qualche altra splendida iniziativa che cresce silenziosa, senza fare notizia. Purtroppo, invece, alcuni “rami secchi” fanno un gran fracasso instillando paura e tristezza nel cuore di tutti.

Mi sono permesso di chiedere alla redazione de L’incontro uno spazio per raccontare a voi, miei cari concittadini, alcuni episodi che mi hanno reso felice. Innanzitutto vorrei confidarvi che scopro ogni giorno qualcosa di bello. Tutte le mattine, appena sveglio, mi chiedo curioso: “Quali belle sorprese mi ha preparato oggi il buon Dio?”. E non passa giorno senza che il Signore mi manifesti la sua benevolenza e il suo amore.

Ma veniamo alle sorprese di quest’ultima settimana: la prima riguarda un’anziana signora di Venezia che un paio di mesi fa mi ha donato prima 25.000 euro poi altri 10.000 e, infine, altri 25.000 dicendomi “sono vecchia, conduco una vita sobria, non ho esigenze particolari, quindi mi fa piacere donare a chi ha bisogno ciò che mi ha lasciato mio marito.”

La seconda sorpresa è legata alla scomparsa della dottoressa Chiara Rossi, farmacista e poi insegnante di matematica, morta qualche giorno fa. Era una donna che ha speso tutta la propria vita per il bene della Chiesa e della nostra città e che, aperto il suo testamento, apprendiamo che ha lasciato 15.000 euro agli anziani poveri.

La terza sorpresa concerne monsignor Angelo Centenaro, già parroco del duomo di San Lorenzo e vicario del Patriarca per la terraferma, mio compagno di classe e mio coetaneo. Nonostante l’età e i relativi acciacchi, ha scelto di dimorare al Centro don Vecchi degli Arzeroni dove è arrivato da Borbiago, per prendersi cura spiritualmente dei 150 residenti.

La quarta riguarda il direttore di un grande ipermercato che, appena andato in pensione, è venuto a offrirsi come volontario, non per dirigere, ma per adoperarsi come l’ultimo degli addetti ai lavori. Da mattina a sera, sposta carrelli per rifornire il banco dello spaccio di viveri in scadenza.

Ho pensato di far conoscere queste esperienze, e ce ne sarebbero ancora molte altre, perché mi sembrava egoista tenere tutto questo “oro” nello scrigno del mio cuore.

Grazie a tutti

Impossibilitato di ringraziare personalmente tutti coloro, che a livello personale o mediante lettera, messaggi, telegrammi, internet e la stampa cittadina mi hanno onorato mediante parole di augurio, attestati di simpatia o preghiere in occasione del mio novantesimo compleanno, ringrazio tutti di gran cuore con tanta riconoscenza e promettendo che tenterò di ricambiare la fiducia, la stima e l’affetto impegnandomi con tutte le mie forze e fino a l’ultimo respiro per il bene della nostra cara città.

Don Armando Trevisiol

Radici prossime

Ho già riferito che nel 1971 tutta la dottrina riguardante la vita parrocchiale era messa in discussione. Il tempo dagli anni Settanta agli Ottanta fu un tempo assai difficile a motivo della contestazione, soprattutto per me che dovetti affrontare in prima persona, e per la prima volta, i complessi problemi di una parrocchia di periferia di 6.500 anime.

Fin dall’inizio di questo mio servizio cominciai ad elaborare un mio progetto di ordine pastorale, partendo da convinzioni già acquisite sia da un punto di vista concettuale che pratico. Fin da allora ero già profondamente convinto che la religione voluta da Gesù è segnata da due dimensioni ugualmente importanti e derivanti dal comandamento “ama Dio con tutte le tue potenzialità e il prossimo come te stesso”. La dimensione verticale riguarda la fede e l’annuncio evangelico che si esplicano attraverso la catechesi e la liturgia; mentre quella orizzontale si esprime mediante la carità. Quindi il problema della carità, che molto spesso era ed è purtroppo marginale negli interessi e nei progetti dei parroci e dei cristiani impegnati, è invece, almeno per me, a pari grado con quello della evangelizzazione, della catechesi, del culto e della preghiera. Pertanto, fin dall’inizio del mio ministero, cominciai a pensare come impostare e realizzare questa componente così essenziale per una vita realmente cristiana e il problema si presentò subito di difficile soluzione perché in questo campo c’erano poche e fragili esperienze alle quali rifarsi.

I primi passi li spesi per rafforzare e rendere più efficienti le associazioni caritative già esistenti: la conferenza della San Vincenzo maschile e quella femminile, alle quali aggiunsi in seguito anche una per i giovani. Nacquero poi, il gruppo “Il Mughetto” per l’assistenza ai disabili, il “Gruppo San Camillo” per l’assistenza agli ammalati e alle persone sole e in difficoltà, “Il Ritrovo” per gli anziani, Villa Flangini ad Asolo (foto) per le vacanze dei vecchi, il restauro radicale dell’opera “Piavento”, la casa che accoglieva otto anziane in difficoltà abitative. E via via ho aperto le residenze “Ca’ Dolores”, “Ca’ Elisa”, “Ca’ Teresa” e “Ca’ Elisabetta” sempre per anziane in difficoltà, il “Foyer San Benedetto” per l’accoglienza dei parenti dei degenti nei nostri ospedali che abitavano lontani da Mestre.

Man mano che si realizzavano questi obiettivi, notavo da un lato che aumentava il consenso tra i concittadini e dall’altro andavo scoprendo che c’era molto, molto ancora da fare per dare volto reale alla carità, ma soprattutto darle un volto comprensibile alla sensibilità dei nostri tempi. (2/continua)

Radici remote

Inizia da questa settimana una nuova rubrica a puntate dedicata alla storia dei Centri don Vecchi, che ci accompagnerà fino all’inaugurazione del settimo centro agli Arzeroni.

S’è scritto certamente molto sui Centri don Vecchi, sulla loro finalità, sulla dottrina che li supporta e sul loro funzionamento, però quasi sempre se n’è parlato in maniera non organica, solamente illustrando e soffermandosi episodicamente soprattutto sulle loro singole sfaccettature. Chi poi ha trattato l’argomento in modo più informato, sono stati lettera aperta, settimanale della parrocchia di Carpenedo, comunità da cui i centri sono stati concepiti, e L’incontro, settimanale della Fondazione Carpinetum, che li gestisce. Essendo io di certo la persona maggiormente coinvolta in questa bella storia e avendo però ormai novant’anni, non vorrei che essa andasse sepolta con me e soprattutto non vorrei che i nostri concittadini non potessero conoscere fino in fondo il “miracolo della carità” sbocciato nell’ultimo quarto di secolo a Mestre. Penso, dunque, sia opportuno informare la comunità sugli antefatti per facilitare la comprensione del nascere e dello svilupparsi di queste strutture per anziani di modestissime condizioni economiche.

Sono stato ordinato sacerdote nel 1954 e nominato parroco di Carpenedo alla fine del 1971, avendo alle spalle una brevissima esperienza di un paio d’anni, come cappellano, nella parrocchia dei Gesuati a Venezia, ma durante questo tempo mi ero occupato quasi esclusivamente dei ragazzi in genere e degli scout in particolare.

Giunsi a Mestre nel 1956 nella più popolosa e vivace parrocchia della città, nella comunità del duomo di San Lorenzo martire, dove lavorai prima sotto la guida di monsignor Aldo Da Villa e poi sotto quella di monsignor Valentino Vecchi. Ebbi modo di fare delle forti esperienze pastorali come responsabile cittadino degli scout, come assistente ecclesiastico dei maestri cattolici, ma soprattutto come assistente cittadino della San Vincenzo, la benemerita associazione che si occupa dei poveri. Per quanto riguardava l’attività pastorale della carità in quel tempo collaborai in maniera veramente determinante soprattutto con monsignor Vecchi, già mio insegnante di Storia della filosofia in Seminario.

Il decennio tra il Sessanta e il Settanta è stato una stagione quanto mai ricca per l’assistenza ai poveri. In quegli anni fu costruita “Ca’ Letizia”, aperto “Il Ristoro”, la mensa serale per i poveri della città, e ancora: il magazzino degli indumenti, le docce e il barbiere. Si organizzarono le vacanze estive per gli anziani e gli adolescenti, nacquero il mensile “Il Prossimo” e tante altre iniziative riguardanti la carità, come ad esempio il Caldonatale, “l’epica impresa” degli scout per provvedere legna e carbone per il riscaldamento dei poveri nel periodo invernale.

Come dicevo, alla fine del 1971 fui nominato parroco della parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio a Carpenedo in un’epoca quanto mai difficile per la pastorale in parrocchia, perché in quella comunità periferica ci raggiunse la coda del Sessantotto, il tempo della contestazione.

Sento il bisogno di fare questa premessa perché, specie quest’ultima esperienza, fece emergere il ricordo della mia infanzia, vissuta in un paese povero e in una famiglia di condizioni più che modeste da un punto di vista economico. Col passare degli anni ho capito quanto sia vero che chi non ha fatto esperienza della povertà in prima persona ben difficilmente comprende il dramma dei poveri. Io ho avuto la fortuna di conoscere questo dramma essendo vissuto in una famiglia in cui la mamma e noi sette fratelli, dei quali io sono il più vecchio, dovevamo contare soltanto sullo stipendio di mio padre che era un semplice falegname. (1/continua)

Il problema dei vestiti

Abbiamo ribadito più volte che i magazzini San Martino, ubicati al Centro don Vecchi di Carpenedo in via dei 300 Campi 6 e gestiti dall’associazione di volontariato Vestire gli ignudi, sono una delle più consistenti ed edificanti agenzie di distribuzione di indumenti per i poveri che esistono in Italia: per il numero di volontari, per l’afflusso di clienti e per la quantità di merce esposta. Si calcola, infatti, che abbiano quasi cinquantamila “contatti” all’anno.

I magazzini sono talmente affollati e capaci di rispondere alle più svariate richieste di indumenti che abbiamo ipotizzato la costruzione di un supermercato, attrezzato come quelli esistenti nel settore tessile, per rendere più facile e gestibile l’approvvigionamento di indumenti nuovi, ricevuti grazie a elargizioni di ditte affermate che credono nella loro funzione sociale e offrono la merce un po’ passata di moda. Il fatto che il direttore generale sia il signor Danilo Bagaggia, che ha avuto una carriera lunga e brillante all’interno di Coin e Oviesse, garantisce una rete di supporti e conoscenze che consente ogni anno di avere una grande quantità di indumenti nuovi, di ogni genere e taglia.

Per quanto riguarda l’usato, invece, l’associazione aveva ottenuto dal Comune di Venezia l’autorizzazione a collocare in città una quindicina di cassonetti raccoglitori che i cittadini riempivano con fiducia e grande abbondanza. Ogni giorno un furgone dei magazzini San Martino, guidato dai volontari dell’associazione, raccoglieva i vestiti che poi un gruppo di volontarie si occupava di selezionare per offrire soltanto quelli in buono stato. La raccolta era sempre sufficiente per rispondere alla domanda.

Alcuni mesi fa, purtroppo, una disposizione della Regione ha dichiarato “rifiuti” gli indumenti raccolti sul suolo pubblico e ne ha vietato la permanenza minacciando multe e persino provvedimenti penali per i trasgressori. Di conseguenza, siamo stati costretti a ritirare in fretta e furia i cassonetti, lasciando soltanto i cinque che erano stati sistemati all’interno del patronato della parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio a Carpenedo.

Abbiamo pure avviato una trattativa con la Caritas, l’unico ente che dispone di una convenzione nazionale col Governo, in virtù della quale può collocare a Mestre i cassonetti per la raccolta degli indumenti usati. Confidavamo in una collaborazione che ci sembrava possibile e doverosa, dal momento che il suo scopo precipuo è la promozione della carità all’interno della Chiesa veneziana. Essa, infatti, raccoglie mediante dei cassonetti gialli una grande quantità di vestiti usati. Purtroppo invece, ogni tentativo, per motivi a noi inspiegabili, è caduto nel vuoto.

Adesso ci troviamo pertanto in grossissima difficoltà per l’approvvigionamento degli abiti usati, che rappresentano una parte consistente del vestiario da elargire. Rivolgo quindi un accorato appello ai concittadini esortandoli a portare direttamente al Don Vecchi i vestiti che vogliono mettere a disposizione dei poveri. Qualora la quantità da ritirare giustifichi l’uscita di un furgone, telefonate al numero 0415353210 per prendere accordi. In queste ultime settimane un magazzino di Noale ha donato un paio di furgoni di indumenti, ma è chiaro che, se vogliamo continuare quest’opera di carità cristiana, dovremo trovare una soluzione adeguata e, per farlo, abbiamo bisogno del supporto di chi opera nell’organizzazione pubblica.

L’assistenza ai Don Vecchi

Nel post precedente mi sono occupato della ristorazione ai Centri Don Vecchi affermando che le soluzioni adottate sono perfettamente in linea con la dottrina a cui si ispirano le nostre strutture. Ora, invece, vorrei affrontare la questione dell’assistenza medica, infermieristica, sociale e personale. I nostri miniappartamenti vengono giustamente definiti “alloggi protetti”, perché tentano di sopperire al deficit esistenziale che contraddistingue la terza e la quarta età. Gli anziani che accogliamo hanno un’età compresa tra i sessantacinque e gli ottantatré anni e, per fronteggiare la diminuzione di autonomia la Fondazione Carpinetum perciò propone le seguenti soluzioni:

  • Gli alloggi vengono assegnati ad anziani che dispongono di risorse finanziarie modeste o precarie e, in un’ottica di contenimento dei costi, si è deciso di non assumere né medici né infermieri. Pertanto, i residenti vengono invitati a scegliere come medico di famiglia quello con cui la Fondazione ha stretto un accordo e al quale viene offerto un ambulatorio gratis in ogni struttura. Questa scelta consente di abbattere i costi e offre l’opportunità di avere un dottore “in casa”. Ciascun residente è comunque libero di scegliere il medico che preferisce, facendosi carico dei disagi che questa decisione può comportare.
  • Per quanto concerne l’aspetto infermieristico, ogni struttura mette a disposizione un’assistente domiciliare che sorveglia la situazione, rammenta l’assunzione dei farmaci, comunica alla Direzione eventuali difficoltà di ordine fisico o psico-fisico, e in caso di urgenza, chiama il 118.
    Gli anziani in difficoltà possono avere soccorso immediato, giorno e notte, chiamando il numero 333 dal telefono di cui ogni alloggio è provvisto. In caso di condizioni di salute precarie, consigliamo di richiedere il servizio di telesoccorso che, in prima battuta, contatta la nostra assistente di turno.
  • Dal momento che i nostri centri sono pensati per anziani autosufficienti, i familiari e soprattutto il “garante” (la persona che si fa carico di ogni decisione riguardante la permanenza al Don Vecchi) sono tenuti, per statuto, a trasferire il proprio congiunto, non più autosufficiente, in una struttura più idonea. Attualmente si concede la permanenza nel centro a patto che venga fornita assistenza da parte dei familiari o di una figura terza e si avvisa che non si richieda un supporto che non è previsto.

La Fondazione comunque si è attivata affinché l’azienda sanitaria locale invii nei vari centri infermieri per gli esami del sangue e altre prestazioni previste dai regolamenti sanitari. In Direzione opera anche la dottoressa Rosanna Cervellin, una volontaria molto qualificata, che si adopera per facilitare i ricoveri e gli interventi di carattere medico, infermieristico, sociale e previdenziale. In virtù della stima di cui la Fondazione gode presso gli uffici comunali, le strutture sociali e all’interno della Croce Rossa, gli interventi sono immediati e realizzati con grande professionalità. Ho ritenuto opportuno segnalare tutto quello che i Centri don Vecchi possono offrire e tengo a precisare con altrettanta franchezza quello che non ci si può illudere di ottenere. La filosofia che è stata adottata consente di vivere nelle nostre strutture spendendo un quarto o forse meno rispetto a qualsiasi casa di riposo e conducendo una vita migliore e più confacente alle normali attese di una persona.

Dove sono finiti i giovani?

preti e fedeli fanno la pubblica confessione: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Solo dopo aver ricevuto la duplice assoluzione, è possibile partecipare all’Eucarestia. Permettetemi di confidarvi questo: con nostro Signore ho un rapporto diretto e so che Lui conosce bene i miei peccati e che è sempre misericordioso. Tuttavia sento il bisogno di chiedere perdono anche a voi fratelli, perciò mi confesserò davanti a voi per poter partecipare alla cena eucaristica con il cuore sgombro. Vi chiedo la cortesia di dedicarmi qualche minuto, nella speranza di ottenere il vostro perdono e di mettermi l’anima in pace per poter partecipare alla messa senza compiere un sacrilegio! Portate pazienza, perché ho bisogno di prendere il discorso un po’ alla larga.

Qualche giorno fa, come immagino capiti a tutti, stavo facendo zapping alla ricerca di un programma che destasse il mio interesse. Per un prete di novant’anni, vi assicuro che non è molto facile trovare un programma che non sia noioso o irritante! Neanche a farlo apposta, su uno dei tanti canali, mi sono imbattuto in un gruppetto di adolescenti che in motorino, in bicicletta o addirittura con i pattini andavano a consegnare un pacco di generi alimentari a una famiglia povera della parrocchia, che qualcuno aveva segnalato. Mi sono sembrati questi ragazzi davvero tanto belli e felici! Stando a quanto diceva lo speaker, si trattava di un emporio solidale parrocchiale che si avvaleva dell’opera di questi ragazzi per raggiungere chi aveva difficoltà a uscire di casa, portando i generi alimentari in scadenza, offerti dai supermercati. La cornice era una cittadina di quel Meridione, che noi veneti spesso consideriamo pigro e indolente.

Qualcuno penserà che questo vecchio prete impenitente e brontolone dovrebbe essere stato felice di aver scoperto una bella testimonianza di solidarietà cristiana, invece non è stato così e ora vi spiego perché. Al Don Vecchi, in una decina di anni, siamo riusciti a organizzare un centro di raccolta e di distribuzione di aiuti di ogni genere a favore dei poveri, che senz’altro mezza Italia ci invidia. Purtroppo, però, l’attività procede con tanta fatica e quasi esclusivamente grazie all’aiuto di un gruppetto, sempre più esiguo, di pensionati. Lo dimostra il fatto che sono costretto quasi ogni settimana a lanciare appelli per reclutare nuovi volontari. Attualmente ci giunge ogni ben di Dio e in grande quantità.

Il mio peccato d’invidia nasce dal fatto di vedere tanta gioventù bella ed efficiente nel Sud d’Italia, mentre noi dobbiamo affidarci a uno sparuto gruppetto di anziani! Vi chiedo l’assoluzione per la delusione e la rabbia che provo ogni volta che ci troviamo in difficoltà. Non riesco davvero a capacitarmi della mancanza di manodopera giovane disponibile per la carità. Dove sono i 5-600 scout di Mestre, gli adolescenti dell’Azione Cattolica, i membri dei gruppi di Comunione e Liberazione, di Rinnovamento dello spirito, i Neocatecumenali, i devoti che vengono a Messa ogni domenica? Quale formazione cristiana offrono i trenta, quaranta preti della nostra città? Pensar male è peccato, lo so; io purtroppo lo commetto molto spesso, ma non sono neanche tanto pentito e men che meno sono disposto a promettere di non farlo più!

Cari cristiani di Mestre, nel chiedervi l’assoluzione di cui ho bisogno, vi avverto che non sono disposto, e non posso, darla a voi, se non provate ad amare il prossimo come voi stessi! Credo che per voi, come per me, la conversione sia assolutamente necessaria!

Ristorazione al Don Vecchi

Purtroppo credo che alcuni mestrini considerino ancora i Centri Don Vecchi delle case di riposo, moderne magari, ma nulla più di questo. Pur avendolo scritto ormai molte volte, ritengo opportuno ripetere che le nostre strutture sono proprio l’opposto. In casa di riposo, infatti, l’anziano è a pensione, e tutte le decisioni vengono prese dalla direzione, mentre nei nostri centri i residenti rimangono protagonisti della loro vita. La direzione, semmai, li “costringe” a rimanere autonomi fino all’ultimo respiro, perché questo significa vivere da persone libere e intelligenti!

Gli appartamenti che mettiamo a disposizione, a costi accessibili anche per chi ha la pensione minima, vengono definiti “alloggi protetti” in quanto prevedono supporti di ordine strutturale, sociale e organizzativo che contribuiscono a dare sicurezza all’anziano, il quale comunque rimane libero di gestire la propria vita come meglio crede.

Vorrei soffermarmi in particolare sulla ristorazione che considero un aspetto molto innovativo della nostra proposta. Ogni alloggio è provvisto di un angolo cottura, studiato appositamente per occupare poco spazio, ma che comunque garantisce comodità e sicurezza. I residenti che si preparano i pasti in casa, possono disporre di generi alimentari, frutta e verdura a costi pressoché simbolici che l’associazione Il Prossimo mette a disposizione.
Noi suggeriamo loro di provvedere in maniera autonoma al pranzo e alla cena per mantenersi attivi e occupare il tempo in maniera costruttiva.
Ciononostante, nei nostri centri è stato allestito un ristorante, gestito dal catering “Serenissima Ristorazione” di Vicenza, che prepara il pranzo presso un centro cottura ubicato all’interno del centro Don Vecchi 1 a Carpenedo. Il pasto, servito in un locale signorile, prevede: un primo piatto, ogni giorno diverso, un secondo, che viene sempre variato e accompagnato da un contorno, frutta fresca e, per chi lo desidera, purè e verdura di stagione, oltre a un dessert generosamente offerto da molte pasticcerie di Mestre che, quasi ogni giorno, ci regalano i dolci invenduti. Con cinquanta centesimi poi ogni commensale può prendere vino, bevande e caffè a un distributore automatico. Il pranzo costa cinque euro, tuttavia ai residenti che hanno una pensione di seicento euro finora siamo riusciti ad addebitare soltanto due euro e cinquanta, grazie al contributo donato dall’associazione Vestire gli ignudi.

Due volte al mese le porte del Senior restaurant si aprono per tutti gli anziani della città e, in questa occasione, viene servito anche un antipasto.

È previsto inoltre un servizio di consegna a domicilio dei pasti per gli anziani che, per qualche motivo, non possono recarsi al ristorante. Il servizio in sala, invece, viene svolto da un gruppo di volontari, a turni di cinque o sei.

Qualcuno forse si domanderà perché questo vecchio prete, ormai novantenne, tenga a puntualizzare queste cose. Per vanteria o vanagloria? No, cari lettori! Pur essendo orgoglioso e felice della soluzione che abbiamo adottato, sono consapevole che gli artefici di questi “miracoli” sono i concittadini che credono nella solidarietà, ma so altrettanto bene che molti altri “miracoli” si potrebbero ancora concretizzare, se qualche altro mestrino si unisse a noi!