Il blog di don Armando Trevisiol

La fine dell’impegno di Don Armando ne “L’Incontro” segna anche il termine di questo diario, sebbene speriamo di convincerlo a scrivere ancora, pur non quotidianamente.

Quanto pubblicato finora resta visibile e commentabile. Come fatto finora, i commenti saranno inoltrati a suor Teresa che li stamperà e consegnerà a don Armando. Lo stesso per qualsiasi email.

L’Incontro volta definitivamente pagina

Nel primo numero del gennaio 2015 annunciai che, soprattutto per il fatto che mi avvio rapidamente verso i novant’anni, ritenevo doveroso passare il testimone della direzione del nostro periodico a don Gianni Antoniazzi, presidente della Fondazione dei centri don Vecchi.

Il tempo, per far si che il passaggio fosse dolce e graduale è stato piuttosto lungo, ma ora è giusto voltar definitivamente pagina, consegnando il periodico a chi ha domani.

Confesso che mi costa molto lasciare questo settimanale, che mi ha offerto infinite soddisfazioni e che mi ha permesso di parlare a cuore aperto per ben dieci anni alla città, che amo e per la quale ho dedicato la gran parte della mia vita.

Lascio “L’incontro” con i suoi cinquanta collaboratori e le sue cinquemila copie settimanali e mi auguro, che chi lo riceve, riesca a farlo crescere ulteriormente essendo esso il periodico del mondo cattolico di gran lunga più letto nella nostra città.

Saluto tutti i lettori con grande affetto e ringrazio di cuore i miei meravigliosi collaboratori.

Mi scuso per certe intemperanze e per i miei moltissimi limiti.
A tutti buon 2016

don Armando Trevisiol

La memoria dei religiosi

Io mi occupo del Camposanto da una vita. Le cose sono andate così. Un giorno di più di mezzo secolo fa, entrato per caso nella cappella costruita nell’ottocento assieme al primo recinto del nostro Camposanto su disposizione di Napoleone che giustamente volle i cimiteri lontani dalle chiese e dagli agglomerati civili, notai lo stato di abbandono totale in cui si trovava. Morto don Cortivo, che vi aveva officiato per qualche anno la Santa Messa, nessuno aveva più pensato a questa piccola cappella caduta in totale abbandono. Chiesi il permesso a Monsignor Da Villa, che era il mio parroco, di occuparmene perché quell’edificio sacro ritornasse a essere dignitoso e praticabile. Con il tempo mi sono talmente affezionato a quella chiesa e al Camposanto che da quando sono diventato un sacerdote pensionato me ne occupo a tempo pieno. Parto da questa premessa per giustificare il motivo della mia riflessione. Intorno al 1987 don Pace mi fece osservare che, mentre nel passato in cimitero c’era un “campo” riservato ai sacerdoti e alle religiose, in quegli anni per carenza di spazio lo avevano tolto per cui da allora i religiosi venivano sepolti un po’ in tutti “i campi”. Questo fatto non è di certo una cosa tragica ma a quel tempo c’era ancora la convinzione che i resti mortali delle persone consacrate dovessero riposare in un luogo riservato solo a loro.

Partendo dal suggerimento di don Pace promossi una colletta tra preti frati e suore, raccolsi nove milioni di vecchie lire e feci costruire, sulla collinetta accanto al monumento dei soldati austriaci caduti nella Prima Guerra Mondiale, una tomba molto capiente ove custodire i resti mortali dei religiosi e, ora che va di moda, anche le loro ceneri. Su questa collinetta fa bella mostra di sé una croce particolare progettata dall’architetto Renzo Chinellato. Ora però purtroppo avverto un certo senso di colpa per non aver curato più di tanto questa tomba che nella sua semplicità è certamente dignitosa ma di cui temo che né i preti, né i frati, né le suore né tantomeno i fedeli conoscano l’esistenza. Mi sono perciò riproposto di intervenire con “qualche segno” che evidenzi il luogo che custodisce i resti mortali di chi ha tentato di dedicare interamente la propria vita ai “figli di Dio” di questa nostra città e, passandovi davanti, li ricordi con una preghiera. Il mio Angelo Custode però, con discrezione e delicatezza, mi ha fatto osservare: “Non è che ora hai deciso di occuparti di questa tomba perché presto diventerà anche la tua dimora per sempre?”. Il mio Angelo Custode è saggio e onesto e devo ammettere che non ha tutti i torti ma piuttosto che le mie ceneri vadano disperse nel giardinetto del piazzale preferirei che riposassero sotto la croce della collinetta.

Le preghiere

Gesù ha affermato che nessuno è profeta nella sua patria e ha fatto questa affermazione quando ha provato l’amarezza del rifiuto e dell’ostilità del suo popolo. Il rifiuto del popolo di Gesù, generato dall’affermazione di Cristo di essere venuto non solo per il bene della sua gente ma per quello di tutti anche degli stranieri e dei popoli con fedi diverse, è arrivato al punto di spingere alcuni a tentare di ucciderlo gettandolo da un dirupo.

Di certo io non posso paragonarmi a Cristo, Lui aveva la possibilità di donare la verità, la salvezza, di indicare la via per arrivare al Padre mentre io non posso donare altro che qualche convinzione, qualche proposta o qualche interpretazione del messaggio evangelico.

Posso però confessare che in tutta la mia vita ho cercato soluzioni innovative per quanto riguarda la pastorale, la carità, la fede e l’interpretazione del messaggio evangelico. Posso affermare anche, senza tema di smentita, che le nuove soluzioni che ho cercato sono sempre state in linea con la sensibilità e i problemi della mia gente.

Penso però che un po’ per il mio carattere chiuso, per la franchezza delle mie prese di posizione e per le mie denunce mi sono trovato spesso solo, isolato e rifiutato dai vicini ma soprattutto dai colleghi mentre sono stato più che mai appagato dalla stima, dall’affetto e dalla condivisione dei lontani. I Comuni, le associazioni di volontariato, i giornali e le televisioni che sono venuti al Don Vecchi non si contano; ho sempre avuto la sensazione che moltissimi siano quanto mai interessanti alle nostre esperienze, desiderosi di conoscerle in maniera più approfondita mentre i vicini pare non solo che le diano per scontate ma anzi che ne siano irritati.

Oggi il cappellano di un ospedale di una città del Veneto, e non è il solo, mi ha chiesto se fosse possibile ricevere il nostro libretto di preghiere del quale finora abbiamo stampato 60.000 copie mentre sembra che qui nessuno, che si occupi dell’assistenza degli ammalati, abbia mostrato una qualche forma d’interesse. Non vorrei proprio che una volta morto mi facessero diventare una “bandiera”.

Liete sorprese

Un tempo “nell’introitus ad altare Dei”, parole con le quali si iniziava la santa Messa in latino, ci si riferiva a Dio che “allieta la nostra giovinezza”. Ora però ho felicemente compreso che il buon Dio è disposto ad accettare anche la nostra vecchiaia quando ci si rivolge a Lui con fiducia e confidenza. Ho constatato che quando sono più stanco, più depresso e più cosciente dei miei acciacchi e dei miei limiti il Signore mi manda qualche segno della sua attenzione e della sua benevolenza, segno che mi incoraggia e che mi aiuta a riprendere fiato e a continuare il mio servizio.

Qualche tempo fa, come ho già confidato ai miei amici, quasi un’intera classe delle magistrali, che festeggiava il mezzo secolo dal diploma, mi ha invitato a pranzo per celebrare questo lieto evento assieme al loro vecchio insegnante. Questo incontro mi ha riempito di consolazione perché ho potuto toccare con mano la loro stima e il loro affetto: ricordarsi di un vecchio prete dopo mezzo secolo di vita non è proprio una cosa di tutti i giorni.

Qualche tempo fa ho incontrato uno dei miei ragazzi scout che non vedevo da almeno venti-trent’anni. Sapendo che aveva fatto la carriera militare come suo padre e pensando che fosse arrivato al grado di maresciallo, gli ho chiesto scherzando: “Non sarai mica arrivato a generale?”. Con mia infinita sorpresa mi sono sentito rispondere: “Si don Armando mi sono appena congedato con il grado di generale dell’Aeronautica!” e sorprendendomi ancora di più mi ha confidato che si sarebbe reso disponibile a fare l’aiuto tipografo per la stampa de “L’incontro”.

L’altro ieri ho celebrato il commiato della madre di un anziano signore che mi ha detto: “Non si ricorda di me don Armando? Ero scout nella squadriglia delle volpi” e continuando in quel dialogo caldo e affettuoso mi ha ricordato che “Vassili”, un altro scout, è arrivato a ricoprire l’incarico di ambasciatore in Turchia.

Se prestiamo un po’ di attenzione ci accorgeremo che nei momenti di sconforto il Signore non manca mai di farci una carezza, una battuta sulle spalle o un complimento per risollevarci dalla tristezza.

“I morti”

Alla mia età ogni giorno sono costretto a misurarmi con le atmosfere un po’ romantiche ma sempre vere delle nostalgie, dei rimpianti e dei confronti descritti in maniera magistrale da Antonio Fogazzaro nel suo splendido romanzo: “Piccolo mondo antico”. Oggi poi l’evoluzione del costume, della mentalità e del modo di pensare e di vivere è così veloce da far emergere, in una persona di novant’anni nel confronto tra le proprie esperienze pregresse e il modo d’essere del giorno d’oggi, differenze veramente abissali. Io da più di mezzo secolo mi occupo della chiesa del cimitero, di questo piccolo mondo racchiuso da mura e cancelli e trapunto di cipressi alcuni secolari e altri appena piantati.

Sia chiaro, io non condanno, non mi ribello e non rifiuto il modo attuale di “vivere” l’evento della morte e il rapporto con i defunti ma sono costretto a fare confronti e valutazioni.

Sono quanto mai perplesso di fronte a una certa indifferenza e a una certa disinvoltura nel non affrontare questa realtà quasi nel “tentativo” di ignorarla, come non facesse parte delle problematiche della vita.

Lasciatemi fare qualche confronto tra i più evidenti e riscontrabili. Ricordo che intorno agli anni 60, tempo in cui ero cappellano presso il Duomo di Mestre, per il funerale si faceva una lunga processione aperta dalla croce, al passaggio del corteo le persone si toglievano il cappello e si facevano il segno della croce e i negozianti abbassavano le serrande.

Per “i morti”, all’imbocco di via Spalti, c’era una tale ressa di persone che si recavano alle tombe dei propri cari da far fatica ad aprirsi un varco tra la folla. Oggi al Duomo si permette di entrare in piazza solo al carro funebre che poi, seguito da qualche autovettura con i parenti più stretti, raggiunge velocemente il camposanto. Oggi spessissimo ai funerali partecipa un numero sparuto di persone e dopo il rito funebre, mentre la salma parte solitaria per la cremazione, la gente si sofferma a lungo a chiacchierare, almeno in apparenza, in maniera piacevole.

La società ha di certo ritmi diversi ma, mentre la realtà della morte rimane quella di sempre, le certezze che un tempo accompagnavano questo evento sembrano sbiadite e surrogate da un pragmatismo arido e in evoluzione talmente rapida che, almeno in apparenza, non consente più né di porti domande né di trovare risposte. Confesso che non mi so rassegnare ad una vita spesso faticosa che non conduce da nessuna parte se non alla tomba perciò mi aggrappo al pensiero della Terra Promessa e del Paradiso.

L’importante è seminare

Una delle utopie a cui ho sempre aspirato è quella di trasformare Mestre in una città solidale. Questa scelta non è nata come una propensione a una filantropia civile ma dalla convinzione profonda che la pratica religiosa, se non diventa solidarietà, rimane pietà fatua ed inconsistente.

L’inizio di questo mio cammino ha avuto origine con l’incontro casuale che ebbi, più di mezzo secolo fa, con un minuscolo gruppo della San Vincenzo presso la parrocchia del Duomo di Mestre. Mi parve allora che Federico Ozanam avesse suggerito un metodo e una finalità alquanto concreta ed anche se non aspirava a risolvere radicalmente il problema dei poveri aveva posto un mattone reale per creare questa struttura o, per dirla come madre Teresa di Calcutta, una goccia che contribuisce a dare vita al grande oceano. In qualche decennio la San Vincenzo crebbe, si diffuse in moltissime parrocchie, acquistò credibilità a livello della città e diede vita ad una serie di iniziative concrete, alcune delle quali ancora vive: Ca’ Letizia, il Ristoro, il mensile il Prossimo, il guardaroba, le docce, il barbiere, le vacanze per i vecchi e per gli adolescenti e le attività di formazione dei ragazzi alla solidarietà.

La seconda fase di questo progetto la sviluppai in parrocchia a Carpenedo con il Ritrovo, con Villa Flangini, con i Centri Don Vecchi e con la Bottega Solidale.

La terza fase si è concretizzata nel dopo pensione con il Polo della Solidarietà: vestiti, mobili, arredo per la casa, supporti per gli infermi, il Banco alimentare, lo spaccio per i generi alimentari in scadenza, il chiosco di frutta e verdura e il Ristorante Serenissima, ultimo nato.

Queste strutture penso abbiano fatto crescere lentamente una mentalità solidale a livello cittadino: vedi i numerosi lasciti, le eredità veramente consistenti che non possono essere giustificate se non dalla crescita di questa mentalità solidale. Prova ne sia: l’eredità Saccardo, il lascito dell’ingegner Cecchinato e il lascito di Anita Bergamo, ultimi segni di questo “campo coltivato” e ormai in fiore. L’origine di questa primavera della solidarietà è sempre la stessa: seminare gesti concreti di carità cristiana che prima o poi fioriranno e porteranno frutto.

I complotti contro il Papa

La notizia di due giorni fa che in Vaticano hanno individuato un secondo corvo che, per denaro o forse peggio ancora per screditare e per bloccare la riforma della Chiesa che Papa Francesco tenta di portare avanti prima con l’esempio e poi con la parola, mi ha veramente addolorato e indignato.

Ho sempre pensato che ci fossero delle resistenze da parte della gerarchia ecclesiastica, composta da persone abituate a vivere in palazzi dorati, venerate come semidei, in una cornice di prestigio principesco e in un contesto sacrale al di fuori della vita di tutti gli altri uomini; comprendo anche che costoro mal sopportino che si tolgano loro i baldacchini, i riti ampollosi, i titoli magniloquenti e il servilismo dei “dipendenti” però che si arrivasse a tanto proprio non me lo sarei mai immaginato.

In verità anche nel passato avevo avuto qualche dubbio che una parte dell’alta gerarchia, supportata da religiosi ai livelli più bassi dell’organizzazione, appartenesse ad una corporazione o peggio ancora ad una casta poco disponibile a una riforma da Vangelo però non avrei mai immaginato che questa avesse intenzione di organizzarsi per mettere i bastoni tra le ruote al tentativo di Papa Francesco di dar voce ad una Chiesa povera per i poveri.

Capisco che i mass-media siano quanto mai ghiotti degli scandali ecclesiastici e perciò, a volte, peschino nel torbido ingrandendo ed enfatizzando episodi che si verificano anche nelle migliori comunità, temo però che ora dietro a queste notizie si nasconda un realtà peggiore di quanto pensassi. Un paio di giorni fa un’anziana signora che partecipa alla vita religiosa della mia Chiesa mi ha portato l’ultimo numero di Panorama, periodico che non leggo mai e di cui non conosco l’orientamento ideologico, segnalandomi l’articolo del giornalista Ignazio Ingrao dal titolo: “Congiure in San Pietro”, articolo che mi ha lasciato letteralmente di stucco.

La Chiesa nella sua storia di crisi ne ha superate di ben più gravi, però mi addolora che questo Papa, che non solo per me ma anche per tutto il mondo cattolico rappresenta il meglio che si potesse sognare e desiderare, possa essere boicottato per intralciare una riforma che profuma di Vangelo. È veramente uno scandalo grave! Io, per quanto è nelle mie possibilità, farò del mio meglio per sostenerlo e seguirlo.

I soccorritori dei poveri

L’aspetto della pastorale che riguarda i poveri mi ha sempre interessato quanto mai perché da sempre sono convinto che se la religione alla fin fine non diventa solidarietà si riduce ad essere “aria fritta”. Per questo motivo ho speso metà della mia vita per aiutare i più poveri della nostra società e l’altra metà per stimolare le parrocchie e i singoli cristiani a impegnarsi seriamente in favore dei poveri.

Sono dovuto arrivare però a questa veneranda età per comprendere che non basta darsi da fare per aiutare chi è in difficoltà organizzando la comunità per recuperare quello che serve per prestare questo soccorso perché, fino a quando non si riesce a calarsi nella realtà in cui vive il povero, si rischia di fare solo della beneficenza ma ben difficilmente “ci si fa prossimo” come ci ha insegnato Gesù nella parabola del Buon Samaritano.

Qualche giorno fa sfogliando un giornale mi è capitato sotto gli occhi l’immagine di una giovane donna che con i sandali ai piedi cammina sulle dune di sabbia del deserto. La didascalia informava che si trattava di una “piccola sorella di Gesù”, ossia un’appartenente a quella congregazione religiosa che si rifà alla testimonianza di Charles de Foucauld, religioso che ha insegnato che per comprendere e aiutare i poveri bisogna vivere “come loro”.

La fotografia mi ha fatto venire in mente un episodio di tanti anni fa. Un giorno, alla porta della mia canonica, bussarono due giovani donne, una francese e una di Napoli, “due piccole sorelle di Gesù”, che mi chiesero se potevo aiutarle a trovare un lavoro perché avevano esaurito la loro piccola scorta di denaro. Dissi prontamente che avrei provveduto io ma gentilmente mi risposero che il pane volevano guadagnarselo. Proposi allora alcune soluzioni che mi sembravano confacenti alla loro condizione di suore ma gentilmente rifiutarono nuovamente: “Noi vogliamo vivere come le donne più povere, quindi le saremmo grate se ci trovasse un lavoro umile come lavare le scale”.

Capii allora che per occuparsi veramente e in maniera efficace dei poveri bisogna calarsi nella loro condizione esistenziale. Ho tentato. Quando sono andato in pensione infatti ho scelto di vivere al Don Vecchi come gli anziani poveri che ho cercato di aiutare però, quando entro nel mio studiolo, stanzetta di cui nessuno di essi dispone, mi sento sempre un po’ in colpa!

Amarcord delle magistrali

Qualche settimana fa è venuta a trovarmi al Don Vecchi una delle mie “ragazze” delle magistrali, facendomi una proposta che mi ha alquanto sorpreso ma che nello stesso tempo mi ha fatto molto piacere. Questa donna ultrasessantenne, che ha mantenuto una sua bellezza composta ed armoniosa, mi ha detto che lei e le sue compagne di classe, diplomatesi mezzo secolo fa, avrebbero desiderato festeggiare l’evento venendo a pranzare da me al Senior Restaurant del Don Vecchi.

Io ho sempre avuto un certo timore di questi incontri il cui denominatore comune sono vecchi ricordi un po’ sbiaditi e trasformati da tutte le vicende che si sono susseguite da quei tempi lontani ricchi di sogni, di emozioni e di progetti che la vita poi spesso smorza o perfino distrugge. Sarebbe stato però scortese non aderire a questo invito così cordiale che, tutto sommato, nasceva dalla simpatia e da una qualche forma di riconoscenza. Mi lusingava poi il fatto che di tutto lo staff di docenti che, insegnavano materie con un peso ben più consistente della religione, avessero scelto proprio me.

Pur con qualche piccola esitazione e preoccupazione le ho detto che sarei stato molto contento che fossero mie ospiti per il pranzo di una domenica di metà ottobre. Non è che non incontri spesso e con piacere qualche donna dai capelli grigi che mi dica: “Si ricorda don Armando che è stato mio insegnante alle magistrali?”, incontrare però quasi una classe intera è stata un evento veramente insolito. L’incontro è stato molto più felice e positivo di quanto potessi immaginare. Quello che mi ha fatto poi molto piacere è stato il constatare che sono rimaste donne sane, con valori evidenti e soprattutto il sentire che manifestavano con sincerità simpatia, affetto e riconoscenza per il loro vecchio insegnante che ha tentato con tutte le sue forze di trasmettere loro una visione positiva della vita.

L’insegnamento alle superiori mi costò veramente tanto anche perché sono sempre stato convinto di non aver le qualità necessarie, comunque sono stato contento che per loro il ricordo sia rimasto molto positivo.

Un incontro desiderato

Alcune settimane fa mi è stato chiesto dalla Fondazione di scrivere una lettera al Sindaco per elencare i punti critici dei Centri Don Vecchi al fine di superarli lavorando in sinergia con il faraonico apparato comunale. Ho scritto, come mi viene naturale, una lettera con tanto pepe chiedendo al Sindaco un colloquio per mettere a punto il rapporto che io ritengo assolutamente necessario con l’ente pubblico, rapporto in cui il ruolo dell’ente pubblico ritengo non debba essere quello di gestire i servizi sociali ma quello di svolgere una regia intelligente per tutte quelle realtà di base a cui, a vario titolo, sta a cuore il bene della comunità.

Quando, durante la campagna elettorale, ho avuto modo di incontrare l’aspirante Sindaco gli ho chiesto di instaurare un rapporto privilegiato con il “privato sociale” e più volte mi sono permesso di suggerirgli di mantenersi alla larga dai sindacati, dai centri sociali, dai “comitati no a tutto” e dalle nobildonne che quando s’incontrano per il tè si sentono delle dogaresse.

Ho fatto presente al Sindaco, come detto, alcuni punti critici della Fondazione, anche se essa naviga con il vento in poppa. Avrò modo, in altre occasioni, di ritornare su queste criticità per le quali è necessario il dialogo con l’Amministrazione Comunale così come è necessario per il Comune dialogare con una realtà che mette a disposizione quasi 500 alloggi per gli anziani più poveri e che rappresenta una delle strutture più avanzate e moderne per la loro domiciliarità.

Le sensazioni che ho avuto dal colloquio sono state sostanzialmente positive. Brugnaro mi è parso un uomo intelligente, concreto, con un’ottima conoscenza dei problemi, estraneo al politichese degli uomini di partito, con idee e obiettivi condivisibili, totalmente allergico alla dialettica fatua ed inconsistente degli amministratori impreparati e sapientoni espressione dei partiti di qualsiasi colore, pragmatico e in rottura con la prassi amministrativa di una sinistra che ha portato al limite del fallimento il nostro Comune. Se penso però a tutto quel mondo clientelare e interessato che dovrebbe sradicare, temo che non gli basti la semplice Ave Maria serale che gli dedico, forse non gli basterebbe neppure l’intero Rosario.

Un segno di speranza

Lunedì scorso ho confidato ai miei amici lettori tutta l’amarezza, lo sconforto e lo sconcerto che la tragica morte dei coniugi Cecchinato ha generato nel mio animo.

I mass-media, partendo dalle manifestazioni di stima e di riconoscenza che avevo espresso con alcune note in occasione dell’elargizione di euro 100.000 che l’ingegner Cecchinato ha fatto, note che sono poi state inserite nel mio blog, le testate giornalistiche e le emittenti locali mi hanno letteralmente sommerso con richieste di ulteriori informazioni. Io però, oltre alla stima e alla riconoscenza nei confronti di un concittadino che quasi senza conoscermi aveva fatto a favore del Don Vecchi un’elargizione tanto significativa, ho potuto aggiungere poco altro se non l’amarezza e il rammarico per non essere stato capace di offrirgli quella speranza necessaria ad impedire l’amara e tragica conclusione della sua vita e di quella della moglie.

Ai miei intervistatori non ho mancato di dire che il mio Dio è quello che ho conosciuto nella parabola del “figliol prodigo” in cui abbiamo imparato a conoscere il Suo cuore sconfinato. Ho approfittato anche per dire loro che solo Dio conosce “i reni e il cuore” di ogni creatura ed ho ripetuto il pensiero di Sant’Agostino che afferma che “ci sono uomini che Dio possiede e la chiesa non possiede” per poi ribadire la tesi del Cronin che, nel suo volume: “Le chiavi del Regno”, afferma che per arrivare al Regno ci sono persone che imboccano l’autostrada, altre che percorrono strade sterrate ed altre ancora sentieri impervi più o meno tracciati.

Per questi motivi non dispero e credo che anche questi coniugi abbiano imboccato una strada poco battuta ma che comunque porta a quel Padre che accoglie tutti dicendo: “Entra e facciamo festa perché eri lontano e sei tornato”. Ieri e oggi ero immerso in questi pensieri quando, dalla segreteria del Don Vecchi, mi hanno informato che il giorno precedente la sua tragica morte l’ingegner Ernesto Cecchinato ha versato euro 20.000 per i nostri vecchi che non ha mai né visto né tantomeno conosciuto. Una volta ancora mi risuonano nel cuore le splendide parole di Sant’Agostino: “Ama e poi fa quello che vuoi”.

Esco ancora una volta allo scoperto

La riflessione su cui sento il sacrosanto dovere di ritornare l’ho già fatta non molto tempo fa. Oggi è diventata attuale l’espressione che l’arcivescovo della capitale francese aveva anticipato ben quarant’anni fa: “Parigi è terra di missione”. In quella famosa lettera pastorale, che ha turbato l’opinione pubblica del mondo ecclesiale, questo cardinale ha snocciolato dati che denunciavano la secolarizzazione o peggio ancora la scristianizzazione dei cittadini della grande metropoli d’oltralpe.

A quel tempo con monsignor Vecchi feci un viaggio di esplorazione pastorale in Francia perché, pur in quel contesto di abbandono della pratica religiosa, in Francia c’erano anche delle punte di diamante che pareva avessero molto da insegnare. Mestre deve a quel viaggio apostolico la nascita della “Borromea” e dei “bollettini parrocchiali”. Alla conclusione di quell’esperienza con Monsignore siamo arrivati a questa conclusione: “Dobbiamo riuscire a portare la nostra gente ai livelli più avanzati della Chiesa francese senza però cadere nell’inferno della scristianizzazione di massa”. Non ci siamo riusciti e ora le parrocchie della nostra città stanno slittando progressivamente, in maniera ineluttabile, verso il vortice dell’indifferenza e dell’abbandono.

Questa è una tristissima constatazione, è ancora peggio però non notare alcun segnale dei tentativi di contrastare questa catastrofe. Qualche giorno fa ho appreso da una “soffiata” che Gente Veneta, l’unico giornale d’ispirazione cristiana, a Mestre ha una tiratura di poco superiore alle 1000 copie. Ciò significa che, se fosse vera la più lusinghiera delle ipotesi e cioè che la presenza di fedeli al precetto festivo raggiunge forse il 15%, e quindi solo questo 15% ascolta un discorso religioso attraverso il sermone del parroco, il restante 85% dei mestrini non è raggiunto da alcuna proposta religiosa. Da questi dati mi sono reso conto della grande responsabilità che noi de L’Incontro abbiamo nel continuare a diffondere le 5000 copie del nostro settimanale. Sono corso ai ripari chiedendo a sacerdoti e laici collaborazione perché suddetta proposta possa mantenere il suo standard elevato e magari migliorarlo ma finora non ho ottenuto alcun risultato positivo.

Appelli caduti nel vuoto

Carissimi amici, sono consapevole che spesso approfitto della vostra cortesia e benevolenza, comunque per vostra consolazione vi preannuncio che con la fine di quest’anno cesserò di tediarvi ripetendo spesso le solite cose. A mia giustificazione vorrei citare una bella preghiera che qualcuno ha composto pensando ai limiti che l’età impone all’anziano. Nella preghiera che è intitolata: “Le beatitudini dell’anziano” c’è una frase che recita pressappoco così: “Beati quelli che non mi fanno osservare che quella cosa l’ho detta più volte e perciò la ascoltano come fosse la notizia più interessante del mondo”.

Fatta questa premessa e offertavi questa “beatitudine” interessata vengo al motivo per il quale vi chiedo, per l’ennesima volta, di pazientare se ritorno su un argomento che so di aver già trattato: l’apertura del “Ristorante Serenissima” per le famiglie in difficoltà. Questo “ristorante” è aperto da tre giorni però delle 110 cene offerteci dal signor Mario Putin del “Catering Serenissima” finora ne utilizziamo solo 40 per mancanza di “clienti”. Lo staff che mi ha aiutato nell’organizzazione di questa “impresa” ce l’ha messa tutta: ha scritto a tutti i parroci, ha preso contatto con le assistenti sociali del Comune, con la Municipalità, con la Caritas e con la San Vincenzo. La collaborazione delle testate giornalistiche locali: Gazzettino, La Nuova, il Corriere, Gente Veneta e delle emittenti Raitre, Tele Venezia, Tele Chiara, Rete Veneta, Antenna Tre, Telepace è stata veramente meravigliosa e non avrebbero potuto fare di meglio. La risposta all’appello per la ricerca di volontari è stata entusiasmante: sessanta volontari di tutte le estrazioni sociali e di tutte le età si sono offerti in pochissimi giorni. La disponibilità della famiglia Putin del catering “Serenissima Ristorazione” è stata prontissima e generosa, come pure quella della cuoca che è di una bravura eccezionale.

Fatta questa premessa sono costretto a concludere che o a Mestre non ci sono più poveri, ma di questo dubito fortemente perché ogni settimana più di 3000 persone si presentano al Don Vecchi per ritirare i generi alimentari, oppure chi dovrebbe conoscere chi è povero e bisognoso di aiuto ed essere qualificato per offrire l’aiuto necessario o non conosce queste persone oppure non è interessato alla loro sorte. Questo discorso è assai amaro però non saprei a quale altra causa imputare questa poca adesione.