Da “L’INCONTRO” – 6 maggio 2018
settimanale della Fondazione Carpinetum
Il tema monografico di questo numero riguarda pressappoco il territorio della zona di Carpenedo, però vi sono molte divagazioni quali il commento di mons. Bonini sull’ultima esortazione apostolica di Papa Francesco, il parco della Bissuola, il “don Vecchi”, il territorio e il duomo di Mestre.
Segnalo, perché credo interessi a molti, quello di Federica Causin perché riguarda direttamente la Fondazione e quello di don Bonini perché ritengo quanto mai utile che le nostre comunità cristiane vengano a conoscenza delle “aperture” e delle “innovazioni” che il Santo Pdre ritiene opportuno offrire alla Chiesa della quale è il primo responsabile.
don Armando
Il punto di vista
Gioite ed esultate
di don Fausto Bonini
Nella sua ultima Esortazione Apostolica il Papa ricorda che la santità è a portata di tutti Francesco offre alcune riflessioni pastorali utili per il cammino personale di tutti i giorni
La gioia della “santità della porta accanto”
Gaudete et exultate: ancora un richiamo alla gioia da parte di Papa Francesco. È il titolo della sua ultima “Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo”. Un documento che in cinque capitoli e 177 paragrafi invita ad essere santi oggi, non pensando che la santità sia riservata a pochi eletti: “Il Signore ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente”. La santità la si vive tutti i giorni nel ritmo normale della vita, nelle occupazioni della giornata, nei rapporti di familiarità e di vicinanza. Francesco la definisce “la santità della porta accanto”: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere… Questa è tante volte la santità della porta accanto, la classe media della santità”. A questa santità siamo chiamati tutti “vivendo con amore e offendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno”. Dopo un secondo capitolo dedicato a “due sottili nemici della santità”, nel terzo capitolo il Papa si sofferma sugli insegnamenti del Maestro Gesù, rileggendo le Beatitudini e attualizzandole, ricordandoci che sono la “carta di identità del cristiano”. “Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita… è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia”.
Attenzione alle reti di violenza in Internet
Segue un quarto capitolo nel quale Papa Francesco presenta alcune caratteristiche indispensabili per la vita del “santo”, che sono la sopportazione, la mitezza, la pazienza: “È necessario lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici”. E invece troppo spesso l’egocentrismo prevale sull’attenzione verso l’altro, oggi soprattutto nell’uso dei media dove vige la tendenza a mettersi in mostra, a voler primeggiare, pretendere di avere sempre ragione fino ad insultare chi non la pensa come noi. “Reti di violenza” le definisce il Papa: “Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui”. Il Papa ricorda, poi, che la santità non è un fatto da vivere nell’isolamento, ma nella condivisione della “vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa”. Un’esperienza “fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani” come succedeva nella “vita comunitaria” che Gesù ha vissuto in famiglia e poi con i suoi discepoli e con la gente semplice del popolo. Senza trascurare l’importanza della preghiera tanto da porci la domanda: “Ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui?”.
Il “Maligno” è sempre in agguato
E infine il quinto e ultimo capitolo in cui ricorda che il cammino verso la santità è anche “una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male”. Il “Maligno”, cioè un “essere personale che ci tormenta… e ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi”. “Spero che queste pagine siano utili – conclude il Santo Padre – perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità”. Riflessione finale. Un grazie grande a Papa Francesco per questa esortazione che entra anche nella mia vita personale e mi auguro anche in quella vostra.
Pensieri a voce alta
Il Don Vecchi e il territorio
di Federica Causin
Accipicchia, è successo di nuovo! L’ultima volta che ho dato un’occhiata all’orologio avevo ancora mezz’ora di tempo prima di dover raggiungere gli altri residenti in sala da pranzo e ora, invece, mi ritrovo a scapicollarmi per il corridoio per non arrivare in ritardo. Com’è consuetudine, ogni prima e terza domenica del mese, le porte del ristorante del Centro don Vecchi di Carpenedo si aprono anche ad amici, parenti e ad alcuni gruppi di simpatizzanti che sono ormai diventati una gradevole e affezionata presenza. Una ventata di allegria e convivialità alimentata dall’inossidabile lotteria finale, che riscuote un grande successo. È proprio vero che la soddisfazione di vincere non dipende dal valore del premio! Anch’io, in un paio di occasioni, ho avuto il piacere d’invitare a pranzo alcuni amici e tutti si sono complimentati per l’ottima cucina e per l’atmosfera accogliente che hanno respirato per merito dei volontari che, con grande pazienza e disponibilità, si impegnano ogni giorno a preparare la sala e a servire ai tavoli garantendo un servizio impeccabile. Credo che la volontà di essere accoglienti, sempre nel rispetto dell’individualità e delle esigenze di ciascuno, sia uno dei tratti che contraddistinguono i Centri don Vecchi ed è senz’altro quello che colpisce e convince chi entra nella struttura per la prima volta. La seconda caratteristica, a mio avviso, è l’opportunità di essere protagonisti e corresponsabili della quotidianità, di contribuire, quando possibile, allo svolgimento delle attività, ma anche soltanto alla buona armonia con due chiacchiere o un sorriso in risposta a un saluto. Come accade in un condominio, dove le persone arrivano senza conoscersi e si trovano a dover condividere alcune superfici, possono nascere incomprensioni o attriti che però vengono risolti appellandosi al buon senso e al rispetto. Mi piace l’idea che la cura non sia soltanto quella che ciascuno di noi residenti riserva al proprio appartamento, bensì anche un atteggiamento nei riguardi degli spazi comuni. Tutte le scelte che sono state compiute finora e le iniziative che continuano a essere promosse dimostrano che i centri sono piccole comunità autonome, ma non autoreferenziali, impegnate a essere un tassello nella vita del quartiere. Sto pensando ad esempio alla messa che don Armando celebra il sabato pomeriggio a Carpenedo che è aperta a tutti, al fatto che in sala Carpineta si tengono spesso convegni e ritrovi di qualche associazione, ai numerosi cori e gruppi musicali che vengono ad allietare le domeniche dei residenti e di chiunque abbia voglia e tempo di fermarsi ad ascoltare. Pur non avendo avuto la possibilità di essere presente a tutti gli appuntamenti, conservo un bellissimo ricordo di alcuni concerti go-spel, per i quali, lo confesso, ho un debole e di uno spettacolo messo in scena da una compagnia amatoriale di ragazzi molto dotati e versatili, che ha riproposto un “collage” dei musical più famosi. Il motto è “fino a quando ci sono sedie libere, tutti sono invitati!”. Così nasce l’osmosi virtuosa tra i centri e il “mondo fuori”, che diventa una linfa preziosa per far circolare stimoli nuovi e favorire occasioni d’incontro. In questo contesto anche il settimanale L’Incontro svolge un ruolo fondamentale perché, riunendo voci diverse, offre alla città e ai Centri don Vecchi l’occasione di continuare a dialogare e a rinsaldare il legame che li unisce. L’intento è quello di aprire una finestra alla quale possano affacciarsi moltissime persone.
La nostra storia
Il duomo di Mestre
di Sergio Barizza
Fino alla metà del quattrocento la chiesa di San Lorenzo era una piccola chiesa dell’altrettanto piccolo borgo che era cresciuto lungo i lati di un diseguale spazio del mercato, appena al di fuori delle mura del Castelnuovo. Di quella prima pieve non si conosce nulla se non che fu demolita per essere sostituita, nel 1446, con una semplice chiesetta gotica a tre navate che avrebbe resistito fino alla fine del Settecento. C’erano già due chiese in Mestre: quella di San Girolamo gestita dai padri Serviti e quella di San Rocco officiata dai padri Minori Conventuali. Se queste erano due chiese gestite da ordini religiosi, San Lorenzo era l’arcipretale alle dirette dipendenze del vescovo di Treviso, cui Mestre sarebbe stata legata fino al 1927.
Com’era d’uso in quei tempi, la chiesa era attorniata dal cimitero e infatti quando vennero fatti i grandi lavori per la ristrutturazione di piazza Ferretto, una ventina d’anni fa, spuntarono dal terreno resti di ossa umane. La chiesa con la coeva torre campanaria e il cimitero che ne occupava il sagrato prolungandosi lungo i suoi due lati, la scoletta oggi Laurentianum abbellita sulla facciata prospiciente borgo delle Monache da un affresco della Madonna che accoglieva e proteggeva sotto il suo manto i devoti, e la casa canonica, che cominciò ad ospitare il pievano dalla seconda metà del Cinquecento, dopo che il concilio di Trento ne aveva decretato l’obbligo di residenza stabile, vennero così a costituire quello che si può ben definire il complesso ecclesiale di San Lorenzo. Dopo la metà del Settecento cominciò a prender corpo l’idea di una nuova costruzione anche perché “l’antica chiesa si trovava in uno stato di sommo deperimento, ristretta pei bisogni della popolazione e di poco decoro al paese”. Il consiglio civico ruppe gli indugi e nel 1770 deliberò l’erezione di una nuova chiesa. Per estendere il più possibile la raccolta di fondi si decise di responsabilizzare tutti gli abitanti allargando l’accesso a quello che oggi chiameremmo il consiglio d’amministrazione a tutte le classi sociali: in precedenza vi erano ammessi solo i cittadini, ora vi confluirono pure artigiani e commercianti, barcaioli, pescatori e villici. Furono sistematicamente raccolte elemosine e contribuzioni volontarie. Nel 1780 fu approvato il progetto predisposto dall’architetto Bernardino Maccaruzzi, che nel 1778 aveva edificato il teatro Balbi presso la riva delle Barche. Predispose un progetto anche troppo ambizioso, più volte rivisto, ma soprattutto troppo grande per lo spazio che gli era stato riservato cosicché fu costretto a costruire la chiesa di sghimbescio, non in linea con le facciate delle case di quel lato della piazza. Col passare degli anni i soldi che si raccoglievano diminuivano sempre più anche per le difficoltà create dalla caduta della Repubblica e dall’occupazione prima francese e poi austriaca. I fornitori di arredi, statue, mobili avrebbero chiesto per anni che fosse loro saldato il debito. Si rivelò una fortuna la soppressione del vicino convento delle Grazie: nel 1808 il podestà di Mestre si fece carico di chiedere al prefetto “in dono cinque altari, l’organo e pavimento del convento di Santa Maria delle Grazie”, ch’era stato demanializzato e si avviava a un triste periodo di sopravvivenza come caserma e deposito di materiale militare. Per fortuna in questo caso non si accumularono altri debiti. Finito il grezzo nel 1805, il nuovo duomo fu solennemente consacrato alla fine di ottobre del 1830 dal vescovo di Treviso monsignor Sebastiano Soldati, mentre era arciprete monsignor Antonio Marangoni. (14/continua)