“La squadra di Dio”

Al mattino, dopo aver recitato il breviario, rifacendomi alla vecchia abitudine presa in seminario, dedico qualche tempo alla meditazione. La mia meditazione è però molto particolare; ho l’impressione che abbia ben poco di mistico.

In passato, avendo sentito magnificare il pensiero dei grandi mistici, ho provato anch’io a fare l’esperienza di riflettere sugli scritti di santa Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce o sull’Imitazione di Cristo. I primi due, che si dice siano i più grandi mistici, che si lasciano illuminare direttamente da Dio e vivono in profonda comunione con lui, mi è parso che “parlassero arabo” tanto sono difficili ed incomprensibili, mentre per l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis almeno qualche affermazione mi lasciò intravedere un mondo sconosciuto, però posto tanto tanto in alto per il mio spirito.

La mia meditazione è assai elementare, o forse neanche “da scuola materna”. Io sento il bisogno di qualcosa di concreto che attragga la mia immaginazione e mi avvolga tanto da sentirmi tutto dentro ad una verità che mi indichi un orizzonte aperto, una meta seppur lontana e difficile, ma che mi affascini e mi faccia vibrare di letizia e di desiderio. Mentre i mistici, i teologi, i biblisti o gli scritti dei santi padri della Chiesa, non sono per me perché talvolta al massimo mi fanno dormicchiare. Mi lascio invece condurre per mano dalle esperienze o dalle considerazioni di cristiani semplici e concreti che aprono il cuore e confidano con grande semplicità ed umiltà quello che vanno scoprendo, quello che li entusiasma e li aiuta a fidarsi di Dio a ringraziare il Signore che sentono vicino alle loro esperienze esistenziali e da ciò traggono luce, conforto, speranza e volontà di proseguire il cammino verso la verità e verso l’amore.

Mi piacerebbe tanto confrontarmi su queste cose con la gente semplice, con i cristiani normali e aprire idealmente un dialogo.

Mi permetto di riferire agli amici il testo da cui è partita la mia meditazione di questa mattina:

“Avevo 11 anni e la mia famiglia si era trasferita in un’altra città. Ero il più piccolo del quartiere e mi sentivo solo, non riuscivo a fare nuove amicizie. Durante l’estate i ragazzi si riunivano ogni giorno per giocare a pallone. I due più grandi facevano i capitani e sceglievano le squadre. Com’era da aspettarsi, io ero scelto per ultimo. Quando i capitani non erano presenti, il terzo più grande faceva da capitano. Per qualche ragione, mi sceglieva sempre per primo. Orgoglioso, mi sentivo alto 2 metri. Molti anni più tardi gli ho chiesto perché sceglieva me invece dei giocatori più grandi e più bravi, e lui mi ha risposto: “Perché ce la mettevi tutta ed eri sempre contento di giocare. Mi piaceva averti nella mia squadra.” Da allora, ho sempre usato questo come una metafora del mio rapporto con il Signore. A prescindere dalle circostanze, sono contento della vita che Dio mi dà e do il meglio di me per lui. Non posso fare cose straordinarie, ma sono felice di far parte della squadra con Dio”.

Tre sono stati i passaggi che mi hanno spinto a rinnovare il proposito di impegnarmi con me stesso e con nostro Signore:

  1. mettercela tutta;
  2. essere sempre contento della vita che Iddio mi ha donato e di potermela spendere come un bel gioco interessante ed avvincente;
  3. far parte della “squadra di Dio”.

Questa visione della vita come un bel gioco di squadra da giocare con entusiasmo e passione sotto la guida di un “capitano” capace e buono qual’è il buon Dio, mi ha confortato, incoraggiato ed inebriato. Questo non è proprio poco per un vecchio misantropo quale sono io.

28.08.2014

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