La nostra piccola “cattedrale”

Domenica, prima della messa delle dieci, un fedele che puntualmente viene a visitare la sua amata Concetta Lina che riposa nel nostro camposanto, mi ha portato in sagrestia la raccolta degli articoli che in tempi ormai lontani scrivevo per “Il Gazzettino” e che la sua amata consorte aveva raccolto in una cartella.

Curioso di ricordare ciò che pensavo allora, presi un foglio a caso: era il “Diario di un prete” della fine del secolo scorso, un quarto di secolo fa. L’ho letto con curiosità ed ingordigia. M’è parso di prendere in mano una fotografia di quando ero giovane: freschezza, poesia, sogno, coraggio! Lo ricopio, nel desiderio che da un lato gli amici sappiano che c’è stato un tempo in cui non ero scontato, prolisso ed aggrovigliato come ora, e dall’altro lato perché non mi dispiace che la città venga a conoscere i protagonisti e le vicende che accompagnarono quella bella realtà che oggi a Mestre sono i Centri don Vecchi.

Spero che mi si perdoni questo soprassalto di nostalgia di tempi andati.

Domenica 9 settembre 1990

Qualche anno fa, assieme ai miei anziani, ho avuto modo di fare il giro della Toscana. Porto ancora nel cuore le dolcissime sensazioni di quei caldi paesaggi fatti di colline arate di fresco, di quegli orizzonti trapunti dal verde scuro dei cipressi, ora solitari, ora in fila come fraticelli oranti, di quelle cittadine raccolte, intime e belle di una bellezza pudica e gentile.

La Toscana è una terra benedetta dall’arte, dalle pietre e dalla parlata sonora, veloce e pungente.

C’e però un’emozione intensa che non potrò mai dimenticare anche se campassi, mill’anni. Un giorno dal cielo cupo, carico di odore di pioggia imminente, in un silenzio greve, sbucai quasi improvvisamente in quello spiazzo d’erba verde cui sono raccolti, come gioielli, la cattedrale, il battistero, il cimitero e la torre pendente: eravamo arrivati a Pisa!

Mi si mozzò il fiato, la gola mi si rinchiuse e a stento trattenni le lacrime. Non ho mai visto tanta bellezza in uno spazio così ristretto: il biancore dei marmi, l’armonia totale delle linee, maestà e dolcezza, bellezza e poesia, sogno e realtà. La cattedrale pisana e gli edifici che la circondano sono veramente l’apice di una cultura, la punta di diamante di un popolo colto e laborioso che seppe pregare Dio sommo con la pietra, gli archi, le colonne e la poesia. Ricordo come fosse un istante fa che in quel momento nell’ebbrezza di quella visione, mi dissi, quasi sognando: «Anche noi dobbiamo costruire la nostra cattedrale, testimonianza del nostro tempo, della nostra cultura e dei nostri ideali».

Il «don Vecchi», per cui solamente giovedì scorso il sindaco mi ha consegnato la concessione edilizia, sarà la nostra piccola cattedrale; sorgerà ai margini di un parco erboso, là dove le pietre si raccordano con la terra e il presente industriale tende la mano al passato agricolo.

La nostra piccola cattedrale nascerà con la fatica e l’intelligenza dell’intera città. Già le sue fondamenta sono state poste con il concorso di tutti: politici, amministratori, donne del popolo, vecchi, operai, preti, socialisti e democristiani, destra e sinistra. Come non ricordare l’assemblea dell’antica Società dei 300 Campi che decretò il dono del terreno, Cesare Campa che raccolse il consenso dei fieri e liberi cittadini di viale don Sturzo, il prosindaco Righi che con pazienza certosina pose le premesse legali per l’assegnazione del terreno, la scelta coraggiosa del socialista Pontel che ne propose in giunta l’assegnazione, la telefonata del sindaco Bergamo, che dopo una notte insonne a qualche ora dall’elezione mi disse «Non si preoccupi don Armarndo, gliela diamo la licenza», gli incontri agostani di Salvagno e di Pavarato che misero attorno ad un tavolo una turba di funzionari più desiderosi di legittime vacanze che di lavoro e le tessiture intelligenti e puntuali di Santoro e della Miraglia, la pazienza di Chinellato nello sfornare progetti su progetti, e le preghiere delle nonnette e gli incoraggiamenti dei parrocchiani fedeli ed «infedeli»?

Nelle fondamenta della piccola cattedrale che sorgerà ad onore di don Valentino Vecchi, il prete che sognò una città migliore e solidale, ci siamo tutti, proprio tutti, e tutti insieme abbiamo vinto: il comune e la parrocchia, la stampa e la preghiera, la poesia e la politica.

Se non riuscissi, a mettere neppure una pietra, sarei comunque contento perché un’intera città, una volta tanto, s’è trovata unita e concorde per progettare un qualcosa di nuovo e di più umano per i propri anziani.

don Armando Trevisiol

30.01.2014

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