Quella dell’apprendistato è una scoperta che si ripete con una certa frequenza. Un tempo “l’andare a bottega” era una assoluta necessità perché non c’erano scuole, statali e non, che potessero insegnare un qualsiasi mestiere ad alunni seduti sui banchi della scuola ad apprendere un’arte da un insegnante che, pure lui, aveva mai esercitato praticamente.
I più grandi artisti erano dotati di genio, però per esprimerlo completamente, andavano per anni nella bottega di maestri che, a loro volta, si erano esercitati da altri maestri.
Fino a qualche decina di anni fa, avveniva la stessa cosa per ogni tipo di lavoro artigianale. Di queste cose ho un’esperienza personale perché sono cresciuto tra i trucioli e la segatura della piccola falegnameria di mio padre e mi sono reso conto direttamente delle infinite cose che si devono imparare attraverso la pratica, per poi poter risolvere i mille problemi che l’artigiano deve affrontare.
Con l’esplosione del mondo industriale è invalsa l’idea che il primo Pincopallino, senza arte né parte, potesse diventare un operaio provetto meritevole, fin dal primo giorno, di una paga regolare. In certe fabbriche, dove l’operaio non è più che uno dei tanti ingranaggi, le cose vanno così e l’apporto dell’uomo è di una assoluta monotonia e ripetitività perché, per imparare la manovra, che dovrà ripetere per tutta la vita, basta mezz’ora. Tutti hanno presente la mimica di Charlie Chaplin alla catena di montaggio!
Qualche tempo fa ho ascoltato uno, o una, dei tanti ministri della pubblica istruzione che si sono avvicendati, che era intenzionato a stabilire che nelle scuole tecniche gli studenti dovessero trascorrere un grosso numero di ore in fabbrica o in bottega, per poter uscire come tecnici provetti.
La stessa cosa penso dovrebbe avvenire anche per gli aspiranti al sacerdozio. Ricordo il progetto, se ben ricordo del Patriarca Luciani, il quale era intenzionato a far trascorrere ai novelli preti almeno un paio di anni in una parrocchia con un bravo parroco, perché imparassero il difficile “mestiere” di fare il prete in una società sofisticata e difficile come la nostra. Di certo non si impara a fare il prete sui tavoli della scuola del seminario seguendo poche ore alla settimana il docente di pastorale.
Oggi non ci sono quasi più falegnami, meccanici, idraulici, perché i nostri ragazzi non vanno più a bottega e non imparano più il mestiere. Ho timore che la stessa cosa stia capitando anche per i preti, perché sono ben poche le parrocchie nelle quali un giovane prete possa “imparare il mestiere”.
La scuola degli esperti serve, ma solo se “si aggiunge la pratica alla grammatica”. Tra i tanti lati deboli della pastorale moderna, c’è anche quello che di “botteghe” in cui ci siano validi “capomastri”, capaci di far fare esperienze valide ed innovative, ce ne sono poche o, forse peggio, quasi nessuna.
24.12.2013