Mi piace quanto mai il tempo di avvento. L’avvento, tempo di attesa, mi riporta, per associazione di idee, al “clima” della poesia della mia infanzia, “Il sabato del villaggio”. L’attesa intima e trepida dell’avverarsi di qualcosa di bello, mi porta nel cuore una dolcezza struggente. Se volessi tradurre in termini musicali questa dolce sensazione, mi rifarei alla pastorale del Guglielmo Tell di Rossini, o alla delicata e intima melodia del Nuovo Mondo di Dvorak, oppure alle note trepide di Cajkovskij.
Attendere l’incontro con il Figlio di Dio mi pare si rifaccia all’espressione biblica di “già” e di “non ancora”, ossia a qualcosa di già presente, ma in attesa della sua pienezza.
Qualche giorno fa, parlando della dolce attesa dell’incontro definitivo col Signore, dicevo ai miei vecchi che è bello attendere l’incontro col Signore, ma che fin d’ora dobbiamo essere vigilanti e disponibili per poter già pregustare l’ebbrezza di questo incontro che ci permetterà di tuffarci totalmente nell’Assoluto.
Per dare un po’ più di concretezza al discorso e per renderlo comprensibile e pregnante, citai un’intervista che il prestigioso giornalista Sergio Zavoli fece, una cinquantina di anni fa, ad una monaca di clausura di un monastero di Bologna. Mezzo secolo fa un incontro del genere costituiva un evento quanto mai raro e singolare. Zavoli è l’intellettuale che tutti conosciamo, ma pure la priora era una donna di Dio ricca di umanità e di fede. Zavoli chiese alla monaca: «Voi che vivete di preghiera e di austerità, non avete paura della morte?». La monaca si schermì: «Oh si, anche noi siamo umane e temiamo la morte, però l’incontro con Colui che abbiamo amato deve essere qualcosa di veramente bello e sublime!».
Quella donna di fede disse questa frase con tale intensità che il solo ricordo tocca le fibre più profonde del mio spirito. Noi credenti attendiamo qualcuno che già in qualche modo conosciamo e amiamo, motivo per cui la nostra attesa è trepida e, nello stesso tempo, piena di ebbrezza. Mentre quanto mai amara e deludente deve essere quella di chi non conosce affatto e non ha alcuna esperienza di chi pensa di attendere. Il testo di “Aspettando Godot” traduce in maniera tragica ed amara l’attesa vana e deludente di una realtà assolutamente vuota, che non può essere che il salto nel buio della morte.
In questi giorni freddi dell’incipiente inverno i fiorellini di un bianco latteo del mio giardino pare mi assicurino e mi dicano: «Ti accompagneremo noi, tenendoti per mano, durante il tempo gelido, per farti incontrare la soave realtà della primavera».
La fede so che certamente mi condurrà con mano sicura all’incontro con Colui che ho amato e che in qualche modo ho già incontrato quaggiù!
05.12.2013