Qualche domenica fa, come in tutte le chiese del mondo, ho celebrato anche nella mia “cattedrale” tra i cipressi il mistero della Santissima Trinità.
Alla mia gente, tanto cara ed affezionata al loro vecchio prete, dissi che la Trinità era la “festa di Dio” e che se sempre mi sento inadeguato a celebrare i divini misteri, per l’occasione avvertivo un senso di sgomento e di vertigine a dover prendere la parola su un tema così alto e sublime. Soggiunsi poi, quasi a mia difesa, che per ogni creatura è arduo parlare dell’assoluto: della fonte dell’essere, della verità, della bellezza e dell’amore. Forse questo sarebbe un momentino più facile per i poeti, per gli innamorati e per i santi, meglio ancora se un prete assommasse in sé tutte e tre queste virtù, ma io, povero gramo, dal pensiero contorto e dalla parola tormentata, non sono nulla di tutto questo.
In quella occasione mi sentivo come Geremia, il profeta, che protestò presso Dio perché gli chiedeva un compito così arduo. Allora il Signore mandò un angelo con una brace rovente per purificare le labbra del profeta. Mi ricordai allora di un lontanissimo episodio di quando ero titubante ed in ansia nel dover prendere la parola per inquadrare il volto di Dio, quasi quasi provavo ribellione per un compito così difficile. Sennonché una signora fiorentina che ascoltò queste mie preoccupazioni e quasi il rifiuto di prendere la parola, mi confidò: «A me dà un senso di ebbrezza questa festa e questo mistero, ho l’impressione di tuffarmi in un mare limpido e profondo e sentirmi tutta avvolta dall’immensità di Dio!» Questa signora è stata per me l’angelo che ha purificato il mio cuore e mi ha fatto sognare ogni anno l’abbraccio forte ed appassionato di Dio. Pare che i fedeli se ne siano accorti e abbiano condiviso questa sensazione, pur non essendo io un santo, tanto meno un innamorato e neppure un poeta.