L’ipermercato della solidarietà

Alcune settimane fa, per accontentare don Gianni, ma non sono proprio certo di averlo accontentato, scrivendo le cose che sento il dovere di scrivere, gli ho preparato un articolo sull’ipermercato della carità, pubblicato anche in questo blog.

A proposito di questa nuova struttura il signor Rivola, consigliere della Fondazione, ha suggerito di dedicarlo a Santa Marta, l’amica di Gesù, che a differenza di sua sorella Maria, tutta “santificetur”, s’è data da fare per preparare la cena a Gesù, perché anche il figlio di Dio aveva bisogno di mangiare qualcosa! Mi piace sognare che questa struttura moderna, che si rifà alle cosiddette politiche del riciclo, che rappresenta uno degli indirizzi di politica economica oggi all’avanguardia perché tende ad utilizzare anche quello che nel passato andava perduto, metta finalmente in evidenza che, per fortuna, vi sono oggi anche a Mestre cristiani che non si limitano ai riti, ma che concepiscono un cristianesimo di iniziativa, di ricerca e soprattutto di solidarietà.

Oggi passando per quel degli Arzeroni ho visto un aggeggio che quasi toccava il cielo, il quale stava issando la gru per iniziare i lavori. Vi confesso che ho avuto la sensazione che quella visione rappresentasse due mani in preghiera; lo scheletro di una cattedrale gotica che cantava la gloria di Dio e la pace di buona volontà. Il vedere il cantiere che si mette in movimento, il sapere che una ventina di operai avrà lavoro sicuro per un anno mi fanno veramente felice!

Io spero che Brugnaro, che tutto sommato per me è stato un sindaco più concreto degli altri, scriva finalmente nei suoi manifesti elettorali che d’ora in poi la richiesta dei cittadini di costruire a spese proprie senza disturbare né Regione nè Comune avrà una risposta al massimo entro un mese: che per una convenzione non ci voglia più di una settimana! Per quanto riguarda il supermercato della carità le cose però sono andate ben diversamente. Su questo discorso, sull’efficienza del Comune e del suo apparato burocratico, se ne avrò modo ritornerò di frequente.

I mali però non sono tutti di origine civile, perché anche nella Chiesa, della quale mi sento parte viva, le cose non vanno tanto meglio. A proposito di ipermercato, sento il bisogno di riferire che “il Prossimo”, ossia l’associazione che gestirà l’ipermercato, quest’anno, per Pasqua, ha ricevuto in dono sei-sette mila colombe, delle marche più rinomate. Spessissimo ci giungono bancali di yogurt con la scadenza di due o tre giorni o di altri generi alimentari deperibili: non vi dico la difficoltà di distribuire questo ben di Dio! Mi auguro che prima o poi la diocesi riorganizzi tutto il settore della carità, che nomini una commissione per verificare l’efficienza della “Caritas” e delle San Vincenzo parrocchiali. Spesso però mi capita di pensare che le nostre organizzazioni non siano molto migliori di quelle con le quali Franceschiello gestiva il regno delle due Sicilie.

Il mondo della finanza, e quello tecnico, sono in costante ricerca di soluzioni innovative, in linea con la sensibilità e la necessità di un mondo che sta mutando in maniera tanto veloce quanto non lo fu mai nel passato e perciò il bisogno di ricerca e innovazione è quanto mai urgente e necessario. Mi rammarica il pensiero che queste situazioni mi turbavano già più di mezzo secolo fa, sono infatti sessanta anni che faccio il prete e mi duole il pensare di dover lasciare questo mondo e questa Chiesa così lenta, e così in ritardo nell’impegno di tradurre il messaggio di Cristo quanto mai radicale con termini e soluzioni aggiornate ed adeguate alle esigenze del nostro tempo.

Spero a giorni di pubblicare un volumetto su “Le mie esperienze pastorali – 1954-2004” perché il giovane clero e la Chiesa di Venezia possano rendersi conto del punto a cui la vecchia generazione è arrivata e quindi sia consapevole del punto da cui deve ripartire.

L’ipermercato della carità

Don Gianni, il presidente della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi, insiste da tempo perché, almeno qualche volta, intervenga su L’incontro, periodico che è il portavoce di suddetta Fondazione, per offrire un qualche contributo di pensiero. Finora ho fatto qualche resistenza, perché fin troppo convinto delle mie idee e polemico come sono sempre stato, temo di non trovarmi perfettamente in linea con la “politica” della Fondazione. Però il motivo di fondo è certamente e soprattutto quello dell’età; io con i miei 91 anni, appartengo al passato, anche se sono quanto mai curioso ed interessato al mondo che cresce. C’è poi un po’ di amor proprio perché, consapevole dei miei limiti, arrossisco quando rileggo i miei interventi di decenni fa, non ritrovando ora la freschezza, il brio e l’audacia del passato!

Questa settimana però ho finalmente accettato l’invito perché la Fondazione s’è impegnata in un progetto veramente grande che io ho sognato per l’intera vita senza riuscire ad attuarlo. Proprio in questi giorni s’è aperto il cantiere dell’ipermercato della Carità in quei degli Arzeroni. Fallito, per la miopia della società dei trecento campi, che da anni mantiene un’area incolta vicino al Centro don Vecchi di Carpenedo, e quello dell’impresa Perale preoccupata più del profitto che di quella della solidarietà, la Fondazione, con un’operazione intelligente e coraggiosa, ha acquistato un’area di circa trenta mila metri in quel degli Arzeroni vicino agli attuali Centri don Vecchi 5-6-7 per costruirvi quello che sarà di certo la prima struttura del genere non solo d’Italia ma d’Europa.

Sento un profondo orgoglio che una piccola comunità, com’è la parrocchia di Carpenedo, abbia messo le premesse e poi osato di dar vita ad una struttura che nel campo della solidarietà si può paragonare alla “scoperta dell’America!” Finalmente dei cristiani si presentano all’opinione pubblica con una soluzione, in linea con i tempi, per dare una risposta coerente, moderna, efficiente, all’imperversare delle nuove povertà. Finalmente s’è superato il concetto dell’elemosina con qualcosa di socialmente valido che rispetta chi è in difficoltà, lo coinvolge in questa esperienza di solidarietà e l’aiuta in maniera rispettosa della propria dignità.

L’apertura di questo cantiere è per me un fatto di enorme importanza e dimostra ancora una volta che “il privato sociale” può offrire un contributo estremamente significativo al problema della solidarietà, e dimostrando l’insipienza dell’amministrazione civile che non sempre incoraggia ed aiuta questo mondo del volontariato, che esprime meglio di ogni organismo burocratico la capacità di aprire nuove strade. Mi auguro che la nuova struttura, che sta nascendo, faccia prendere coscienza che l’amministrazione pubblica deve avvalersi maggiormente di questo terzo settore, lo debba promuovere, e favorire in ogni modo, abbandonando la pretesa di dar vita e di voler gestire in proprio, con costi enormi ed in maniera burocratica e poco efficiente, tutto ciò che esprime la solidarietà. La scelta della Fondazione di aprire questo “nuovo fronte” e di impegnarsi in questa “operazione impossibile” spero aiuti i politici a cambiare mentalità, non pensando più di fare un favore permettendo queste soluzioni, ma a ringraziare invece per la loro preziosa collaborazione a livello sociale.

Penso di ritornare su questi argomenti perché sono assolutamente convinto che è finito il tempo, che il volontariato non debba più presentarsi col cappello in mano per ottenere il permesso di impegnarsi per gli ultimi, ma che invece è giusto quello che siano i responsabili della pubblica amministrazione a chiedere questo aiuto e a favorire sia a livello burocratico che a quello economico ciò che i cittadini si impegnano a fare in tutti gli aspetti della solidarietà. Ho l’intenzione di ritornare a riflettere e dare voce alla finalità di questo “supermercato” sui generis, però sento il bisogno di ribadire con forza che questa realizzazione, prima del servizio prezioso che possiamo offrire al prossimo, ha il merito di svecchiare, di sburocratizzare, una gestione pubblica ormai superata, lenta e costosa.

Aiutare chi ha aiutato

La diocesi di Venezia ha deciso di creare una struttura per i preti non più autosufficienti. Un luogo che si occupi di chi già ha speso la propria vita per il bene delle nostre parrocchie

“Ora mi puoi lasciare andare in pace, Signore!”
Non so se il santo vecchio Simeone, che abbiamo incontrato qualche giorno fa in occasione della festa della presentazione di Gesù al tempio, fosse più o meno anziano di me. Penso fosse più giovane, visto che io a giorni compio 91 anni! La sua affermazione “Ora Signore, che ti ho finalmente incontrato, posso morire in pace” mi ha particolarmente colpito. Di recente ho ricevuto una buona notizia che aspettavo da una vita e sono davvero felice: finalmente la diocesi di Venezia ha deciso di creare una struttura per i preti non più autosufficienti e ha nominato una commissione che si occuperà di realizzarla. Di certo, il vecchio Simeone aveva motivi più validi del mio, comunque le buone notizie fanno sempre bene!

Sono lieto che ci si occupi dei preti che hanno speso la loro vita per il bene delle nostre parrocchie e che hanno il diritto di terminare la loro esistenza con dignità, accolti ed aiutati, in una struttura adeguata al loro passato e alla loro attuale condizione di fragilità.

Permettetemi di spendere qualche parola per spiegare meglio il motivo della mia soddisfazione. Molti, forse per incoraggiarmi, mi dicono che a 91 anni sono ancora una “roccia”, mentre io avverto tutta la mia fragilità fisica e psicologica. Non passa settimana senza che qualcuno dei miei coinquilini al don Vecchi sia costretto ad andare in casa di riposo per l’aggravarsi dei suoi acciacchi e porti con sé il patema di pesare sui figli, viste le rette impossibili richieste dalle strutture della nostra città.

Io, che posso contare soltanto su fratelli anziani, ognuno dei quali ha le proprie difficoltà, ho sempre vissuto il problema degli anziani con grande preoccupazione. E infatti, quando 25 anni fa ho costruito il primo centro don Vecchi, ho messo a disposizione della diocesi sei appartamenti, strutturati in modo che il sacerdote potesse portare con sé la sua perpetua per essere accudito adeguatamente. Con il passare del tempo, ho capito che chi non è più autosufficiente ha bisogno anche di un presidio medico ed infermieristico che non avrei mai potuto fornire disponendo soltanto di sei alloggi, per quanto confortevoli fossero.

In questi anni mi sono trovato spesso a confrontare la mia pensione con le rette applicate dalle case di riposo della nostra città e, con amarezza, ho dovuto concludere, non senza preoccupazione, che mi sarei potuto permettere al massimo 15 giorni al mese. Un mese fa un sacerdote di Treviso, che ha diretto la Casa del clero della sua diocesi per una quindicina di anni, mi ha assicurato che, a Treviso, basterebbe anche la mia pensione. Pur essendomi rasserenato, mi è rimasto nel cuore il desiderio di “morire in patria” assieme ai miei colleghi di sacerdozio!

Don Marino Gallina, mio vecchio cappellano, che oggi ricopre un ruolo di responsabilità presso l’ufficio per il mantenimento del clero, mi ha assicurato che la diocesi non abbandona i suoi vecchi preti, tuttavia, viste le soluzioni proposte a quelli ospitati al centro Nazareth a Zelarino e al Contarini alla Gazzera, non c’è molto di cui essere allegri!

Ripeto quindi che mi ha fatto particolarmente piacere sentire che il Patriarca e il consiglio presbiterale abbiano affrontato e stiano risolvendo questo annoso problema. Spero che lo facciano presto, perché a 91 anni non ho di certo molto tempo! Mi riservo quindi di intervenire ancora sull’argomento per coinvolgere la città e, qualora sia gradito, offrire idee e soluzioni alle quali sono giunto in questi ultimi tempi. Metto inoltre a disposizione la nostra organizzazione e un aiuto economico.

Un ambito riconoscimento

Come tutti i concittadini sapranno, il Centro don Vecchi mette a disposizione 508 alloggi per anziani di modeste condizioni economiche, ma con il tempo è diventato anche il fulcro di una serie di attività caritative gestite da associazioni che contano più di 200 volontari: il magazzino San Martino che si occupa di raccogliere e distribuire ogni tipologia di indumenti, il magazzino San Giuseppe che raccoglie mobili, suppellettili e arredi per la casa, il magazzino dei generi alimentari che distribuisce a titolo gratuito prodotti offerti dall’Unione Europea, il chiosco di frutta e verdura e lo “spaccio alimentare”, l’ultimo nato sul quale vorrei soffermarmi perché è il fiore all’occhiello di una grande ed efficiente “agenzia di solidarietà” nata nel Triveneto.

Ho deciso di scrivere queste righe dopo un evento che ha reso particolarmente felici i volontari di questo settore e che mi offre l’opportunità di segnalare ancora una volta ai cittadini in disagio economico un’opportunità molto vantaggiosa per loro, che purtroppo tanti non conoscono. Da un paio d’anni, siamo riusciti a ottenere i generi alimentari in scadenza da alcune catene di supermercati, tra i quali Cadoro e Alì, che ci consegnano ogni ben di Dio. I prodotti vengono offerti dietro corresponsione di un modestissimo contributo che va a coprire le spese di gestione.

Alcuni giorni fa la direzione dei supermercati Alì, che conta quasi 150 negozi, ha organizzato un incontro e ha dato un riconoscimento pubblico alle organizzazioni benefiche che distribuiscono gli alimenti non più commerciabili perché la data di scadenza è troppo vicina. La nostra organizzazione è stata riconosciuta come una delle più efficienti e le è stato assegnato il secondo posto, accompagnato da una significativa elargizione.

Questo pubblico elogio, che premia il lavoro nascosto e faticoso dei nostri volontari, autentici “militi ignoti della carità”, va idealmente appuntato sul petto delle donne e degli uomini che ogni giorno dedicano tempo e cuore ai più poveri della nostra città e dell’hinterland. Servire gli indigenti non è sempre facile perché molto spesso, per le più disparate ragioni, le persone sono molto esigenti!

Concludo rivolgendo i miei più sentiti ringraziamenti al signor Giovanni Canella, presidente della suddetta catena di supermercati e a tutti i suoi collaboratori attenti alla realtà sociale e disponibili, che trovano modo e tempo di elogiare chi si impegna per il prossimo in maniera molto più umile.

Sogni e fallimenti

Nel post precedente ho tentato di inquadrare la situazione di Ca’ Letizia e della mensa dei poveri. Il progetto, perseguito da Monsignor Vecchi e da me stesso, non si fermava al punto in cui l’ha lasciato la San Vincenzo alla fine del 1971, quando sono stato nominato parroco a Carpenedo, ma prevedeva anche un centro che studiasse le problematiche della solidarietà a Mestre, coordinasse e mettesse in rete gli enti e le strutture che operano a livello cittadino. In seguito alla mia partenza e alla morte di monsignore, la realizzazione si è bloccata.

Io mi sono trovato per la prima volta alla guida di una comunità grande e problematica negli anni della contestazione, tempi difficilissimi anche a livello pastorale. A poco a poco tuttavia sono riuscito, grazie alla collaborazione dei parrocchiani che si sono adoperati per la carità, a ristrutturare l’ente Piavento e a dar vita a strutture come Ca’ Dolores, Ca’ Teresa, Ca’ Elisa e Ca’ Elisabetta per dare alloggio ad anziani poveri. Inoltre ho rinvigorito il gruppo maschile e femminile della San Vincenzo e ne ho costituito uno di giovani.

In seguito sono nati il gruppo “Il Mughetto” per l’assistenza ai disabili e il “San Camillo” per l’assistenza ai malati. In quegli anni abbiamo aperto Villa Flangini ad Asolo per le vacanze degli anziani, il “Ritrovo”, circolo ricreativo per gli anziani e, nel contempo, abbiamo iniziato a stampare il mensile “L’anziano” per persone della terza e della quarta età. Poi è iniziata l’avventura dei Centri don Vecchi 1, 2, 3, 4 e il mio successore, don Gianni Antoniazzi, ha realizzato il 5, 6 e 7. Abbiamo aperto il sito “Mestre solidale” per fornire alle persone in difficoltà informazioni sugli enti di beneficenza presenti sul territorio.

A un certo punto sembrava che la Provvidenza e tramite l’architetto Giovanni Zanetti ci mettessero a disposizione un’area di 40.000 m² a Favaro, così ho iniziato a sognare “la cittadella della solidarietà”, che riprendeva il vecchio progetto elaborato con la San Vincenzo. Il patriarca Scola, venuto a conoscenza dell’iniziativa, parve sostenerla e, infatti, promosse due o tre incontri invitando gli enti caritativi di Mestre che, con un’espressione brillante, definì la “pala d’oro” della chiesa veneziana”.

Purtroppo un inghippo imprevisto per il terreno e il successivo trasferimento a Milano di monsignor Scola hanno mandato di nuovo tutto in fumo. Sennonché, come dimostrano la costruzione del villaggio solidale degli Arzeroni, costituito dai Centri don Vecchi 5, 6, 7 e da 30.000 m di terreno acquistato per realizzare l’ipermercato della solidarietà, la Provvidenza sta rilanciando il mio sogno. “Il Polo solidale” del don Vecchi, che comprende il magazzino dei mobili e dell’arredo per la casa, lo spaccio dei generi alimentari in scadenza, quello dei generi alimentari del Banco solidale e il chiosco di frutta e verdura, ha dato vita a un’agenzia caritativa che credo non abbia eguali in tutto il Veneto!

Questo “miracolo di solidarietà”, infatti, ha indotto la Fondazione Carpinetum a costruire l’ipermercato della carità che spero possa diventare un modello per altre strutture simili in ogni diocesi del nostro paese. Questa nuova situazione potrebbe fornire lo spazio adeguato per la creazione di un “governo” o almeno di un organismo di studio, progettazione e coordinamento delle attività solidali di matrice religiosa e laica esistenti nella nostra città.

Confesso quindi che continuo a sognare a occhi aperti e a fare quanto è in mio potere, forte della realizzazione di 500 alloggi per anziani e dell’associazione “Il Prossimo” che già aiuta in maniera molto seria decine di migliaia di poveri ogni anno. Confido che ciò possa senz’altro rappresentare una buona base di partenza. Comunque, se la cosa non dovesse andare in porto, ho già pronto il testamento per lasciare in eredità ai posteri questo progetto irrealizzato.

La “mia” Ca’ Letizia

La stampa cittadina in questi ultimi tempi ha riportato le mie opinioni riguardo alla mensa dei poveri di Ca’ Letizia. Forse per imperizia nell’illustrare il mio pensiero (ricordo a tutti che ho quasi 91 anni), non mi sono sempre ritrovato in quello che è stato scritto, quindi tento di precisare le mie idee.

A proposito dell’ubicazione attuale della mensa, a tutti coloro che hanno protestato fin dall’apertura, ho citato le parole che il diacono San Lorenzo, amministratore della carità della Chiesa, pronunciò duemila anni fa al prefetto romano che voleva vedere le ricchezze della Chiesa. Presentando i poveri che aiutava, disse: “Questa è la ricchezza della Chiesa!” Anch’io la penso così. I poveri che aiutiamo sono il distintivo e la gloria per noi cristiani! Di conseguenza, non esiste alcun motivo al mondo per allontanarli o renderli invisibili agli occhi della nostra città anzi è un dovere che la città conosca questa situazione. E a quei cittadini del centro che pretendono di avere qualche riguardo in più rispetto di chi vive in periferia vorrei dire che i poveri sono prodotti dalla città, ed essa deve pertanto farsene carico, aiutandoli in maniera civile e corretta. Questo vale sia per la Chiesa sia per la comunità civile.

Vengo poi alla mensa che ho conosciuto e per la quale mi sono impegnato: essa è una realtà più articolata e più ricca di quanto non riveli il termine “mensa dei poveri”. Ai miei tempi, e spero anche oggi, offriva la cena e poi anche la colazione, aveva aperto una rivista mensile “Il Prossimo” che tentava di creare una cultura solidale, gestiva un magazzino di indumenti, offriva un servizio di docce e di parrucchiere, mandava in vacanza ogni estate decine e decine di anziani poveri e di adolescenti di “Macallé” e di “Ca’ Emiliani”. Inoltre organizzava il caldo Natale con gli scout per regalare un po’ di calore nella stagione invernale, invitava al Laurentianum per parlare di solidarietà oratori qualificati come padre David Maria Turoldo, Oliviero dal Sermig di Torino, monsignor Povoni, assistente della San Vincenzo nazionale e tanti altri.

Ca’ Letizia incontrava ogni mese i responsabili della carità di tutte le parrocchie di Mestre per studiare e organizzare insieme piani di intervento a favore degli indigenti. Ogni anno, in collaborazione con i maestri delle scuole elementari di Mestre, organizzava un concorso per educare i cittadini di domani alla solidarietà. La San Vincenzo ha promosso una campagna per la costruzione di asili nido, che all’epoca erano quasi inesistenti. Nel contempo si è battuta per ridurre la retta dei degenti in casa di riposo ed è arrivata a chiedere alla Regione una verifica amministrativa dei costi! E come dimenticare i gruppi di assistenza che operavano all’ospedale all’Angelo, al Policlinico e nelle case di riposo?

Non dobbiamo infine sottovalutare il volontariato di adulti che svolgeva il servizio in mensa o le centinaia e centinaia di studenti delle superiori che hanno avuto modo di conoscere da vicino il mondo della povertà servendo a tavola il centinaio di poveri che ogni sera si ritrovavano a Ca’ Letizia per la cena.

Chiudere Ca’ Letizia significa turbare i difficili equilibri di una realtà grande ma fragile, che è vissuta in maniera del tutto autonoma, senza ricevere alcun contributo da parte del Comune e pochissimi aiuti dalla diocesi. Non è certamente un dogma di fede non spostare la sede di un ente così complesso e nel contempo così importante per la solidarietà cittadina. Mi auguro che in questa operazione venga salvaguardato il passato e soprattutto che si approfitti per rilanciare strutture e iniziative solidali nella nostra città.

In passato questa associazione benefica ha avuto presidenti di valore e prestigio come l’ingegner Lui, direttore dell’aeroporto, il ragionier Enzo Bianchi, amministratore delegato della Coin, il direttore della Crea, società delle acque, dell’attuale dottor Dottor Bozzi e di tanti altri eminenti cittadini di grande sensibilità sociale. E come non menzionare la signorina Aprilia Semenzato, vicepresidente fin dalla nascita di Ca’ Letizia, che ha donato i migliori anni della sua giovinezza e della sua maturità alla causa dei poveri di Mestre.

Mi permetto di terminare con un consiglio che ho già espresso alla stampa cittadina: monsignor Vecchi ha costruito un asilo attiguo alla casa di riposo di via Spalti, previo accordo con il suddetto ente, una struttura che è rimasta in funzione fino ad alcuni anni fa. Alla scadenza dei 25 o 30 anni concordati, l’edificio è stato riconsegnato alla casa di riposo e da cinque o sei anni è in stato di completo abbandono. L’ubicazione e la vicinanza con l’asilo notturno rappresenta, a mio avviso, una soluzione davvero ottimale. Un accordo tra Comune e diocesi accontenterebbe i cittadini di via Querini, il sindaco e il Patriarca e salverebbe l’associazione San Vincenzo che è stata, ed è bene che rimanga, la “coscienza” vigile e operativa della nostra città a livello di solidarietà.

Obiettivi futuri

Penso che non dispiaccia avere un’idea su quali siano gli obiettivi a lunga scadenza che la Fondazione Carpinetum si ripromette di realizzare, soprattutto per quanto riguarda l’assistenza per chi si trovi in ogni tipo di difficoltà. Li indico per punti:

  1. Le opere realizzate e da realizzarsi siano sempre un segno limpido, forte, coerente e in linea con la sensibilità e le esigenze della società contemporanea, della carità predicata da Cristo, maestro e salvatore.
  2. Creare un gruppo di studio per analizzare le nuove povertà e per rispondere concretamente alle situazioni esistenziali in cui vive l’uomo del nostro tempo.
  3. Completare la risposta di soli-darietà offrendo servizi a livello medico-legale, psicologico, magari federandosi con gruppi e iniziative cittadine già esistenti.
  4. Favorire ogni iniziativa promossa dal mondo sia ecclesiale che laico che tenda a farsi carico dei cittadini più fragili e bisognosi di aiuto.
  5. Incrementare, attraverso il settimanale “L’incontro”, la stampa e la televisione locale, ogni iniziativa di ordine solidale.
  6. Creare a livello di aiuto pratico (indumenti, generi alimentari, mobili, arredo per la casa e altro) una rete che raggiunga le singole comunità cristiane perché possa “scoprire” il bisogno che spesso non emerge, dando risposte adeguate.
  7. Collaborare e “tallonare” l’ente pubblico, Comune e Regione, perché impegnino maggiori investimenti di ordine sociale.
  8. Promuovere con ogni mezzo il volontariato per creare una cultura di vicinanza e solidarietà.
  9. Sollecitare in maniera decisa gli organismi ecclesiali ufficialmente preposti per la carità a compiere una funzione di promozione e di coordinamento affinché nelle singole parrocchie la carità occupi uno spazio pari a quello della catechesi e dell’evangelizzazione e si esprima con strutture, organismi e iniziative concrete atte a produrre questo valore essenziale della religione.
  10. Far fare ai giovani che si preparano al sacerdozio esperienze vive e forti, che lascino il segno, nelle comunità cristiane che sono all’avanguardia in questo settore.

Concludo dando una risposta a chi pensasse che queste sono solamente delle belle utopie, dicendo che chi non coltiva sogni e progetti è un uomo da compiangere perché arrischia di non cogliere le ricchezze e i doveri dell’oggi e del domani.

Due altri sogni

Qualche mese fa, in uno dei rari incontri che abbiamo avuto, don Gianni, il mio successore in parrocchia, sempre oberato da infiniti e assillanti impegni pastorali, mentre parlavamo dei progetti della Fondazione Carpinetum, mi ha chiesto a bruciapelo: “Quanti anni pensi di avere ancora da vivere, don Armando?” Questa bizzarra domanda, che di solito non si pone alle persone in età avanzata, mi ha lasciato perplesso e stordito. Consapevole del fatto che l’età media degli anziani di cui celebro il funerale in cimitero è compresa tra gli ottanta e i novant’anni, ho risposto: “Se mi va bene, avrò al massimo un paio d’anni!” Per natura, sono sempre stato un grande sognatore, ma vi confesso che oggi mi guardo bene dal sognare progetti che richiedono tempi lunghi per essere realizzati. Quando, mio malgrado, cado in tentazione, dico a me stesso “Cala, trinchetto“, come recitava il famoso spot televisivo.

A voi, cari lettori, che mi avete letto per tanti anni sulle pagine di lettera aperta, di Carpinetum, de L’incontro e su questo sito, e che forse qualche volta mi avete anche compatito, confido che da mesi c’è un pensiero che mi tormenta come una zanzara molesta: vorrei fare qualcosa per quei 500 senzatetto che dormono in balia dello smog che incombe sul cielo della nostra città.

A dire il vero, ho domandato a un amico geometra di realizzare un progettino per un alloggio di almeno una ventina di posti letto, da assegnare per un paio di euro a notte. L’idea è offrire una piccola stanza, sobria ed essenziale, dove si possa riposare. Chi mi conosce sa che per me i sogni non valgono quasi niente, se non diventano mattoni. La Provvidenza mi ha fatto incontrare una persona disposta ad accollarsi l’onere finanziario del progetto, però non è finita qui.

Qualche giorno fa, ho letto su Il Gazzettino che 20 mila studenti universitari faticano a trovare una camera in città per meno di 300 euro al mese. Di fronte a questa triste notizia, che è solo l’ultima delle molte che campeggiano sui nostri quotidiani, la mia mente si è messa di nuovo in moto e sono giunto a una conclusione: a fare investimenti improduttivi ci pensano già i Cinquestelle, quindi è meglio che io mi spenda per aiutare ragazzi intelligenti e volonterosi destinati a diventare architetti, medici, operatori economici e quant’altro, che potrebbero far uscire il Paese dall’inedia sociale. Sono convinto che credere nei giovani sia sempre un buon investimento. Di conseguenza, ho deciso di passare quanto prima il progetto, e il relativo finanziamento, alla Fondazione affinché possa valutare l’eventualità di aggiungere un’adiacenza all’ipermercato della solidarietà, che dovrebbe aprire i battenti entro la prossima estate. Cari lettori, voi cosa ne pensate?

Qualcuno mi ha proposto di aiutare la mensa dei poveri che, stando a quanto affermano i giornali, sarà trasferita da via Querini in un luogo imprecisato. A me, in realtà, risulta che saranno la Curia, la Caritas e il Comune a provvedere, quindi ritengo che per questo sia giusto cedere loro il passo. Comunque, se qualche concittadino avesse un suggerimento da offrirmi, sarò ben lieto di prenderlo in considerazione.

Il buon esempio

Al Centro don Vecchi vive ormai da più di quindici anni una signora che, avendo avuto un grave incidente automobilistico, è rimasta sola e gravemente disabile. Avendo io incontrato questa creatura vent’anni fa in condizione di grave preoccupazione per trovare un alloggio confacente alle sue condizioni, fortuna volle che si rendesse libero un appartamento al Don Vecchi 2, così che abbiamo potuto offrirglielo.

Questa signora colta e gentile si è inserita in maniera serena nella nostra comunità, partecipando intensamente alla vita comune in tutti gli aspetti che il Don Vecchi può offrire ai residenti, conducendo sempre una vita esemplare, serena, positiva, felice. Qualche giorno fa con volto più che felice e riconoscente di sempre, ha suonato alla porta del mio appartamento per offrirmi una somma veramente significativa. Mi raccontò come dovette sudare degli anni con gli avvocati per poter ottenere l’eredità lasciatale dal padre, dicendomi che la legge di quel Paese non è applicata in maniera molto serena tanto che ha dovuto spenderne una buona parte per le spese legali.

Consegnandomi la busta con la generosa offerta, mi disse quanto era felice di poter dimostrare tutta la sua riconoscenza per aver potuto vivere serena per tanti anni in questa nostra struttura fatta a misura d’uomo e più ancora per chi è affetto da disabilità. Dicendomi come voleva che impiegassi il suo denaro, ha manifestato il desiderio che andasse soprattutto per le necessità del centro in cui vive e semmai per i residenti che si trovassero in qualche difficoltà particolare. Un dono del genere ci è quanto mai utile perché un centro con 120 alloggi ha sempre enormi esigenze per la manutenzione.

Questo gesto di riconoscenza mi è molto più gradito per i sentimenti che esso manifesta che per le necessità alle quali possiamo dare risposta grazie ad esso. Segnalo alla città questo dono perché i cinquecento alloggi che attualmente possiamo mettere a disposizione dei cittadini che si trovano in disagio sono sempre nati dalla generosità di persone come questa, particolarmente sensibili alle difficoltà del prossimo e coerenti nel comportarsi con i valori che professano.

I Don Vecchi in pillole

I Centri don Vecchi sono sorti in città con lo scopo di aiutare gli anziani in difficoltà e sono caratterizzati dagli elementi di cui ho spesso parlato e che desidero qui puntualizzare.

Finalità economiche ed abitative:

  • offrire alloggi alla portata anche di chi gode solamente della pensione sociale;
  • offrire domicili protetti che tengano conto dei deficit fisici, morali e sociali dei residenti;
  • “costringere” gli anziani a rimanere autonomi fino all’ultimo istante di vita;
  • creare delle comunità solidali;
  • dare disponibilità assoluta dell’alloggio utilizzato.

Costi. “L’affitto” risulta dalla somma di questi tre elementi:

  • costi condominiali, 6 euro al metro quadro in misura del proprio alloggio;
  • utenze, ognuno paga quanto consuma effettivamente;
  • contributo di solidarietà: chi ha un reddito superiore alla pensione sociale è invitato a versare un contributo proporzionato alla consistenza del suo reddito per aiutare chi ha meno possibilità.

Supporti sociali:

  • pranzo a mezzogiorno: 5 euro
  • gita mensile: 10 euro
  • intrattenimento culturale ricreativo ogni mese
  • assistenza religiosa con Messa settimanale in cappella
  • assistenza giorno e notte: suonando il n. 333 accorre immediatamente un assistente per aiutare secondo il bisogno; telesoccorso
  • medico di famiglia con ambulatorio all’interno del centro
  • aiuto per pratiche mediche e sociali
  • biblioteca
  • parrucchiere all’interno del centro
  • bar o distributori di bevande, caffè e dolciumi a prezzo ridotto
  • assistenza elettrica e idraulica a costi ridotti
  • pulizia nei locali comuni
  • arredo signorile
  • citofono, cordicella di chiamata, lampade di sicurezza ad accensione automatica
  • lavatrice e asciugatrice private e comuni
  • telefono interno gratis
  • trasporti con mezzi pubblici a portata di mano
  • rampe e ascensori
  • grandi parchi
  • televisione a tariffa ridotta: 4 euro l’anno
  • possibilità di fruire di molte stanze e servizi a disposizione della comunità per socializzare
  • riscaldamento e condizionatore estivo nei luoghi comuni
  • opportunità di vivere in una comunità che offre molte possibilità di amicizia
  • unica regola: quella che esige la buona educazione!

Condizioni per l’accoglienza:

  • avere un reddito che non permetta un alloggio o una vita dignitosa;
  • pur avendo un reddito medio-alto, aver bisogno di un alloggio protetto per motivi di ordine esistenziale (per es. lontananza dai propri congiunti);
  • essere totalmente autosufficienti o garantire qualche aiuto da parte dei famigliari o di personale ingaggiate personalmente per un servizio parziale.

Consiglio per chi si candida

È consigliabile che al momento della presentazione della domanda di accesso, che va protocollata in segreteria, il richiedente vada a visitare il Centro don Vecchi nel quale desidererebbe essere inserito.

La credibilità dei praticanti

Molti anni fa ho letto una bella “vita” di Gandhi, grande testimone di fede e di solidarietà umana. Di questa lontana lettura m’è rimasto nel cuore soprattutto una dichiarazione, che mi pare sia terribilmente attuale. Ad alcune persone che, come me, erano rimaste colpite dal suo pensiero su Dio, sui rapporti che devono intercorrere fra gli uomini, sulla sua scelta radicale della non violenza, era sembrato che il pensiero fosse l’interfaccia della dottrina e della testimonianza di Cristo e un giorno gli chiesero: “Come mai non si fa cristiano?” Gandhi rispose: “Non avrei alcuna difficoltà ad aderire al cristianesimo, quello che però mi trattiene da questa scelta è il comportamento dei cristiani che conosco perché vivono nel mio Paese!”

Questi cristiani erano gli inglesi che dominavano, sfruttavano l’India e si comportavano da padroni nei riguardi degli abitanti di quel Paese. Credo che sia vero che alcune persone che coltivano ideali alti e nobili forse si tengono lontano dalla pratica religiosa, perché il comportamento di tanti fedeli che praticano la Chiesa è ben lontano dalla proposta di Cristo.

Recentemente mi è capitato di leggere su Sole sul nuovo giorno, il mensile dei Centri don Vecchi, una specie di decalogo sulla credibilità dei praticanti. Confesso che questa lettura che mi ha messo positivamente in crisi. Ho pensato quindi opportuno pubblicarlo sperando che faccia lo stesso effetto anche per i lettori de L’incontro e di questo blog.

Dopo venti secoli di cristianesimo sarebbe veramente ora che tutti capissimo che i cristiani non si riconoscono per le loro pratiche religiose, ma per la loro prassi di vita. Un giorno ho sentito un parroco che affermava che “i cristiani si riconoscono da come e quando si presentano alla balaustra” (un tempo si faceva la comunione inginocchiati sul gradino della balaustra che separava il presbiterio dall’aula della chiesa). Oggi io penso di dover affermare con convinzione e con forza che i cristiani si riconoscono dalla vita che conducono e dalla coerenza che hanno con la proposta di Cristo!

Il decalogo della credibilità
Non alludo alla cristianità in generale, ma a ciascuno di noi, parrocchiani dello nostra piccola parrocchia:

  • Se fossimo cristiani, non staremmo in questa chiesa stranieri l’uno accanto all’altro, gli anziani da questa parte, i giovani raggruppati dall’altra.
  • Se fossimo cristiani, non ci precipiteremmo fuori dalla chiesa, le chiavi dell’automobile già in mano, guardando diritto davanti a noi per non cogliere lo sguardo del vicino di casa, che potrebbe trovar posto nella nostra vettura.
  • Se fossimo cristiani, conosceremmo le preoccupazioni degli altri, forse anche il loro nome… Ma so io chi mi sta accanto, domenica dopo domenica? Non potremmo essere più estranei l’uno all’altro!
  • Se fossimo cristiani, che ci piaccia o no questa chiesa, non la frequenteremmo come un luogo qualunque ma come si frequenta la cosa del Padre e dei fratelli: con rispetto, amore, gioia.
  • Se fossimo cristiani, ci porteremmo subito verso il Tabernacolo, anziché nasconderci negli angoli o in fondo alla chiesa, magari fra le due porte, per scappar via subito, sollevati da una mal sopportata cerimonia; e parteciperemmo, invece, consapevoli ad ogni funzione.
  • Se fossimo cristiani, le mura di questa chiesa conterrebbero a stento una gran folla, poiché noi avremmo convinto gli altri, che oggi non sono presenti, quanto sia bello essere cristiani: attraverso la nostra letizia, la nostra sicurezza, la nostra disponibilità, attraverso tutta la nostra vita.
  • Se fossimo cristiani dovremmo essere facilmente individuabili, perché diversi dagli altri come la notte dal giorno, il sole dalla luna: e solo per il fatto che siamo cristiani. Ma non sarà che se ci distinguiamo dagli altri è per una preminenza che ci isola anziché per una partecipazione che ci accomuna?
  • Se fossimo cristiani non ci sarebbero nella parrocchia né povertà né bisogno, né solitudine. Nessuno, qui, vivrebbe inosservato né inosservato morirebbe.
  • Se fossimo cristiani, le nostre porte non abbisognerebbero di serrature, né le finestre di spranghe; polizia e tribunali sarebbero un di più, perché siamo cristiani.
  • In fondo, se fossimo cristiani potremmo cambiare il mondo solamente stando in parrocchia. Ma il mondo non cambia. E adesso sappiamo il perché. Amen.

Il nuovo libro di Federica

Il nuovo libro di Federica

Ricevo, fin troppo spesso, complimenti dai miei concittadini a motivo dei Centri don Vecchi. Sarei un baro se dicessi che essi non facciano piacere. Le nostre strutture si rifanno a una dottrina sicuramente nuova e più adeguata alle esigenze profonde e alle istanze degli anziani del nostro tempo. Ora, poi, che ci siamo aperti al recupero e all’aiuto delle famiglie che si sono sfasciate e alle emergenze abitative più gravi, sono ancora più contento! Ripeto, sono felice e orgoglioso perché i nostri centri fanno a gara per signorilità e confort con gli alberghi della nostra città. Sono orgoglioso perché riusciamo a offrire ai meno abbienti appartamenti eleganti e soprattutto assolutamente gratis, e ancora di più perche finalmente la nostra comunità cristiana, sta esprimendo segni di solidarietà umana e cristiana che rappresentano una punta di diamante in questo settore della nostra società.
Ma la ricchezza dei nostri centri non si ferma a questo punto perché ci sono dei residenti che sono delle autentiche perle di disponibilità, di impegno, di generosità e di servizio verso gli altri meno fortunati e soprattutto verso la fascia dei bisognosi che ogni giorno bussano alle nostre porte, sempre aperte, per offrire una risposta positiva e fraterna. Sono infinitamente orgoglioso di quelle donne che si danno da fare da mane a sera allo “spaccio alimentare” al magazzino dei mobili e dell’arredo per la casa, al “supermercato dei vestiti”, al “chiosco della frutta e della verdura” e al “banco alimentare”. Per non parlare delle signore che si spendono ogni giorno per offrire un tocco di gentilezza sia al “bar” che al Senior Restaurant, tutte gentili e servizievoli. Vi confesso che queste donne mi paiono “bellissime” e gli uomini nobili e simpatici.

Avverto di essermi un po’ dilungato in questa premessa, ma sentivo il bisogno di mostrarvi lo sguardo e l’orizzonte in cui si colloca l’autenticità di una “perla di grande valore” che pur si trova al Centro don Vecchi di Carpenedo. Alcuni anni fa mi chiese un appartamentino una splendida ragazza dagli occhi neri e luminosi, che cercava la vita indipendente. Il limite al movimento con cui convive sin dall’infanzia non ha fermato per nulla la sua vitalità, il suo coraggio, la sua voglia di vivere, di amare e di essere attiva nella nostra società! Federica Causin è il suo nome.

Questa ragazza, divenuta la mascotte del nostro piccolo mondo di anziani perché ha la metà dell’età media dei nostri residenti, si è laureata in Lingue, lavora presso una azienda dell’hinterland, è traduttrice di romanzi per una nota casa editrice ed è totalmente autonoma tanto che non si fa mancar nulla: vacanze, gite, vita associativa, amicizie, un serio apostolato e tant’altro! Data la sua cultura le è venuto spontaneo inserirsi fra i giornalisti del nostro prestigioso settimanale ed è diventata ben presto una “penna” profonda e piacevole. Qualcuno dei suoi numerosi amici l’ha spinta a pubblicare in proprio qualcosa che le usciva dalla sua esperienza specifica, tanto che la nostra editrice le ha pubblicato prima il volume Diversamente normali e poi Il volo del gabbiano, volumi che hanno avuto uno splendido successo di critica ma soprattutto dei lettori.

In questi giorni è uscita la sua terza fatica letteraria: Simmetrie asimmetriche, s’intitola questo libro veramente delizioso per impostazione grafica e soprattutto per i contenuti. Alcuni amici e un generoso tipografo le hanno dato una mano tanto che n’è venuto fuori un volumetto di 150 pagine splendido, interessante sia per il pensiero sempre fresco, entusiasta, positivo e ottimista, che per l’aspetto quanto mai gradevole.

Vi assicuro che è veramente un bel libro, così interessante e ricco di pensiero che ho sentito di sceglierlo pure per la mia meditazione mattutina! Io non sono un critico letterario, ma so che potrei farne una presentazione abbastanza dignitosa, perché se lo merita! Però desidero che siate voi, miei cari lettori, a scoprire i suoi pregi, perché sarà una bella sorpresa. Perciò invito i residenti dei Centri don Vecchi, i lettori de L’incontro e i mestrini tutti ad acquistarlo, perché sono assolutamente certo che tutti, colti o meno, lo leggerete volentieri e con profitto! Vi svelerò l’intimo segreto, che fa pure onore a Federica Causin: come ha già scelto per i volumi precedenti, ella devolverà tutti i diritti d’autore alla Fondazione Carpinetum. Cosa si può desiderare di più? Prendetelo, ne vale la pena. Il volume si può trovare presso le segreterie dei Centri don Vecchi, costa solamente 5 euro, ma ne vale moltissimo di più! Buona lettura!

Impegniamoci insieme

Qualche giorno fa un mio vecchio parrocchiano mi ha chiesto che cosa pensassi sulla Chiesa e sui cristiani di oggi. Gli ho detto qual è la mia opinione, però sono stato quanto mai amareggiato e deluso di non essere stato capace di farglielo capire con il mio comportamento e le mie scelte pastorali, nonostante sia stato per 35 anni parroco di questo concittadino.

Ho pensato quindi, ispirandomi a Impegno con Cristo di don Primo Mazzolari, di precisare un po’ meglio le mie convinzioni e le mie proposte. Vi suggerisco questi spunti:

  • Impegniamoci a costruire una “Chiesa”, non una “sagrestia”.
  • Impegniamoci a far maturare un popolo cristiano libero, ricco di speranza, capace di dialogo, senza complessi, non a dar vita a un teatrino con tanti manichini e tanti costumi che odorano di naftalina con attori che declamano senza convinzione e passione frasi imparaticce di un gergo abbandonato dai più.
  • Impegniamoci ad avere l’ebbrezza della nostra libertà e della nostra dignità, confrontandoci con amici e nemici, con inferiori e superiori, con rispetto, ma senza servilismi.
  • Impegniamoci e non lasciamoci tentare dalla vita facile, dalla carriera promettente o dalla tranquillità ad ogni costo, lasciandoci andare all’adulazione e al silenzio anche di fronte alla stupidità o al sopruso.
  • Impegniamoci ad aspettare il Risorto nel domani diffidando delle restaurazioni, dei vecchi codici e delle nuove regole ascoltando invece la voce del cuore e dello Spirito.
  • Impegniamoci ad osare, a vivere in attacco piuttosto che in difesa, a sbagliare per troppo amore piuttosto che per cialtroneria intellettuale, per fedeltà fasulla o per comoda obbedienza formale.
  • Impegniamoci a scoprire il volto del Maestro e del Salvatore nel cuore, nelle parole, e nelle scelte degli uomini e delle donne che incontriamo sulla nostra strada piuttosto che nei vecchi “santini” o nei testi logori della vecchia teologia.
  • Impegniamoci ad usare con rispetto e venerazione le parole senza ubriacarci di frasi fatte vecchie o moderne, ricordandoci sempre che un fatto piccolo vale mille pero’.
  • Impegniamoci ad aver paura del ghetto, della gente che ha risolto tutto, dei cristiani che amano le serre, temendo ancora la mela marcia e il compagno cattivo.
  • Impegniamoci perché anche l’ultimo ateo possa capire e condividere la scelta di aiutare i poveri.
  • Impegniamoci a ricordare che il Signore chiama a ogni ora del giorno ogni creatura, e che i fiori belli nascono e fioriscono dentro e fuori dalla nostra comunità.
  • Impegniamoci a ricordare che lo Spirito Santo è venuto per i capi ma anche per i poveri gregari come noi.
  • Impegniamoci infine perché tutti sappiano che saremo giudicati sull’amore e non sulle tesi dell’ultimo sociologo e dell’ultima opera scritta da un teologo.

Il volto nobile di Mestre

Come voi lettori ormai sapete bene, quando indosso i panni del “giornalista”, prediligo le notizie positive, soprattutto se riguardano la nostra città. A dispetto dei risultati modesti e discontinui che ho ottenuto, ho sempre tentato di dare voce e visibilità alla “cronaca bianca”, grazie alle mie rubriche: Il diario di un parroco di periferia, I fioretti dell’anno duemila, Il giornale in bianco. Pur avendo deciso di concludere queste esperienze per raggiunti limiti di età, se mi capita d’imbattermi in una notizia significativa, che racconta il bene, non riesco a tenerla per me e m’impegno a divulgarla affinché i miei concittadini prendano coscienza del fatto che a Mestre non ci sono solo “rami secchi” che fanno rumore mentre cadono. Esiste anche una “foresta di bene” che continua a crescere in silenzio e con umiltà.

Rompo gli indugi e vengo all’ultima notizia che mi ha spinto a prendere in mano la penna. Il mio intento è far sapere a tutti che possiamo ancora contare su testimonianze splendide che ci aiutano a lodare il Signore e a credere in una società più solidale e fraterna. Di recente la dottoressa Giustina Saccardo Scaldaferro, mia coetanea, mi ha consegnato 12 mila euro a favore dell’Ipermercato solidale, per il quale la Fondazione Carpinetum a fine giugno ha posato la prima pietra agli Arzeroni e confida di arrivare all’inaugurazione il prossimo anno.

Permettetemi di compiere un balzo nel passato per collocare la generosa offerta appena ricevuta in una cornice che ne sottolinea il valore e l’importanza. Nella primavera del 1995, con una scelta decisamente azzardata, avevo appena firmato il contratto per la costruzione del Centro Don Vecchi 2. Mancava 1 miliardo e mezzo delle allora lire per coprire l’intera spesa e temevo davvero di aver fatto il passo più lungo della gamba, come si suol dire. In quel frangente, la signora Saccardo mi offrì 23 milioni di lire. In seguito, a me, che avevo soltanto collaborato con sua sorella Rosanna, ha consegnato altri 350 milioni di lire, ereditati dal defunto marito. Nell’arco di un paio d’anni, ha destinato alle mie opere un altro miliardo e mezzo di vecchie lire, soltanto per citare le somme più consistenti, alle quali negli ultimi vent’anni si sono aggiunte altre donazioni meno ingenti ma ugualmente significative.

Vi racconto queste cose per alimentare la fiamma della speranza in un mondo migliore. Certo, data l’entità, queste offerte non sono passate inosservate, tuttavia non sono gli unici segni di solidarietà che sono sotto i nostri occhi ogni giorno. Vorrei ricordare i volontari che tutte le mattine si alzano alle quattro per andare a prendere la frutta e la verdura al mercato di Padova e Treviso, chi per vent’anni ha organizzato il più grande magazzino del Triveneto di indumenti per i poveri, chi serve a tavola al Senior Restaurant, chi fa il giro dei supermercati dell’hinterland per raccogliere i generi alimentari in scadenza, chi gestisce i 500 alloggi dei Centri don Vecchi e, non ultime, le persone che assistono i nostri anziani. Alla signora Giustina Saccardo e alla schiera di “militi ignoti della carità”, di cui io e il buon Dio conosciamo il nome, ma soprattutto la generosità e lo spirito di sacrificio, presto la voce e la penna molto volentieri.

Voglio ringraziarli, a nome dell’intera città, perché fanno da contrappeso lle tante meschinità di cui ci informano i mass media.

Lo sviluppo di un seme

Monsignor Valentino Vecchi era molto amico dei fratelli imprenditori Coin e spesso approfittava della loro gentilezza e disponibilità. Ricordo che ogni anno il mio vecchio parroco, sul finire dell’estate, organizzava per noi, suoi collaboratori, un incontro di due, tre giorni per verificare e programmare le attività pastorali dell’anno nuovo. Eravamo ospiti del signor Aristide nella sua splendida villa di Asolo, dove ci attendevano un interessante dibattito su temi che riguardavano l’essere preti nel nostro tempo, la bellezza dei colli, la squisita ospitalità e i pranzi che la signora Coin ci preparava.

Una volta, Aristide, che gestiva insieme ai fratelli i grandi magazzini di tessuti, ci raccontò, con legittimo orgoglio, la storia della splendida impresa commerciale che suo padre aveva creato e ci disse che aveva iniziato in modo molto umile. Ogni giorno partiva da Mirano, dove abitava, mettendo su un carretto la mercanzia che poi andava a vendere nei paesi vicini, quando c’era il mercato. Dall’intelligenza e dallo spirito di sacrificio di questo modestissimo commerciante è nato il colosso dei magazzini di tessuti e indumenti targati Coin. Da quell’esperienza ho potuto imparare molto anche per i miei progetti da parroco.

Quando passo in via San Donà, davanti al palazzo settecentesco della canonica, lancio sempre un’occhiata al chiosco di legno, incastrato tra la canonica e la chiesa, che in tempi ormai lontani avevo “battezzato” La bottega solidale. La bottega, dal 1995, ha iniziato a distribuire generi alimentari ai poveri della parrocchia e della città. In questa esperienza mi ha accompagnato, aprendo l’attività, la signora Adriana Groppo che, pronta di parola ed esperta nel commercio, in pochi mesi lo ha fatto diventare il “negozio” più frequentato di Carpenedo. Infatti, davanti alla porta c’era sempre una fila molto lunga di “acquirenti”. Alla signora Adriana si è unito presto un buon numero di signore che servivano al banco, si occupavano della cernita delle derrate alimentari sotto una tenda in patronato, mentre alcuni signori si recavano dai generosi benefattori per ritirare il necessario.

Questa sarebbe una piccola “storia epica”, iniziata quando sono riuscito a recuperare il chiosco che monsignor Romeo Mutto, mio vecchio predecessore in parrocchia, aveva affittato per una “pipa di tabacco”. Gli affittuari, due coniugi che avevano aperto un chiosco di fiori, furono molto riluttanti a riconsegnarlo alla parrocchia perché pagavano un affitto pressoché simbolico. Mio fratello Luigi, falegname, fece un restauro radicale. Grazie all’aiuto di qualcuno, di cui non ricordo il nome, ottenni il condono edilizio e qualcun altro organizzò il trasporto della merce con un carrettino, dalla tenda della cernita al minuscolo negozio. Alla signora Adriana subentrò poi il signor Mario Scagnetti che ampliò l’attività benefica.

Un paio di anni fa, l’attuale parroco, don Gianni Antoniazzi, la fece confluire nel grande “polo solidale” che era nato nel frattempo e che operava in maniera più efficiente, organica e consistente presso il Centro don Vecchi di via dei Trecento campi. A dire la verità, vedere questa “bottega”, che ha chiuso i battenti, ormai da molto, suscita in me un pizzico di nostalgia, perché mi ricorda i “tempi eroici” del sogno, del progetto e della sua realizzazione. Nel contempo però mi rincuora e mi fa sperare che anche “l’ipermercato solidale” degli Arzeroni diventerà presto una realtà e che questa nuova “avventura della solidarietà” vedrà la luce quanto prima e potrà contare su una nutrita schiera di volontari preparati, capaci di far crescere il piccolo seme che noi pionieri abbiamo gettato con coraggio, fiducia e spirito di sacrificio.

Io ormai sono troppo vecchio e non potrò partecipare a questo grande progetto, che permetterà alla carità di Mestre di compiere un passo da gigante, tuttavia confesso che sarei tentato di chiedere al Signore ancora un po’ di tempo per vedere “le meraviglie” che faranno i miei successori. Comunque non cederò alla tentazione, perché sarà bello vedere il primo ipermercato nazionale anche da una delle tante e belle nuvole bianche del cielo di Dio!