Da “L’INCONTRO” – 22 aprile 2018
settimanale della Fondazione Carpinetum
In questo numero il periodico si occupa dell’arte in genere e dell’impegno artistico nella nostra città.
Come sempre il coordinatore Alvise Sperandio offre un compendio dei dati che riguardano questo settore.
Interessante l’articolo di monsignor Bonini che fa il punto su quello che concerne tortura, morte, guerre del passato e del presente, gli aspetti più bui dell’intelligenza umana.
Pure da leggere l’articolo di Federica Causin che parla con incanto ed amore della bellezza che si può godere anche in “strutture per poveri” quali sono i Centri don Vecchi.
Infine, per chi ama la storia della nostra città, gli interventi settimanali dello storico dottor Sergio Barizza, che oggi è di certo il miglior conoscitore e divulgatore del passato della nostra città.
don Armando
L’analisi
Tanto fermento in città
di Alvise Sperandio
Il settore della pittura è molto vivo a Mestre grazie all’impegno quotidiano di tanti artisti.
Il Premio cittadino rilanciato dal Circolo Veneto. In Provvederia nuovo spazio per le mostre
A Mestre da sempre ci sono tanti pittori che offrono al pubblico il frutto delle loro intuizioni, del loro genio artistico e della loro creatività. Questa città, d’altra parte, ha regalato nomi di altissimo valore: basti citare, a titolo esemplificativo e senza nulla togliere ad altri, personalità del calibro di Gigi Candiani (a cui è intitolato il centro cultu-rale), Vittorio Felisati e Giorgio Di Venere. Ci sono, poi, molte persone “normali” che tutti i giorni si esercitano con tavolozza e cavalletto, qualcuna da autodidatta per passione, altre frequentando vere e proprie scuole guidate da maestri che mettono a loro disposizione competenze ed esperienze sull’approccio e sulla tecnica usata. Insomma, il fermento tuttora non manca, indice di una vitalità che forse però fatica a trovare il giusto riconoscimento e la giusta vetrina. Com’è noto molti mettono in mostra le loro opere in via Palazzo a due passi da piazza Ferretto.
La mancanza, piuttosto, riguardava un’iniziativa di alto livello che sapesse costruire “rete” ed “eco” nonché un luogo pubblico che diventasse punto di riferimento per esposizioni che nascono “dal basso” (tanto più che ora al Candiani il settore pittura è affidato al coordinamento dei Musei civici). Molto, sull’uno e sull’altro versante, si è fatto negli ultimi anni.
Anzittutto il Circolo Veneto presieduto da Cesare Campa ha rilanciato in grande stile il Premio Mestre di pittura in collaborazione con il Comune e col sostegno di alcuni sponsor, premio che nel 2017 ha raggiunto ottimi risultati. Quest’anno la seconda edizione del nuovo corso del progetto, che ha radici antiche, conferma la formula della divisione in tre sezioni: c’è il concorso fotografico per le scuole; l’extempore degli acquerelli domenica 20 maggio con chiusura in programma nell’elegante cornice del nuovo chiostro dell’M9 in via Poerio; e il concorso vero e proprio che culminerà nella mostra al Candiani, preceduta dalla cerimonia di premiazione al teatro Toniolo, entrambe in programma nel mese di settembre nell’ambito delle celebrazioni per la festa del patrono San Michele arcangelo (che ricorre il giorno 29). L’anno scorso i numeri della partecipazione sono stati importanti: 32 le classi coinvolte in quel caso per l’elaborazione del logo e del manifesto ufficiali; 80 i pittori che si erano cimentati nelle piazze e nelle vie con l’acquerello; e 223 quelli che avevano preso parte al concorso vero e proprio. Quest’anno Campa e soci puntano a fare ancora di più, se possibile. Quanto, invece, agli spazi, le novità principali hanno due nomi: la sala a piano terra della Provvederia di fronte al Municipio, una vera e propria bomboniera dove negli ultimi mesi si stanno alternando esposizioni di vario tipo con tre buoni risultati: conoscere gli artisti; poter frequentare un luogo che per tanti anni era rimasto chiuso; e rivitalizzare il centro città. A coordinare le attività è lo staff che fa capo al’assessore Renato Boraso che segue con abnegazione quest’avventura. L’altra iniziativa che merita un cenno è la nuova D’E.M. Venice Art Gallery fondata da Elena Mangu in via Dante con l’intento non solo di offrire uno spazio espositivo, ma anche un luogo d’incontro tra artisti e tra artisti e cittadini per fermarsi a dialogare di arte.
Il punto di vista
In che mondo viviamo?
di don Fausto Bonini
Siria, l’appello di Papa Francesco: non ci sono guerre buone o cattive, la via è il negoziato Ci troviamo ormai sull’orlo dell’abisso. Stiamo perdendo di vista ciò che conta veramente
Una mostra da non visitare
Avevo preso un po’ sul ridere il fatto che qualche settimana fa uno scheletro, trasportato in barca in laguna per una mostra, fosse caduto in acqua a Venezia. Poi qualche giorno fa ho ricevuto una e-mail al mio indirizzo personale da parte di un’agenzia che mi informava dell’apertura di un’esposizione in un palazzo del centro storico appena ristrutturato. Niente di strano, mi pareva. Ma quando ho letto il contenuto della mostra sono rimasto sbalordito. Trentasei sale espositive per “offrire l’opportunità di visionare centinaia di strumenti di tortura e di morte”. E il relativo comunicato stampa diceva che “saranno visibili le più importanti e terrificanti macchine di morte e di tortura usate come strumenti di giustizia”. Proprio un bel modo per inaugurare l’utilizzo di un palazzo a “scopi culturali”! Poi sono venuto a sapere che la mostra è visitatissima, che bisogna fare la coda per entrare. E questo mi rattrista molto. Ha ragione papa Francesco quando ci dice di stare attenti alla “sclerosi del cuore”. Il male e la cattiveria umana stanno prendendo il sopravvento nella nostra vita tanto da non impressionarci più. Il bambino morto sulla spiaggia, il bambino tutto impolverato tirato fuori dalle macerie, le immagini che arrivano in questi giorni sui nostri schermi dalla Siria: bombardamenti sui centri abitati, bambini mutilati e feriti, ospedali colpiti dalle bombe, il cecchino israeliano che spara su un uomo ed esulta per aver centrato l’obiettivo. C’è il rischio di farci l’abitudine. Il cuore si sclerotizza. Non ci commuoviamo più. Oppure la commozione è solamente un movimento passeggero.
Altri “pezzi” alla “guerra mondiale a pezzi”
“Giungono dalla Siria notizie terribili, di bombardamenti con decine di vittime di cui molte sono donne e bambini, notizie di tante persone colpite da effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe”. Lo ha ricordato domenica 8 aprile papa Francesco lanciando un appello per la pace nel Paese mediorientale. “Non c’è una guerra buona e una guerra cattiva e niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi – ha aggiunto ancora il Santo Padre -. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato. La sola che può portare alla pace”. Mentre scrivo sono iniziati i raid con i primi bombardamenti sulla Siria. Nella notte tra venerdì e sabato scorsi il presidente degli Usa Trump ha annunciato azioni mirate sui siti legati alla guerra chimica. Un intervento con l’appoggio di Gran Bretagna e Francia e il parere favorevole della Germania. Russia e Iran hanno paventato gravi conseguenze. C’è un forte pericolo che succeda il peggio.
Il senso vero del reale
La “guerra mondiale a pezzi”, come la chiama papa Francesco, si allarga sempre di più. Viviamo sull’orlo dell’abisso e nel nostro piccolo mondo i nostri politici litigano su chi sarà il nuovo presidente del Consiglio, si fa la coda per vedere gli strumenti di tortura, si è insensibili alle tragedie altrui, dentro alla Chiesa si fa la guerra a Papa Francesco perché parla troppo di vangelo e troppo poco di dottrina. Ma in che mondo viviamo? Per fortuna che c’è papa Francesco che continua a richiamarci all’ordine!
Pensieri a voce alta
Piccole bellezze
di Federica Causin
Un dettaglio che colpisce sempre quando si entra per la prima volta in uno dei Centri don Vecchi è la quantità di quadri che impreziosiscono gli interni. Ci sono opere di grande pregio raffiguranti soggetti sacri e paesaggi. Sono state tutte donate a don Armando Trevisiol che ha voluto condividere con i residenti, le loro famiglie e gli altri visitatori la sua passione per l’arte creando delle “mostre permanenti” che si possono apprezzare semplicemente uscendo dal proprio appartamento. Così anche chi non può più concedersi lunghe passeggiate fuori dal centro mantiene il contatto con la bellezza e può mettersi in ascolto delle storie che le immagini raccontano. Se, invece, alla potenza evocativa della pittura, preferisce la bellezza sempre nuova della natura, può affacciarsi alla finestra o scendere in giardino e lasciarsi stupire dai colori e dai profumi che cambiano con l’alternarsi delle stagioni. Proprio ieri, mentre gironzolavo per i corridoi in cerca d’ispirazione, mi sono resa conto di due cose sulle quali finora non mi ero mai fermata a riflettere. La prima, che forse potrà sembrare banale ma è molto vera, almeno per quanto mi riguarda, è che spesso guardiamo senza vedere quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. L’abitudine e la fretta fanno scivolare via lo sguardo. “Quante volte sono entrata e uscita di casa in questi sette anni di permanenza al Don Vecchi?”, mi sono chiesta. Moltissime, eppure ho notato alcuni particolari dei quadri soltanto di recente. Per fortuna ci pensa don Armando a mantenere vivo l’effetto sorpresa, cambiando di tanto in tanto la disposizione! La seconda considerazione è che tutte le opere, segno tangibile della stima, dell’affetto e della riconoscenza nei confronti di un sacerdote lungimirante e sognatore, contribuiscono a creare l’atmosfera calda e accogliente che si respira fin dal primo istante, ma sono anche un frammento della storia della famiglia che li possedeva prima che è arrivato fino a noi e che, in un certo senso, ci è stato affidato. Da qualche parte ho letto che la bellezza si nutre della dinamicità dell’uomo, del suo desiderio d’incontrare gli altri e di conoscere realtà nuove. Chissà quanta vita è racchiusa nelle immagini che sfioriamo con un’occhiata distratta!
La nostra storia
Pietre che ritornano
di Sergio Barizza
Se le pietre di villa Gradenigo sul Terraglio, dopo la sua demolizione, servirono a terminare la costruzione del nuovo duomo di Mestre, le pietre delle vecchie mura del Castelnuovo seguirono una sorte del tutto analoga. La cinta muraria che contornava il centro di Mestre era stata in gran parte distrutta dai mercenari tedeschi e spagnoli durante la guerra della lega di Cambrai (1513): ne erano rimasti alcuni tratti soprattutto nella zona di via Torre Belfredo. Non sfuggirono alla rapacità di chi voleva approfittarne per risparmiare qualcosa nella costruzione della propria casa. Capitò nel 1820 quando Dario Michiel, dopo aver acquistato un caseggiato da Giuseppe Tassello, proprio nella zona adiacente alla torre di Belfredo, aveva ricevuto una denuncia perché sorpreso a demolire abusivamente “un avanzo delle antiche mura dì Mestre”. Era stato obbligato a ricostruire il pezzo di muro, che serviva da divisorio con i vicini, con pietre nuove, mentre “le ottocento pietre cotte ritratte dalla demolizione delle mura, fino al momento della sospensione, furono trasportate al cimitero ed ivi impiegate nella erezione dei nuovi muri”, alleviando così alla municipalità la spesa per il primo allargamento del recinto cimiteriale.
Le pietre di villa Gradenigo per il duomo di San Lorenzo, quelle delle mura per il cimitero. La nuova città che piano piano stava crescendo all’inizio dell’ottocento avanzava calpestando i resti della propria storia. Non deve però meravigliare più di tanto: le città che si espandevano sotto la spinta della rivoluzione industriale trovavano un ostacolo sia nelle mura medievali, che vennero un po’ dovunque distrutte per favorire la costruzione di grandi viali urbani che nelle torri difensive che furono demolite o, nella migliore delle ipotesi, adibite a case private di abitazione di qualità. Con una chiarissima metafora lo storico francese Jacques Le Goff, in un saggio in cui ripercorre le vicende delle antiche mura in molte città europee, afferma che esse ormai “per le città industriati erano spesso diventate dei vecchi ronzini”. È ben vero che la sensibilità per la tutela e conservazione dei beni storici si sarebbe affermata molto più tardi, ma qualche voce si era pur alzata in difesa di quanto rimaneva del vecchio castello. Basti citare Bonaventura Barcella, segretario del Comune di Mestre, che nel 1839 aveva pubblicato il suo Notizie storiche del castello di Mestre o, negli anni successivi, i meticolosi studi di Scipione Fapanni, che costituiscono ancora oggi un punto fermo sulla ricerca storica. Rimasero voci isolate e inascoltate. Ne è testimonianza diretta quanto accadde alla “Commissione all’ornato”, organo municipale deputato alla conservazione degli edifici storici e al controllo sulla costruzione dei nuovi. Istituita nel 1806 sotto il governo francese venne riconfermata nel 1821 sotto quello austriaco, ma quando sottopose al governo una bozza di regolamento con due obiettivi ben precisi, da un lato garantire condizioni di sicurezza e abitabilità nelle case, dall’altro predisporne pure un piano per l’abbellimento esterno, si vide respingere con altezzosità l’intera seconda parte..: “Le operazioni proposte sarebbero non solamente utili, ma ben anco necessarie ove si trattasse di una grande e popolosa città, ricca per sontuosi edifizi e pubblici stabilimenti né mai per un antico castello ridotto alla semplice condizione di grossa terra quale oggidì è Mestre”. Il ritornello Mestre è una città senza storia ha radici profonde e antiche. (12/contìnua)