Da “COMUNITÀ E SERVIZIO” – 18 marzo 2018
settimanale della parrocchia San Giuseppe di viale San Marco
“Il fondo” del parroco, don Natalino, si rifà alla Domenica delle palme ed in particolare alla tradizione per la quale la comunità offre un ramoscello di olivo ai suoi membri. Don Natalino afferma che questa usanza va mantenuta non come un residuo del passato, ma come un inizio, quale segno di comunione che va rivitalizzato perché impegni a vivere con spirito di fraternità.
Delle due pagine di centro la prima è occupata da un bell’articolo di Monica Alviti, “Cristiani e razzisti, si può?”, articolo che ha come “cuore” un bellissimo pensiero di Bertold Brecht che vale la pena di conoscere; la seconda da un articolo di colore di Alessandro Seno sull’adolescenza, articolo che si legge piacevolmente e che aiuta a comprendere gli adolescenti.
L’ultima pagina invece si rifà alla cronaca parrocchiale.
don Armando
UN GESTO BENEDETTO
di don Natalino
La domenica delle Palme tiene a dispetto del calo progressivo nella frequenza alle altre messe domenicali. Buona parte dell’attrattiva popolare, di cui questa ricorrenza gode, si deve all’usanza di portare a casa un ramoscello d’ulivo. Di per sé tale segno richiama la partecipazione alla celebrazione liturgica. Tuttavia per la gran parte della gente l’ulivo evoca semplicemente un sentimento di religiosità, direi inerziale. Se nelle nostre campagne esso veniva bruciato per propiziare il cessare della tempesta o altre calamità, oggi gli si dà un generico valore augurale di pace e serenità. Anche quest’anno le nostre parrocchie nella collaborazione pastorale si stanno dando da fare per far giungere a tutti l’ulivo benedetto, ben confezionato, suonando alla porta di casa di ogni famiglia. Perché continuare a farlo? Ha ancora un senso? Ritengo di sì: non semplicemente come un residuo, ma come un inizio.
Quando si apre la porta di casa, avviene un incontro. Incontro dei volti, fatto di parola e gesto. L’ulivo è un piccolo dono, che può esprimere un’appartenenza comune e indicare attenzione e vicinanza all’altro. Il gesto si compie se accompagnato da una parola semplice e fraterna: l’invito alla Pasqua del Signore Gesù.
Nelle corti e lungo i ballatoi, per le vie e nei condomini, che sembrano sempre più vuoti quando tante solitudini faticano ad incontrarsi, portare l’ulivo è un gesto benedetto. Usciamo quindi incontro a tutti, perché abbiamo una gioia da condividere: l’amore di Gesù Cristo per la vita del mondo.
CRISTIANI E RAZZISTI, SI PUÒ?
Vi ho lasciati sul tema dell’indignazione. Oggi invece vi lancio una provocazione. Si può essere cristiani e contemporaneamente razzisti? Alcune persone che si dicono cristiane sono diventate razziste nei confronti degli immigrati, a seguito dei tanti fatti di cronaca e dell’andamento incerto di questo nostro governo.
Non è facile prendere una posizione certa e definitiva, ma essere cristiani non è semplicemente una presa di posizione così come non dovrebbe esserlo dichiararsi, o meglio comportarsi, da razzista. Sì perché a guardare bene pochi ammettono di esserlo ma poi finiscono per comportarsi come tali. Ammetto che è davvero molto semplice cadere nel tranello, finire per credere che questa società “malata” lo sia in buona parte a causa degli stranieri che popolano il nostro Paese e che sembrano più tutelati dalla legge di noi italiani. Non sto a sindacare qui sulla veridicità o meno di certe notizie o sull’idoneità di certi dibattiti, ma mi soffermo su una frase di un pastore protestante tedesco, ripresa e resa poi celebre da Bertold Brecht (letterato tedesco): “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti e io non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
Quando ci permettiamo di giudicare gli altri, quelli diversi da noi, per razza, sesso, religione, lo facciamo da una posizione privilegiata, quella di non appartenenza a nessuna delle categorie criticate.
Se non comprendo l’omosessualità è perché io sono etero, se non mi fido degli stranieri è perché io sono italiano. E se io sono cristiano in che relazione mi pongo con il “diverso da me”? Ecco forse il punto cruciale: da cristiano probabilmente non sono tenuto ad accettare passivamente tutto ciò che accade ma sono tenuto ad entrare in relazione con il prossimo, sia esso appartenente o meno alla mia cultura, senza chiudere gli occhi e tapparmi le orecchie davanti alle ingiustizie altrui perché un giorno potrebbero essere le mie. Con la sua frase Brecht non si dimostra apertamente razzista ma solo simpatizzante di un’ideologia, perché comunque sente fastidio per chi è diverso da lui. Rimane nell’ombra, non si espone. Gli va bene che qualcuno metta paletti e faccia distinzione di popolo, cultura, religione fin tanto che lui stesso non ricade a sua volta in una categoria e viene colpito dalla stessa violenza che prima non aveva contrastato. Solo allora apre gli occhi e capisce.
Monica Alviti
CULTURA NON PAGA
Canto quel motivetto che mi piace tanto e che fa du… du… du… du… Ognuno di noi ha nel cuore un brano musicale che sprigiona sentimenti vari che vanno dalla malinconia degli anni passati alla rabbia di un amore perduto oppure alla pura e semplice gioia di battere il piede a ritmo e cantare a squarciagola.
Penso a canzoni come “Azzurro” di Celentano (scritta da Paolo Conte), “Nel blu dipinto di blu” (volare oh-oh, cantare oh-oh-oh-oh) o “La canzone del sole” (…le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi…) che tante gite in autobus hanno rallegrato. Sicuro! Tutti quanti portano dentro una musica e a quella ricorrono nei momenti un pò ‘ così della giornata, quando tutto gira storto e non ci resta che…fischiettare o impugnare un microfono virtuale e liberarci per qualche minuto dalle pene quotidiane. Un preambolo lungo per scrivervi del mio brano preferito – impossibile estrarne uno solo dal cilindro, impossibile, ma per voi, miei amati lettori, farò un’eccezione – che si colloca nell’ambito dei ri cordi belli, legati ad un periodo della vita che spesso viene dimenticato in fretta che è quello delle scuole medie; questa canzone fotografa in maniera perfettamente “spietata” un momento specifico di questo lasso di tempo: la festa, o per dirla con un gergo ultratrentennale, la festina! Lo so, siete curiosi di sapere di che canzone si tratta; alcuni di voi, amando il simpatico complessino che la canta avranno già capito e staranno intonando (o stonando forse…) i primi versi che fanno così: “Brufolazzi, tapparella giù e poltiglia, più ascella purificata, ti ricordi che meraviglia la festa delle Medie? “.
Fateci caso, in meno di 20 parole, il gruppo che ha composto questo stupendo affresco, ha fotografato in maniera chirurgica, spietata e assolutamente autentica la situazione di noi poveri 12-13enni impegnati nel (vano) tentativo di essere presentabili alla festa dove c’erano LE RAGAZZE! Altro che esame di Terza, quello era il vero banco di prova per il passaggio all’età adulta…
Adesso vi svelo titolo (Tapparella) e gruppo (Elio & Le Storie Tese) e vi invito a recuperare la canzone che, a mio avviso, rappresenta un trattato sociologico sull’inadeguatezza di ogni ragazzino in età adolescenziale, fa sbellicare dalle risate e rimette nei giusti binari una giornata storta. Frasi come “faccio un vento e gli cambio il clima” o “parapiglia scatta il gioco della bottiglia” non possono lasciare indifferenti chi, almeno per una volta, ha partecipato ad una di queste feste. Ogni volta che la ascolto devo cantarne almeno un pezzo! Bravo Elio, Bravo Fogli (solo per iniziati quest’ultima citazione… ma chissà che anche voi non lo diventiate)!
Alessandro Seno