Le bandiere del “Germoglio”

Passando per via Ca’ Rossa ho notato che sul pennone sventolavano finalmente tre bandiere nuovissime: il tricolore, la bandiera d’Europa e il gonfalone di San Marco: da un paio di anni sull’alto pennone che si innalza accanto al vecchio asilo stile liberty, costruito all’inizio del secolo scorso da mons. Piero Zannini, parroco di Carpenedo, c’erano tre straccetti logori e sbiaditi che facevano miseria.

A molti potrà sembrare un po’ sentimentale e puerile che un vecchio prete esulti per tre bandiere multicolori che sventolano accanto alla vecchia struttura della sua vecchia parrocchia. Per me però quelle tre bandiere sono come il segno di una rinascita e il ricordo di tanto impegno e di tanti sacrifici per portare all’avanguardia la vecchia struttura.

Quarant’anni fa mi fu consegnato un asilo fatiscente che perdeva brandelli da ogni lato e che aveva bisogno di un restauro radicale sia nei muri che nei contenuti pedagogici. Pian piano l’asilo è diventato “Il Germoglio, centro polifunzionale per l’infanzia”.

Cominciammo con le pareti, l’arredamento interno, i giochi, la divisa. Ricordo che facemmo studiare da uno stilista una divisa unisex: salopette alla Geppetto in tessuto jeans, maglietta rossa fatta fare in Cina e lo stemma di Carpenedo in giallo oro. Continuammo con la casetta dei sette nani, la voliera per le tortore, il trenino, lo zoo con galletti e i pavoni (che mi inimicarono l’intero quartiere con le loro “stridenti” dichiarazioni d’amore). E ancora la casetta di Alì Babà per le feste di compleanno e di onomastico, l’accoglienza fin dalle sette del mattino per facilitare l’andare al lavoro delle mamme, i lettini per dormire il pomeriggio, la sezione per il nido d’infanzia per i bambini da uno a tre anni, la possibilità per le mamme di chiacchierare all’uscita nei cortili mentre i loro piccoli continuavano a giocare, la nuova cucina e la nuova sala da pranzo con il piccolo montacarichi che portava i cibi in tavola, i fiori. E nonno Tullio, assieme a Fernando che mettevano ordine da mattina a sera nel giardino, i nuovi bagni, la ristrutturazione interna per creare una sala giochi per i “grandi” ed un’altra per i piccoli.

Quelle bandiere mi hanno pure ricordato i giorni tristi: l’abbandono delle suore dopo settant’anni, le nuove sorelle frutto della restaurazione più retriva, l’incomprensione dei genitori che si erano messi in mente che fossi stato io a “mandar via le suore”. E finalmente l’arrivo della dottoressa Tavolin che ha preso in mano la situazione con competenza ed ha riportato un clima di totale serenità.

Qualche giorno fa mi hanno riferito che la signora Lina è stata “richiamata alle armi” dal nuovo parroco. Spero tanto che riporti la primavera ed accompagni “Il Germoglio” ad una nuova splendida fioritura. Rimango convinto che le iniziative che nascono dalle comunità cristiane debbano essere sempre innovative ed apripista per chi ha la sfortuna di avere meno ideali che cantano in cuore!

Il Papa di montagna

Qualche settimana fa il primo canale della Rai ha messo in onda una fiction su Papa Luciani. Come sempre accade questo tipo di trasmissioni non raggiunge quasi mai un alto livello artistico; per quanto poi riguarda la storia lascia alquanto a desiderare. Queste trasmissioni normalmente non sono di un grado molto superiore ai fumetti.

Di positivo c’è stata la straordinaria rassomiglianza fra Papa Luciani e l’attore che lo impersonava: sia il volto che la parlata si avvicinavano veramente all’originale. C’era poi qualche bella scena girata nell’Agordino e qualche altra a Venezia. Per tutto il resto si avvertiva quanto mai la finzione scenica sia nella narrazione che nella rappresentazione del personaggio.

Quello che avvertiva uno come me, che ha conosciuto da vicino il vecchio Patriarca, era quanto difficile, quasi impossibile, per il cinema riprodurre la realtà. Mentre per lo scritto si può puntualizzare più efficacemente il clima, la sensibilità, lasciando anche spazio alla memoria o alla fantasia di chi rievoca un personaggio, per la macchina da presa questo è estremamente più difficoltoso e il risultato è sempre goffo e poco fedele. Nella fiction poi, in cui si impegnano meno soldi, questo risulta ulteriormente più difficile.

Quello che invece ho colto e che mi pare un dato assolutamente reale, è lo smarrimento, il bisogno di un uomo semplice, onesto ed umile, che in Vaticano, nonostante l’ambiente religioso, appare indifeso e fuori posto in una realtà purtroppo artificiosa, popolata da gente che, tutto sommato, ha una mentalità politica, dove la fede non gioca un ruolo primario.

La morte di Papa Luciani è stata di certo un dono che l’ha liberato da una croce troppo pesante. Credo però che il suo pur rapido passaggio, abbia destato nel cuore dei credenti il desiderio di un Papa di forte semplicità, di autenticità e di coerenza tra messaggio e vita reale.

Questa attesa ed esigenza che Papa Luciani ha fatto emergere nella coscienza dei cattolici penso sia stato un dono immenso per la Chiesa di Dio.

I segni del tempo

Io cominciai il mio ministero sacerdotale presso la parrocchia veneziana di Santa Maria del Rosario, che tutti chiamano “Gesuati”. Infatti la chiesa è stata costruita dall’ordine religioso dei Gesuati, ordine che la Serenissima ottenne dal Vaticano di sopprimere per incamerare i suoi beni in cambio della fornitura di galee per la battaglia navale di Lepanto.

Ricordo di quelle mie prime esperienze pastorali un episodio che a quel tempo giudicai più banale di quanto oggi lo ritenga. Una signora, penso cinquantenne, mi confidò che quando si guardava allo specchio e scopriva le rughe incipienti, si lasciava andare ad un pianto accorato.

Allora una simile reazione mi sembrava futile ed espressione di quella innata e persistente mania tipicamente femminile di essere belle comunque e di continuare ad esserlo nonostante il passare del tempo.

Oggi sono molto più comprensivo, perché talvolta mi capita di provare sentimenti analoghi, che di certo non mi portano alle lacrime, ma non nascondo che mi provocano una certa nostalgia e una certa inconfessata amarezza per i segni che il tempo ha lasciato in tutti gli aspetti della mia umanità.

Ogni anno mi capita di incollare sulla tessera di pubblicista il bollino annuale, tessera che mantiene la mia foto di trent’anni fa: figura asciutta, capelli castani, volto giovanile.

Istintivamente li confronto con la mia attuale zazzera bianca, la pancia abbondante e il volto carico di rughe. Il confronto, confesso, è amaro e deludente.

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare qualche omelia che ai tempi di “Radiocarpini”, trent’anni fa, venivano registrate: una voce limpida, un parlare fluido, delle argomentazioni lucide. Tutt’altra cosa oggi! Dire “tutto passa!” è una cosa, constatare i segni del passaggio è tutt’altra cosa, non solo per la mia vecchia parrocchiana, ma anche per il nuovo vecchio parroco in pensione!

Accorciare le ferie non è un delitto

Mario Monti, il nostro presidente del Consiglio, ce la sta mettendo tutta. Qualche settimana fa, incontratosi con i colleghi del suo Governo, è rimasto in conclave per ben otto ore – un’intera giornata – per studiare un piano per rilanciare l’economia e l’occupazione. La coperta è però tanto corta che se la tira su restano fuori i piedi e se la tira giù rimangono scoperte le spalle.

Mi spiace che siamo già a novembre e le mitiche ferie siano già finite, però il mio consiglio potrebbe servire per l’anno prossimo, perché non credo che basteranno pochi mesi per guarire l’Italia. Perciò mi permetto di dargli un suggerimento:
«Professore, prema sull’acceleratore e dimezzi le ferie. Sto constatando che gli italiani che, per i motivi più diversi, durante le vacanze sono stati a casa, sono ancora tutti vivi e vegeti, nessuno è morto per mancate vacanze! La Sua posizione è favorevole e irripetibile, sfidi partiti, sindacati e confindustria e faccia le riforme che sono necessarie! Per il nostro Paese Lei è già un eroe e lo sarebbe anche molto di più se i politici La mandassero a casa come Cincinnato. Sapere di avere uomini coraggiosi che non si compromettono per qualche gioco di potere è una vera ricchezza per l’Italia»!

Il vecchio Cardinale

Il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’ho sempre immaginato: imponente, autorevole, sicuro, colto. Infatti il vedere questo prelato, già alto di statura, con la mitria in capo che lo allungava ulteriormente, tenere sulla destra il pastorale, che dava la sensazione di comando, il sapere che egli era un biblista di fama mondiale e che governava una diocesi di un paio di milioni di abitanti, l’aver letto alcune sue pastorali dotte ed incisive: tutto questo me lo faceva immaginare come una roccia e me lo faceva collocare tra la schiera degli apostoli e dei profeti, uomini completi e sublimi che incutono soggezione.

Ora scopro sulla copertina del suo ultimo volume che sto leggendo, “Qualcosa in cui credere”, un suo pensiero e l’immagine di questo Cardinale, una immagine che lo mostra curvo, vecchio, ammalato e ritirato in convento, mentre afferma: «L’angoscia nasce dall’insicurezza diffusa e dalla fatica di trovare nel proprio bagaglio risposte rassicuranti. E’ la paura di dover affrontare un futuro incerto, rimanendo privi di quel poco di terreno solido che si pensava di aver conquistato. Tuttavia, se impareremo a guardarci negli occhi con rispetto e da fratelli, ci troveremo uniti nella fiducia, o almeno nel presentimento che ci deve pur essere qualcosa in cui possiamo ancora credere».

Ebbene le parole umili, incerte e povere di questo vescovo che “da ricco s’è fatto povero”, mi stanno aiutando molto di più di quando pontificava sulla cattedra di Sant’Ambrogio. Anche questo è miracolo di quel Signore che con gli umili fa cose grandi.

A prescindere

Ricevo almeno due telefonate al giorno da parte di persone disperate che non sanno più dove battere il capo. Quasi sempre, prima di telefonarmi, si sono rivolte al loro parroco il quale, quasi sempre, non sapendo cosa fare, fa loro il mio nome.

Non credo di essere il più amato e stimato dai miei colleghi, ma di certo so di essere spessissimo usato come una speranza o, peggio, come pretesto che li libera dall’imbarazzo di non avere soluzioni da offrire.

Io sono un pensionato, non ai margini della vita della mia Chiesa, ma anche oltre i margini, una voce scomoda che i più si rifiutano perfino che giunga presso la loro gente, però rimango un comodo pretesto nei momenti imbarazzanti posti dalle vecchie e nuove povertà.

Di certo, finché avrò fiato, non cesserò di ripetere che la solidarietà, quella concreta, spicciola, non quella che si colloca nella stratosfera, è una componente essenziale del messaggio cristiano.

Non cesserò di ripetere che la nostra Chiesa, se vuol essere fedele al messaggio di Gesù, deve farsi carico dei poveri. E rifiuto quei vecchi e superati discorsi di comodo per i quali qualcuno pensa di liberare la propria coscienza affermando che le soluzioni concrete spettano allo Stato, mentre la Chiesa può continuare ad occuparsi delle candele e dell’incenso. Non cesserò di ribadire che non soltanto è un dovere, ma che la nostra Chiesa oggi ha tutte le possibilità di dare delle risposte concrete.

Un tempo pensavo che la carità avrebbe portato in chiesa chi ha beneficiato del suo aiuto. Ora non lo penso più, però rimango convinto che la si debba fare anche se non ci fossero ritorni in pratica religiosa.

Betlemme in versione terzo millennio

Ho telefonato ad un mio collega per segnalargli il caso pietoso di un’anziana signora che vive nella sua parrocchia sola nonostante un’incipiente demenza senile. Questo, a sua volta, mi ha chiesto aiuto per una giovane coppia con un bambino di due o tre anni ed un altro in arrivo fra pochi giorni.

Non sapendo che cosa fare e a chi rivolgersi – ma nessuno di noi, per quanta buona volontà ci metta, sa cosa fare – li aveva ospitati nel suo garage. Da un paio di mesi questa famigliola ha bussato a tutte le porte civili e religiose, senza trovare risposta.

Per mangiare e vestire la nostra città ha qualche disponibilità, ma per ospitare non c’è proprio nulla. Perfino all’asilo notturno i senzatetto da qualche tempo sono costretti a turnarsi, ma comunque il rifugio dei barboni non sarebbe stato adatto per questo caso.

L’inettitudine del Comune è senza limiti. Pare che, specie ultimamente, esso si sia dedicato agli sperperi (vedi i 30 milioni per le fondamenta, inutili, del Palazzo del Cinema) o ad impedire, a chi si impegna per i poveri, di portare avanti i suoi progetti sociali, mediante una burocrazia dissennata ed irresponsabile. Non parlo tuttavia solo del Comune, ma mi riferisco pure alla mia Chiesa. Possibile che la nostra diocesi non possa affrontare qualcosa almeno per le emergenze?

La cittadella, con il relativo ostello per chi ha bisogno di un tetto da un paio d’anni è stata appesa alla “virtù della carità soprannaturale”. Oggi, come duemila anni fa, non c’è posto in alcun “albergo” per il bimbo che deve nascere!

Unità pastorali e comunità sacerdotali

Il processo di accorpamento delle parrocchie è un processo irreversibile dovuto alla carenza del clero, all’assottigliarsi della frequenza religiosa dei battezzati e alla complessità organizzativa delle parrocchie.

Fino a una trentina di anni fa s’è proceduto ad assottigliare le comunità parrocchiali moltiplicandole. Ora comunque la vita impone un processo inverso.

Ricordo come il cardinale Agostini si sia impegnato in maniera lodevole per assicurare ad ogni zona in sviluppo un prete ed una chiesa. Attualmente questo discorso non è più possibile. Credo che sia preferibile una grossa parrocchia con almeno due preti, piuttosto che due parrocchie più piccole con un prete ciascuna.

La sinergia produce dei vantaggi più che evidenti. Però in questo processo, che ritengo irreversibile ed anche positivo, non sento mai parlare della formazione di comunità sacerdotali che sono la condizione “sine qua non” perché la cosa funzioni.

In una comunità in cui più preti vivono assieme, ognuno può contribuire con le sue risorse specifiche, si è costretti al confronto e all’edificazione reciproca, si elimina l’isolamento, soprattutto si possono impegnare le forze quando occorrono ed infine si eliminano i doppioni che sprecano inutilmente energie.

Vivere assieme è difficile, però oggi penso sia l’unica strada percorribile se non si vuole arrivare all’inedia e all’inefficienza. Se in queste comunità entrassero anche i laici di ambo i sessi a condividere l’impegno pastorale, saremmo all’optimum!

Accelerazione sulla promozione del laicato

Sono decenni che sento parlare della promozione del laicato. Qualcosa s’è fatto, soprattutto a livello teorico, però se tutto dovesse dipendere da noi, credo che nella Chiesa ci vorrebbero almeno altri cent’anni perché ai laici cristiani sia concesso di assumersi i ruoli che potrebbero e dovrebbero svolgere all’interno della stessa.

Per fortuna, e per grazia di Dio, la realtà – ossia la diminuzione costante del clero – ci costringe a fare quello che dovremmo fare per scelta e per coerenza ideale. Perfino in politica – che è tutto dire – si è ricorsi a dei professionisti del settore per tentare di raddrizzare l’economia del Paese.

Pur vivendo ai margini della vita diocesana mi capita di vedere delle castronerie veramente gravi a livello economico e gestionale, perché finora non s’è mai avuto il coraggio di chiedere ad un laico preparato, piuttosto che ad un prete incapace, di gestire il patrimonio e gli affari economici della comunità cristiana.

Ora, essendoci sempre meno preti, bongré o malgré, presto si sarà costretti a fare quello che a parole s’è detto che era giusto fare. Questo vale per tutti gli aspetti della vita ecclesiale, ma in particolare pare estremamente urgente si debba farlo a livello amministrativo.

Ultimamente si è venuti a conoscenza di sbagli veramente gravi che hanno portato allo sperpero significativo di denaro che avrebbe potuto essere impiegato in maniera più assennata per la carità.

Il “don Vecchi” è in mano quasi totalmente ai laici e finora essi hanno gestito da volontari in maniera intelligente e positiva un patrimonio assai consistente. Il prete, semmai si deve riservare il ruolo di “bandiera”, di colui che prospetta utopie e predica il Regno a tutti i livelli.

Impalcatura ecclesiastica e vita normale

Io partecipo troppo poco agli incontri per l’approfondimento culturale, teologico e pastorale del clero, perché sono vecchio, perché sono appassionato delle cose di cui mi occupo e perciò non mi resta tempo per altro, ma soprattutto perché ho avuto esperienze non esaltanti. Io sono diffidente e sospettoso per l’eccessiva burocratizzazione della vita ecclesiale, perché temo finisca per separare “il commando” e la sua relativa articolazione con la prima linea ove i sacerdoti si misurano con l’uomo reale del nostro tempo, che ha pregi, difetti, manie e preconcetti che gli derivano dall’opinione pubblica, ma che comunque è l’uomo con il quale abbiamo a che fare.

I comitati, le commissioni e quant’altro, finiscono per complicare le cose, per parlarsi addosso, perdono il contatto reale con le persone perché adoperano parole e schemi mentali che sono del tutto o in gran parte, estranei alla mentalità dell’uomo d’oggi.

Io ritengo che solo vivendo a stretto contatto con la gente, nasce un rapporto di simpatia e di comunione per il quale l’intesa e il passaggio del messaggio diventa possibile. Wualom, il fondatore dei “piccoli fratelli di Gesù” ha elaborato questa prassi per dare testimonianza della fede agli uomini del nostro tempo. Vivere “come loro”, ossia calarci dentro alla vita, alla cultura, alle abitudini e alla sensibilità dell’uomo della strada.

Se potessi dare un suggerimento, direi a tutto lo “stato maggiore” di trascurare un po’ le discussioni ad alto livello, per dedicarci maggiormente al dialogo con la base: preti, diaconi e, soprattutto, fedeli.

Santità e sacralità

Per molti anni avevo mantenuto più di una riserva nei riguardi di una delle rare teologhe del nostro tempo. Le mie riserve nascevano forse per dei motivi che non mi venivano da una conoscenza diretta, ma piuttosto da voci che mi giungevano da una certa stampa piuttosto allineata, come al solito poco intelligente, anzi ripetitiva ed eccessivamente preoccupata di essere in linea col pensiero ufficiale.

In questo ultimo paio di anni ho letto con attenzione ed interesse alcuni volumi di mistica, spiritualità e teologia della Zarri, una pensatrice cattolica, non allineata, ma altrettanto impegnata ad una lettura libera e approfondita della Bibbia. Non solo mi sono sentito riavvicinato al suo pensiero, ma l’ho trovato quanto mai approfondito ed arricchente. Ho avuto occasione di meditare su due suoi concetti che io avevo pensato interscambiabili, mentre ho appreso che non sono solamente diversi, ma talora perfino opposti, ossia il concetto di santità e quello di sacralità, quest’ultimo quanto mai diffuso, anzi imperante fino a ieri.

Per sacro si intendeva qualche cosa o qualche segno che in maniera quasi magica rendeva l’uomo gradito a Dio, qualcosa di efficace per la crescita interiore, cosa assai discutibile e pericolosa, perché conduceva a pensare che ci fossero delle realtà che magicamente rendono migliore l’uomo, quasi escludendolo a livello personale da un impegno e da una crescita interiore.

Mentre la Zarri dice che la santità è il risultato di una ricerca interiore, di un approfondimento della Parola di Dio per scoprirne la verità ed adeguarsi ad essa.

Capire questo vuol dire imboccare, si, una strada diversa da quella fin qui battuta, ma apportatrice di crescita interiore. Questo non è proprio poco.

Una colonna pericolante

La vita de “L’incontro” è, come sempre terribilmente precaria. La sua sopravvivenza mi appare ogni settimana come un autentico miracolo. Da un lato mi riempie l’animo di consolazione che a Mestre sia il periodico più letto, ma dall’altro lato ho lucida coscienza di non essere riuscito a creare un’organizzazione così consistente, capace di parare i guai che si incontrano nella vita. “L’incontro” poggia su una trentina di collaboratori volontari, ognuno dei quali è assolutamente indispensabile; il cedimento anche di uno solo può mettere in pericolo la sopravvivenza del giornale.

Di questa precarietà sono sempre stato cosciente e d’altronde ripeto che mi pare già un miracolo che il periodico abbia continuato ad uscire regolarmente di settimana in settimana.

Ora è in sofferenza la signora Laura, che non solo inserisce nel computer i miei testi, ma pure li riordina da ogni punto di vista e inoltre collabora spesso con dei “pezzi” quanto mai brillanti. Avrebbe bisogno assoluto di una pausa di riposo o perlomeno di un aiuto consistente. Mi sono rivolto al Signore e a chi altrimenti potrei chiedere aiuto? e Gli sto dicendo: «O mi mandi qualcuno oppure debbo chiudere!».

Per ora non mi ha ancora risposto; quindi sto pubblicando ciò che la cara signora Laura ha inserito a suo tempo.

Bertolaso in ospedale

Bertolaso, l’ex capo della protezione civile, m’aveva sempre dato l’impressione di una persona per bene: un volto ordinato e pulito, una personalità franca e onesta. Ero stato infatti ammirato quando ad Haiti, da persona esperta, aveva affermato che l’intervento umanitario degli Stati Uniti era goffo, sproporzionato ed inefficiente. Egli era un professionista esperto e tempestivo negli interventi. Poi la solita marea fangosa aveva travolto la sua persona e la sua opera. Infine era scomparso dalla scena.

Me lo sono ritrovato qualche sera fa alla televisione in un ospedale del Sud Sudan, lo Stato appena nato per un popolo martoriato e distrutto da una lunghissima ed impari guerra. Con sorpresa ho scoperto ch’era medico; avevo sempre supposto che fosse un tecnico, forse un ingegnere.

M’ha fatto enorme piacere vederlo fare “l’apprendista” in quel povero ospedale dell’Africa nera. L’intervistatore, indiscreto come sempre, gli aveva chiesto se fosse andato a fare “il missionario” per espiare i suoi “peccati civili”. S’è difeso con dignità e pacatezza e ha difeso la sua protezione civile. M’ha fatto tanto piacere ritrovare questo personaggio della vita pubblica italiana in un ospedale di un Paese in assoluto tra i più poveri.

Io non sono in grado di dare giudizi su questo uomo pubblico, però posso affermare che m’ha fatto bene ritrovarlo da volontario tra gli ammalati e comunque mi ha edificato la sua testimonianza.

Il punto di ristoro

Quando ero in parrocchia i miei scout organizzavano ogni anno “Il Sapapian”. In quel tempo andavano di moda le marce non competitive. Non c’era ente o parrocchia che non sentisse il bisogno di organizzare la sua marcia.

Sempre in parrocchia un anno organizzammo persino una marcia per i vecchi che partiva dal piazzale della chiesa e terminava nel boschetto di Villa Matter: cinque, seicento metri di strada! Comunque, durante il nostro “Sapapian”, che copriva una decina di chilometri, c’era a metà marcia “il ristoro”, qualcosa da bere e da metter sotto i denti, che rincuorava i marciatori.

Qualche settimana fa, la prima lettura riportava la fuga di Elia nel deserto inseguito dai suoi persecutori. Stanco, scoraggiato, si butta a terra e vuol lasciarsi morire, sennonché l’angelo lo desta e gli dice: «mangia questo pane e bevi dall’orcio». Elia, rinfrancato, riprende il cammino.

Ogni domenica, quando celebro la mia Eucaristia tra i cipressi del cimitero e vedo la chiesa gremita di volti cari, penso sempre alla stanchezza del vivere, alle prove amare e ai tanti problemi e sogno ardentemente che il “Pane dell’altare” rinfranchi, dia vigore per continuare il cammino.

La messa è “il punto di ristoro” per i cristiani, oppure si riduce ad un perditempo noioso ed inutile. Quanto spero che la Parola a cui dà voce appassionata, i canti corali, le melodie del violino, i volti cari dei fratelli e la fede comune costituiscano un “ristoro” che dia forza per i prossimi sette giorni.

Corsa assurda e disperata

Quest’anno mi è capitato di leggere il brano di san Giovanni proprio a ridosso di ferragosto, brano in cui Gesù diceva ai suoi conterranei, dopo che li aveva appena sfamati, di avere una proposta che rispondeva al loro bisogno di vivere una vita positiva e significante. Gesù si esprime con un linguaggio a noi un po’ ostico e difficilmente comprensibile: «Io posso darvi un pane che chi ne mangerà arriverà alla vita eterna».

La proposta di Gesù offre all’uomo la possibilità di cogliere la vita come un bel dono e, nello stesso tempo, assicura che essa offre “la Terra Promessa”. I conterranei di Cristo non si fidano, pretenderebbero un qualche segno magico e perciò continuano a vivere una vita insulsa e a camminare verso il buio senza aurora.

M’è venuto fin troppo facile fare il paragone col nostro tempo; la gente rimane sorda, indifferente e spesso irridente al discorso di Gesù per darsi ad una corsa pazza ed assurda verso le ferie, pensando di trovare un nonsoché di diverso e di migliore a qualche centinaio di chilometri di distanza dalla propria dimora.

Raccontai di un documentario televisivo che narrava l’avventura di una popolazione di ratti dell’Antartide che, ad un certo momento, si mettono a correre pazzamente verso il mare per poi affogare tutti tra i suoi flutti. La gente del nostro tempo volta le spalle alla religione per intraprendere una corsa pazza ed assurda verso la morte. Il nichilismo imperante riduce la vita ad “un nervo nudo che si contorce talora per il dolore e talaltra per il piacere”, come afferma Sartre, il filosofo dell’assurdo.

Avrei voluto intonare il canto dolce e rasserenante “Tu sei il mio pastore che mi guida verso pascoli erbosi” per esprimere riconoscenza a Cristo per il dono del suo messaggio.