Un cittadino benemerito

Io non ho mai saputo che in via Zanella n°6 vivesse, fino ad un paio di anni fa, un agente di finanza in pensione. Ma un bel giorno un amico di questo concittadino, radioamatore come lui, mi telefonò raccontandomi che questo suo amico gli aveva confidato di voler lasciare la sua casa in eredità al Centro don Vecchi.

La cosa era vera, infatti un paio di mesi dopo la morte, avvenuta a Tolmezzo, suo paese natio, il notaio del luogo mi comunicò che la Fondazione aveva ricevuto in eredità dal defunto Enrico dei Rossi, la sua casa in via Zanella 6 a Mestre.

La pratica seguì il suo iter burocratico, tortuoso come sempre, comunque all’inizio di quest’anno siamo entrati in possesso della villetta. “Villetta” è forse un termine un po’ esagerato, perché chiamare con questo nome vezzoso che ti fa pensare ad un edificio di pregio con giardino, è certamente esagerato per questa casetta, un modesto fabbricato in malarnese, bisognoso di un restauro radicale; pur tuttavia la vicinanza al centro, l’entrata unica, l’ambiente medio-borghese, l’hanno reso appetibile fin da subito.

Abbiamo incaricato un’agenzia che ha valutato l’edificio in 170.000 euro, importo a parer mio un po’ esagerato sia per la condizione dello stabile, ma soprattutto per la crisi attuale dell’edilizia.

Comunque abbiamo concluso il contratto per 124.000 euro – contento l’acquirente e più contenti noi, che disponiamo così di denaro sonante per il Centro don Vecchi 5 per anziani in perdita di autonomia.

Ho fatto un po’ di conti: tenendo conto che il “don Vecchi 5” verrà a costare quattro milioni, ognuno dei 60 appartamenti costerà 50.000 euro. Col suo testamento il concittadino Enrico dei Rossi metterà quindi a disposizione di anziani poveri e in difficoltà, a rotazione, quasi due alloggi e mezzo, in una struttura con servizi e spazi comuni, per almeno cent’anni.

Notizie come queste dovrebbero occupare le prime pagine dei nostri giornali, al posto di quel ciarpame e quella spazzatura di cui sono pieni!

Sommersi e salvati

Tra i fedeli con i quali prego ogni domenica, c’è un magistrato che mi onora della sua amicizia e che spesso mi dona un film, un CD di musica sinfonica e, più spesso, qualche volume. Questo mio caro amico ha fiuto nello scegliere le sue letture e si rende pure conto di quello che mi interessa.

L’ultimo volume donatomi è “Sommersi e salvati” di Primo Levi, uno dei pochi ebrei che fisicamente è uscito dal lager di Auschwitz, ma la cui tragica esperienza non gli risparmiò la vita; infatti Levi è morto suicida sotto il peso insopportabile di questa sua tragica esperienza.

Di Primo Levi avevo letto, in proprio, “Se questo è un uomo!”, una lettura che mi ha segnato per la vita, facendomi scoprire gli abissi dell'”homo, homini lupus”, l’uomo capace di sbranare l’altro uomo. Il volume mi portò davanti agli occhi, alla mente e al cuore, la brutalità di certi elementi del popolo tedesco traviati da un uomo pazzo e sanguinario. Poi lo stesso magistrato mi regalò “La tregua”, in cui Levi narra del suo ritorno fortunoso tra la ragnatela di una burocrazia insensata ed assurda.

Infine mi ha regalato quest’ultimo, “Sommersi e salvati”, volume in cui Levi si lascia andare solo marginalmente al racconto, mentre fa un’analisi lucida e spietata dei comportamenti umani. In questo volume veramente sublime questo ebreo torinese mostra una intelligenza, un intuito ed una capacità di analisi insuperabili.

Ho letto il libro d’un fiato, ma dovrei rileggerlo mille volte per recuperarne tutta la sapienza.

San Paolo fu rapito al terzo cielo e quando mise i piedi per terra disse: «Ho visto cose che occhio umano non ha mai visto e sentito cose che orecchio umano non ha mai sentito». A me è capitata la stessa cosa a proposito del negativo dell’umanità. Di questa lettura dovrei dire mille cose; non ne dico alcuna perché mi è pressoché impossibile e perché spero che ai miei amici venga voglia di leggerlo. Voglio solamente confidarvi la conclusione, a livello emotivo e razionale, a cui la lettura del volume mi ha fatto giungere: “Hitler è stato una bestia feroce impazzita, ma i suoi seguaci, nella loro globalità, non furono da meno. E oggi i tedeschi della Merkel purtroppo fanno gli arroganti per la loro forza economica. Essi sono i figli di chi si è prestato ad eliminare milioni di ebrei, minorati fisici, zingari, dissidenti politici e nemici della mania della superiorità.

Un Papa mancato ed un cristiano realizzato

Proprio un paio di giorni fa ho scritto della mia profonda ammirazione per il cardinal Martini che “da ricco che era s’è fatto povero”. E confessavo che l’odierna sua “povertà” mi convinceva molto di più di quando si presentava in tutta la sua imponenza di Cardinale di Santa Romana Chiesa e di successore di sant’Ambrogio, l’arcivescovo della diocesi più grande e importante d’Italia.

Non ho ancora finito di leggere il suo ultimo volume, scritto mentre il Parkinson gli stava rubando la parola e la vita. Ho udito però alla televisione la morte di questo vecchio vescovo che ha continuato a lavorare fino all’ultimo e ho ripreso in mano il volume “Qualcosa in cui credere” cercando la data in cui fu scritto. Non l’ho trovata, comunque non credo che di Martini sia uscito nulla di più recente.

Ho riletto con tenerezza e commozione la frase scritta in copertina, in cui egli denuncia non solamente la sua fragilità fisica, ma pure la sua fragilità spirituale. Al grande cardinale sembrava che venissero meno le certezze proclamate con enfasi dalla cattedra prestigiosa di Sant’Ambrogio, per vestirsi dei dubbi, delle perplessità e della fragilità spirituale degli uomini del nostro tempo. La sua ricerca dimessa è la confessione di cercare di trovare un terreno ancora solido su cui mettere i piedi della sua vita.

Questo cardinale che ha messo nell’armadio la porpora per vestirsi della veste povera della fede del cristiano di oggi, lo sento vero, lo sento un povero come me, che offre e chiede a sua volta il braccio per non cadere e per continuare il cammino fino alla fine.

La stampa s’è buttata a capofitto e per qualche giorno guazzerà dentro la vita e la testimonianza di questo uomo di Dio. Ho letto che Martini è stato perfino “un Papa mancato”. Di queste cose non me ne intendo e non mi interessano, però posso dire che per me è stato un cristiano felicemente incontrato.

Il diritto alle vacanze e il dovere della carità

Ricordo che quando ero assistente alla San Vincenzo sono arrivato al limite della rottura con i seppur bravi volontari. Per quanto tentassi di ripetere che i poveri d’estate han più bisogno di sempre, non ci fu verso che riuscissi a far desistere qualcuno dall’osservare “il comandamento delle ferie”.

Una trentina di anni fa arrivai alla minaccia: «Se voi continuate a voler chiudere la mensa dei poveri ad agosto, io chiamo le suore della città a mantenerla aperta». Fu un fiasco, perché non ci fu suora che avesse risposto al mio appello. Il risultato massimo che riuscii a raggiungere fu quello di ridurre la chiusura a venti giorni piuttosto che tutto il sacro mese di agosto.

Quest’anno non è andata meglio degli altri. Hanno guadagnato la medaglia d’oro solamente la “Bottega solidale” e il “Chiosco di frutta e verdura del “don Vecchi”, mentre per il resto il KO è stato più o meno vistoso.

Comunque sempre KO è stato: per il Ristoro, la mensa della San Vincenzo, per la mensa dei Padri Cappuccini di via Olivi, per il Banco Alimentare di Carpenedo Solidale. Ancor più grave la sconfitta della mensa dei Somaschi di Altobello, la cui chiusura è arrivata al record di un mese e mezzo.

Proprio questa mattina ho letto nel breviario l’omelia di san Giovanni Crisostomo, il quale, ancor millesettecento-ottocento anni fa ammoniva i cristiani che era illusorio spender denaro per il corpo di Cristo che è in chiesa, mentre si trascurava quello che sta in mezzo a noi nelle vesti del povero.

Anche la Chiesa del nostro tempo ha tanta strada da fare per mettere in pratica l’insegnamento di Gesù. Io non ho l’autorevolezza del Crisostomo, comunque sento il dovere di dare questa deludente notizia.

Eutanasia e accanimento burocratico

Il problema dell’eutanasia, la scelta di suicidarsi in maniera indolore e con l’assistenza medica in una struttura ospedaliera, è ricorrente presso l’opinione pubblica del nostro Paese.

Ben s’intende i radicali sono, come sempre, in prima fila nel richiedere che anche in Italia, come in Svizzera o in Olanda, si legalizzi questa fine della vita, ritenendo che il cittadino sia l’arbitro assoluto della propria esistenza. Si toglie quindi a Dio il compito di stabilire l’inizio e la fine della vita, per affidarlo a qualche mestierante senza scrupoli della medicina o della chimica.

Questo problema ha toccato il culmine della notorietà, un paio di anni fa, con il caso Englaro e qualche settimana fa è stato rintuzzato in occasione della morte del cardinale Martini il quale ha rifiutato l’accanimento terapeutico, che in verità tutt’altra cosa dall’eutanasia.

Per una strana concomitanza di idee mi è venuto un confronto con un’altra forma di accanimento per il fatto che da decenni mi capita di essere impelagato in pratiche infinite per ottenere dal Comune e da enti similari i permessi per aiutare il prossimo.

I burocrati di questi enti pare che invece di aiutare i volonterosi che hanno una sensibilità sociale, abbiano un gusto perverso per complicare e per rendere più difficile l’espletamento di pratiche spesso assurde. Si preferisce che la gente viva e muoia nella melma piuttosto che facilitare chi si impegna per aiutare i poveri.

Le pratiche sono spesso stupide, assurde, formali, incomprensibili: il tutto per incensare un'”idealetto” chiamato regolamento o legge, dimenticandosi che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa.

“L’accanimento burocratico” è molto peggiore di quello terapeutico, fa diventare penosa ed amara l’esistenza e porta all’atrofia e alla morte della solidarietà. A questo masochismo assurdo s’aggiunge spessissimo la faziosità e la partigianeria.

Qualche giorno fa ho avuto modo di visitare una struttura comunale per anziani autosufficienti, una struttura costosissima la cui retta si avvicina ai duemila euro. Ebbene, mi è sembrata quanto di peggio si possa immaginare se confrontata con uno dei Centri don Vecchi: equivale alla differenza fra una stamberga e una reggia. Eppure la burocrazia comunale invece di bonificare le sue strutture se la pigliano con quelle del privato sociale che sono infinitamente più belle e nelle quali si paga infinitamente meno.

Il pericolo dell’Isolotto

Mi pare che l’anno scorso sia morto don Mazzi, il prete fioretino che ha dato vita alla “parrocchia” dell’Isolotto.

Don Mazzi fu un prete non privo di intelligenza ed anche di zelo il quale, ai tempi del Concilio Vaticano Secondo, fece un miniscisma a Firenze.

Allontanato dalla parrocchia per le sue idee eccessivamente progressiste, riunì attorno a sé un piccolo gruppo di fedeli con i quali celebrava all’aperto in non so quale parte della città.

Come sempre chi sbatte la porta della “Casa paterna” si riduce in miseria. Così succede per le innovazioni che reggono e che devono essere portate avanti con coraggio, umiltà e pazienza sempre all’interno della comunità; chi rompe si riduce a diventare un transfuga con una sua piccola banda di sbandati.

E’ capitato così anche per i preti riformatori del ’68; si sono volatilizzati e la comunità ha continuato il suo cammino più pigra ed indolente di prima, da un lato perché la ribellione crea anticorpi di autoconservazione e dall’altro perché, essendo la stessa privata di elementi vivaci, intelligenti, assetati di verità e futuro, diventa più tarda, chiusa e meno vivace.

La repressione però degli elementi che mettono in discussione l’apparato, che aprono una dialettica costruttiva con superiori e colleghi e soprattutto tentano costantemente di coniugare la fede e soprattutto la religiosità con i tempi nuovi, è sempre un cattivo agire ed una perdita in assoluto.

Nella Chiesa attuale i veri profeti in questi ultimi tempi sono sempre rappresentati dai “dissidenti per amore” – vedasi don Mazzolari, don Milani, don Benzi e, ultimo della serie, il cardinale Martini.

Guai però costruire monumenti a questi profeti scomodi solo dopo la morte, occorre invece far circolare le loro idee e innestarle nel tessuto reale della Chiesa perché diventino sale e lievito che tormentino ma che diano vita.

E’ un grave errore ritirarsi nell'”isolotto”, ma è altrettanto grave cacciare questa gente che è scomoda e può avere un certo grado di irrequietezza ma che sempre palpita di vita. Il privarsi di loro equivale a privarsi dell’animo e tenersi un corpo tranquillo ma senza vita.

La fede occulta

Il Gazzettino è ritornato più di una volta a parlare della religiosità di quel Nordest a cui appartiene anche Mestre. Normalmente queste analisi si rifanno ad inchieste commissionate ad istituti specializzati. Credo che per i cristiani e soprattutto per preti e operatori pastorali, sia quanto mai importante tastare il polso della situazione per fare progetti, piani di lavoro e scelte coerenti. Normalmente questi sondaggi dell’opinione pubblica riguardano il territorio del Triveneto, però noi della diocesi di Venezia disponiamo dei risultati di una consultazione specifica svolta nel territorio della Chiesa di San Marco, non fatta per campione ma risultante dalla consultazione di tutti coloro che erano oggetto dell’indagine. Mi riferisco al sondaggio promosso una decina di anni fa dal patriarca Scola prima di iniziare la visita pastorale. E’ risultato che i partecipanti al precetto festivo, nella diocesi di Venezia, non raggiungono il venti per cento. Questa è la media ma ci sono delle parrocchie in cui non si supera il dieci per cento.

Il processo di scristianizzazione è evidente e comincia sempre con l’abbandono della pratica religiosa. Eppure sono convinto che per fortuna la fede, magari in maniera occulta, ma è ancora presente. Si tratta quindi di ravvivare il fuoco sotto la cenere grigia ed inerte.

Io premetto sempre un colloquio con i famigliari del “caro estinto”. Spesso mi si dice che egli era credente ma non praticante. Meno frequentemente, magari con qualche difficoltà, mi si dice che aveva un’etica, ma non era credente. In questo caso io mi faccio forte del fatto che nel battesimo il Signore l’ha adottato come figlio. Quindi, partendo dalla convinzione che se anche uno crede di non amare più Dio, Egli comunque continua ad amare i suoi figli di adozione, offro al Signore il sacrificio di Gesù e Gli chiedo di accoglierlo comunque in Paradiso perché, magari nelle forme più inusitate, sostanzialmente s’è rifatto a Lui nella sua condotta.

Pure in questi casi vedo che la gente partecipa, ascolta, prega e perfino, talvolta, si accosta all’Eucarestia. Questo mi dà modo di accorgermi che la fede, magari in maniera occulta, c’è ancora tra la nostra gente. Si tratta quindi di riattizzarla con pazienza e buona volontà.

I miracoli de “L’incontro”

Tantissime volte, a motivo dei costi esorbitanti, dell’impegno gravoso a livello personale e del sacrificio che “impongo” ai miei collaboratori, sarei tentato di chiudere “L’incontro”. Ad 84 anni mi sembrerebbe legittimo sperare che la gente più giovane e più preparata di me dia voce alla coscienza critica dei concittadini e soprattutto dei cattolici mestrini e ponga alla loro attenzione problemi gravi ed impellenti della solidarietà.

“L’incontro” però non adempie solamente a questo compito importante, ma riesce ancora a proporre nuove iniziative, nuove strutture e servizi ed inoltre riesce a stimolare la città a farsi carico dei problemi dei poveri ed a recuperare quei mezzi finanziari necessari a dar volto a servizi e strutture solidali.

Dobbiamo di certo a “L’incontro” le numerose eredità che finora ci sono state destinate e le centinaia di migliaia di euro di beneficenza che hanno reso possibile la costruzione dei 315 alloggi per anziani poveri.

Se non ci fosse stato “L’incontro” a sensibilizzare i concittadini, chi mai sarebbe stato capace di reclutare le centinaia di volontari dei quali dispone “il polo solidale” del don Vecchi e a portare a conoscenza dell’opinione pubblica quel polo solidale a cui ricorrono almeno trenta-quarantamila concittadini in difficoltà?

Vorrei oggi far conoscere uno degli innumerevoli risultati che questa rivista, modesta finché si vuole ma cercata e letta a Mestre, ci ha offerto in questi giorni. Un’azienda ci ha offerto un camion intero di oggetti e decorazioni per Natale. Si trattava di trovare un negozio che a titolo gratuito ci fosse messo a disposizione per organizzare un mercatino natalizio a favore del don Vecchi degli Arzeroni. Neppure due giorni dopo l’uscita del periodico ci è stato offerto un negozio di 150 metri quadri alla rotonda di viale Garibaldi.

Abbiamo trovato i volontari per allestire e gestire il negozio nei mesi di novembre e dicembre. Una persona si è offerta di ottenerci tutti i permessi necessari e c’è perfino un commerciante disposto ad acquistare una parte della merce.

L’incontro fa questo ed altro, non è un rotocalco a colori, però riesce a far miracoli pure in questo nostro tempo così scettico ed egoista.

Un ceto sempre più deludente

Fino a pochi giorni fa il presidente Monti ha sempre detto che come Cincinnato se ne sarebbe tornato a fare il suo mestiere, cioè il presidente della Bocconi, la più prestigiosa università italiana, una volta scaduto il suo mandato. A me Monti piace tanto anche per questo aspetto: s’è messo al servizio del Paese, ha fatto il lavoro meno ambìto e più amaro, che è quello di imporre il rigore per “raddrizzare la barca” per poi tornarsene alla professione che ha scelto e che sa far molto bene.

Mi è capitato di incontrare, qualche tempo fa, una studentessa di quella università e da lei ho appreso quanto sia stimato ed amato dai suoi allievi. E come non si potrebbe amare una persona seria, onesta, sobria e pulita che parla chiaro e non inganna la sua gente? Tutti, fuorché i politicanti avvertono il bisogno di avere come governanti persone oneste, coerenti, che servono e non si servono della collettività.

Ora però che il ceto politico, invece di rinnovarsi, si sta ulteriormente impelagando in diatribe, in rivalità, in massimalismi ed in contese infinite ed inconcludenti, capiamo che in un paio di settimane i vecchi politici interessati, rissosi e millantatori di capacità che hanno abbondantemente dimostrato di non avere, sono desiderosi e pronti a distruggere quanto Monti e la sua squadra sono riusciti a fare in così poco tempo. Nonostante questo, pare che per fortuna Monti si sia mosso a pietà dei suoi concittadini e cominci a prospettarsi la disponibilità a continuare a portare la croce per ancora un po’ di strada.

Prevedo però, con infinita amarezza, che i vari Bersani, Vendola, Berlusconi, Di Pietro da un lato e la pasionaria della CIGL Camusso dall’altro, non accetteranno questa splendida opportunità per non deludere le loro infinite clientele che a decine di migliaia vogliono continuare a vivere in maniera parassitaria sulla pelle degli italiani.

Solo un miracolo ha portato Monti al governo e di miracolo ce ne vorrà un secondo, più grosso, per permettergli di accompagnare il Paese per un altro tratto di strada e portarlo al sicuro. Spero e prego perché anche questo possa avvenire nonostante tutto.

Talvolta non basta il buon cuore

Quando mi imbatto in un problema, esso mi accompagna per lungo tempo perché la soluzione risulta sempre difficile. Spesso un affanno lo supero quando ne incontro uno di nuovo e di più urgente e di più grosso.

Ritorno quindi su un tormentone a cui ho accennato ieri, ossia l’urgente e grave necessità che nella nostra diocesi, o almeno nella nostra Mestre, venga creato un centro direzionale ed operativo che coordini i servizi caritativi esistenti, indirizzi a quello rispondente al bisogno del richiedente, accompagnandolo con una presentazione e soprattutto faccia opera di monitoraggio sulla situazione esistente segnalando alla città e ai suoi responsabili le carenze registrate perché vi si possa provvedere.

Oggi ritengo doveroso ritornare sull’argomento con un caso concreto. Da un paio di mesi peregrina per la città una famigliola rumena composta dal marito – credo poco più che trentenne – da un bimbo di un paio di anni e dalla moglie incinta che, a giorni avrà un secondo figlio. Alle spalle c’è uno sfratto per morosità, una incoscienza radicale unita a nessuna volontà di lavorare da parte del marito ed una completa e passiva incoscienza da parte della giovane sposa.

Da alcuni mesi questa famiglia sopravvive a Mestre chiedendo una casa e un lavoro ai passanti e ai preti. Una vita certamente molto grama; però essi non riusciranno mai a uscirne da soli e in città per loro non c’è una facile soluzione. Per caso li ho incontrati per strada indicando loro un possibile tentativo, ma molto probabilmente hanno trovato più conveniente continuare a vivere di espedienti. Finché si sono imbattuti in un giovane parroco della periferia, un prete intelligente, ma soprattutto generoso che momentaneamente, non sapendo da che parte voltarsi, ha offerto loro il suo garage. Fra qualche giorno sulla porta del garage della parrocchia apparirà un fiocco per “il lieto evento”.

A quest’uomo avevo suggerito di rivolgersi alla “Casa famiglia” della Giudecca che avrebbe ospitato sia la sposa che il bambino e quello nascente, oppure al “Movimento per la vita” che avrebbe aiutato questa famiglia di disperati, ma lui non ne fece nulla del mio consiglio.

Chi mai, incontrando prima o poi questa gente, potrà trovare una soluzione e chi potrà stare con l’animo in pace dopo aver incontrato un dramma del genere?

Solamente sapendo che la città e la chiesa sono così ben organizzate da poter offrire sempre una soluzione, magari provvisoria, ma sempre pronta ed esaustiva, un cittadino o un cristiano che poi contribuisca al suo mantenimento, può stare con la coscienza in pace, qualora incontrando questa famiglia le possa indicare con certezza chi è attrezzato ad aiutarla, senza che questa gente continui a pietire o ad approfittarsi del prossimo.

P.S. Al momento di andare in macchina abbiamo appreso che questa famiglia è stata aiutata a ritornare in Romania.

Un centro direzionale

Per una sensibilità, molto probabilmente ricevuta da madre natura, o dal fatto di essere nato in una famiglia di modestissime condizioni economiche, o forse per aver letto il Vangelo da un’angolatura particolare, fin da sempre sono sensibile alle condizioni dei poveri. Le situazioni di disagio incontrate lungo la vita, mi hanno sempre coinvolto e, per l’educazione ricevuta, ho sempre guardato con sospetto le grandi proclamazioni di principio privilegiando l’impegno concreto, anche se mi rendevo conto che raramente fosse risolutivo.

Quel poco che sono riuscito a realizzare è sempre nato da queste convinzioni e da questa filosofia di vita. Spesso sono stato incompreso, altrettanto spesso sono stato criticato dai vendivento del momento o da quanti predicano la carità preoccupati però d’avere la pancia piena e che le attese dei poveri non turbino la loro vita piccolo borghese.

Per grazia di Dio ho sempre tirato dritto ed ora, che sono giunto al tramonto dei miei giorni, non ho nessunissima ragione di cambiare. Mi rendo conto però sempre più che la mia Chiesa, ossia la diocesi di Venezia, avrebbe assoluto ed inderogabile bisogno di avere una cabina di regia.

Nella comunità cristiana di Mestre e di Venezia fortunatamente e per grazia di Dio vi sono numerose e belle iniziative di carattere solidale, parecchi servizi funzionanti ed un esercito di volontari che in essi sono impegnati, però sono tutte iniziative acefale, raramente intercomunicanti e per nulla messe in rete. Ritengo che la creazione di un “cervellone” – ed ora ci sono mezzi tecnici a disposizione per approntarlo – con qualche operatore a tempo pieno, magari assunto regolarmente e pagato dalla comunità, potrebbe mettere in rete e sviluppare sinergie quanto mai efficaci.

Io ho tentato di creare un sito mettendoci dentro le soluzioni per le richieste più diversificate, chiamandolo con la denominazione “Mestre solidale“, però da un lato non sono riuscito ad aggiornarlo e propagandarlo. Soluzione simile l’ha tentata monsignor Bonini del Duomo e, più di una volta, la Caritas diocesana, però questi tentativi restano strumenti freddi e inerti. Mentre credo che serva, si, uno strumento aggiornato al massimo, che fotografi le opportunità e i servizi disponibili per ogni singola situazione e sollevare il disagio degli operatori che suggeriscono ed accompagnano il povero che chiede aiuto.

I codini

Un tempo le persone un po’ effeminate ed untuose che fanno la corte agli uomini che contano, quelli che si lasciano andare a forme di servilismo esagerato, erano denominate “codini”, lacchè, portaborse. Ora pare che la società accetti più pacificamente queste forme di adulazione più o meno interessate che un tempo erano proprie dei servi, dei segretari, dei barbieri e categorie del genere.

Attualmente mi irritano certi rimasugli di questi atteggiamenti servili che mi pare di riscontrare negli addetti alle imprese di pompe funebri nei riguardi dei famigliari “del caro estinto”. Questo fenomeno, ahimè, lo riscontro ancora ben presente nell’ambiente ecclesiastico nei riguardi della gerarchia, un atteggiamento adulatorio e servile verso l’autorità, per possibili vantaggi a livello di carriera che si nasconde dietro la virtù dell’obbedienza.

Una lunga tradizione ed educazione mistica, favorita certamente da chi detiene il potere, per motivi perfino troppo facili da comprendere, ossia per facilitare il governo, è venuta a esaltare la “virtù della santa obbedienza” inducendo praticamente gli inferiori al “signorsì” del mondo militare.

Ritengo che l’obbedienza sia tutt’altra cosa che l’esporre con rispetto le proprie opinioni che talvolta possono essere diverse e perfino opposte a quelle del superiore. Io non arrivo a parlare, come qualcuno ha teorizzato, della “virtù della santa disobbedienza”, però ritengo che il rapporto debba essere sempre franco, onesto, virile, perché solamente così si dimostra rispetto per l’autorità e soltanto così si può trovare il coraggio di obbedire anche su qualcosa che non si ritiene giusto ed opportuno.

Purtroppo talvolta è più comodo e più facile offrire un consenso formale; questo è un doppio male perché non si è onesti, non si ha vero rispetto per l’autorità e soprattutto si abitua il superiore a non confrontarsi e ad accettare opinioni diverse dalla sua.

Rosmini ha parlato delle cinque piaghe della Chiesa, non so se il servilismo sia una di queste, comunque di certo è uno dei suoi difetti.

Il mio piccolo mondo antico

Ho ancora intelligenza per capire che il mio è un mondo crepuscolare, intinto di nostalgia per delle realtà umane e spirituali che ho intensamente vissuto, ma che ormai sono al margine della vita. Sono perfettamente cosciente che la società oggi corre su binari nuovi e diversi, che sono percorsi con disinvoltura dalle nuove generazioni, anche se mi capita molto di frequente di domandarmi come fanno gli uomini del nostro tempo, e soprattutto le nuove generazioni, a godere di questo nuovo modo di vivere che a me pare tanto arido, desolante e decisamente brutto.

Quando mi rifaccio alla razionalità, che fortunatamente non ho ancora totalmente perduto, concludo che non è il mondo che è diventato insipido, superficiale e assurdo, ma sono i miei occhi stanchi che non ne colgono la validità. Non è che il mondo sia più brutto, ma la mia vecchiaia, che non è più capace di leggere con attenzione e stupore il libro della vita.

Ieri sera, a “Rai storia”, il canale televisivo che ho scoperto con l’avvento del digitale terrestre, ho seguito un programma su Beniamino Gigli. Minoli, il conduttore onnipresente, raccontava la vita del grande tenore presentando una serie di spezzoni di musica lirica e di canti popolari di questo tenore dalla voce calda e melodiosa.

A dire il vero avvertivo nella figura ed anche nella voce, un qualcosa di vecchio e di passato che invece non ho mai avvertito in Pavarotti, che pur cantava le stesse arie, ma quando confronto parole e melodia di Gigli con quelle di Vasco Rossi o Jovanotti o qualcuno di peggio ancora, non posso non dire che i cantanti di oggi, anche i migliori, sono l’espressione di un mondo sconclusionato senza sentimento, senza poesia e senza ideali.

Dall’altro lato sono assolutamente certo che se parlassi di questi confronti alle ragazzine che sono andate al Lido per “adorare” i nuovi divi, mi guarderebbero come chi indossa vesti ammuffite, sgualcite e polverose trovate in soffitta.

Così va la vita, nonostante i miei criteri che ritengo seri e oggettivi!

La tariffa

Un mio amico, che conosce le mie idee circa il ministero sacerdotale e il rapporto del prete con la sua gente, poco tempo fa mi ha portato un trafiletto. Lo pubblico per intero, avendo però cancellato il nome del sacerdote, della parrocchia e del luogo dove sarebbe avvenuto il fatto.

Credo che la notizia provenga da certa stampa che è avvezza a raccogliere spazzatura anticlericale e antireligiosa e perciò bisogna inquadrarla in questo contesto.

Dalle nostre parti sono convinto che le cose non stanno così, però credo che anche nel nostro ambiente avvenga qualche eccezione alla norma di un comportamento più saggio. Soprattutto ho la scusante che qualche religioso (prete o frate, poco importa) applichi invece in maniera pedissequa, senza un po’ di tatto e di sensibilità, certe norme della curia che hanno pur una qualche giustificazione, ma appaiono di cattivo gusto e quanto mai venali, qualora non vengano accompagnate da qualche parola che inquadri la questione e soprattutto non tenga conto della sensibilità dei singoli fedeli e non sia sempre disposto alla duttilità e alla disponibilità a fare tutte le possibili eccezioni. Eccovi il trafiletto.

Il prete a tariffario
(lettera firmata)

Nei giorni in cui si svolgevano i solenni funerali del cardinale Carlo Maria Martini, ricordato da tutti, laici e credenti, per la sua visione “moderna” della Chiesa, si celebrava il trigesimo della morte di mia madre, officiato da don Peppino. Ad agosto non è stato possibile perché era in ferie e, si sa, le messe per i morti possono aspettare. Ed eccolo sull’altare abbronzato, scocciato, annoiato per quel rito che deve ripetere ai parenti della defunta, una ventina di minuti tirati al massimo, non di più. I parenti si avvicinano per le condoglianze, e nella calca chiedo a mia sorella cosa le ha chiesto don Peppino per il disturbo. Indovinate? Cento euro. Non ha detto “fate un’offerta” qualcosa a piacere, ma più prosaicamente cento euro. Come se ci fosse un prezziario per le funzioni.

Attualmente i sacerdoti percepiscono uno stipendio che permette loro, senza fare i salti mortali, di vivere decorosamente nella sobrietà. Per noi, preti in pensione, le cose non vanno diversamente. A me pare quindi che ci siano delle soluzioni che permettano alla religione e al sacerdote di star ben al di sopra di qualsiasi rapporto economico e qualsiasi remunerazione specifica per la preghiera.
Pur essendo convinto che è comprensibile che il fedele, in determinate occasioni, accompagni la richiesta di una intercessione con Dio, con una offerta per i poveri e per i bisogni essenziali della comunità.

Quando la gente, per una brutta abitudine imparata dalla vita sociale, ma anche dai preti, domanda: «Quant’è, che cosa le debbo?» mi pare che il rispondere: «Niente, ma comunque, se crede di fare un’offerta la destiniamo ai poveri» (e poi farlo, si capisce!), non dico sia più elegante, perché qui non si deve trattare di furbizia o di eleganza, ma di stabilire un rapporto umano e spirituale di più alto livello.

Questo comportamento credo che sia a tutto vantaggio della fede e della stima verso il sacerdote.

Il monaco e la tonaca

Con i tanti problemi che ci sono nella vita, quello della divisa non è certamente uno dei più importanti, però credo che dobbiamo prestare una qualche attenzione anche a questo.

La divisa normalmente serve per cogliere, fin da subito, la funzione che una persona esercita all’interno della società. Fin qui tutto va bene. Motivo per cui ritengo giusto che poliziotti, soldati, magistrati, ecclesiastici, medici ed altri ancora, indossino degli indumenti il più possibile conformi al corpo sociale di cui fanno parte.

Per uno sportivo le vesti devono essere leggere, funzionali, in maniera che gli arti si muovano con libertà. Per un militare invece, la divisa deve esprimere ordine, severità, deve incutere fin di primo acchito rispetto e soggezione. Più difficile è sempre risultato per i magistrati, i quali, quasi sempre, si rifanno a toghe fuori uso, spesso eccentriche, che credo esprimano il legame col passato e con la tradizione, quindi vesti non legate al tempo.

Per gli ecclesiastici poi la scelta è sempre stata anacronistica ed ancora più difficile. La talare era ingombrante, femminile ed insignificante. Fu scelta dai preti per dimostrare fedeltà al Pontefice e rifiuto dello Stato italiano dopo Porta Pia. Infatti, non appena il Concilio lo permise, fu abbandonata in un battibaleno da quasi tutti e le si preferì il clergiman, più adeguato ai tempi. Volesse poi il Cielo che i preti rimanessero fedeli a questa divisa più sobria e funzionale!

Per le vesti liturgiche poi, credo che il problema sia ben lontano dall’essere risolto. I paramenti dovrebbero di per se stessi dimostrare che chi li porta rappresenta la comunità che si mette a colloquio con Dio. In realtà, spesso, essi sono ampollosi, spagnoleschi, ridondanti, tanto da apparire ad un occhio critico, goffi e fuori dal mondo.

Ci sono stati tanti tentativi di semplificazione che il basso clero ha accolto, mentre l’alto clero si muove ancora nella ridondanza di qualcosa che spesso sembra assurdo e tendente al magico.

C’è, pare, qualche tentativo, però non ho l’impressione che attecchisca. Ho letto su un supplemento de “L’espresso” che il vescovo di Marzara del Vallo (Sicilia), nel suo desiderio di innovazione, ha fatto studiare dalla casa di moda “Armani”, un paramento innovativo e poi si è fatto fotografare come in passerella. Questo mi pare un po’ troppo! Comunque mi piacerebbe vedere il risultato.

Io continuo a sognare una veste di assoluta semplicità, ma contemporaneamente essenziale nella sua dignità.