Svecchiamento sacerdotale

Qualche giorno fa me ne stavo solo soletto nella piccola sagrestia della mia chiesa prefabbricata “Santa Maria della Consolazione” a meditare, quando mi raggiunse un giovane parroco della città che io stimo e ammiro particolarmente per il suo zelo. Molto probabilmente era venuto in cimitero per qualche motivo inerente al suo ministero e aveva avuto la bontà di venire a salutare questo vecchio prete che di buon mattino aspetta e prega per le anime dei morti e dei vivi.

Chiacchierammo, ben s’intende, di cose da preti. Lui era più informato di me sulla vita della Chiesa veneziana anche perché, zelante com’è, frequenta tutti gli incontri tra sacerdoti mentre io, vecchio pensionato, riservo il mio tempo e le mie residue energie più alle cose concrete che a discorsi che temo non siano sempre produttivi.

Questo collega probabilmente aveva il tempo contato, infatti dopo qualche “confidenza sacerdotale” dovette andarsene per occuparsi delle sue cose. Io rimasi in silenzio a pensare e quando penso divago e la mia riflessione imbocca a suo piacimento sentieri imprevedibili e sconosciuti, portandomi a congetture, proposte e soluzioni ipotetiche che non dipendono da me, ma che comunque mi fanno frullare per l’animo progetti che forse abitano nel mio inconscio.

Pensando a questo giovane prete zelante, generoso ed intelligente, arrivai alla conclusione che anche la Chiesa veneziana dovrebbe essere svecchiata con l’immissione, nei ruoli più importanti, di soggetti più giovani e nuovi.

Allora passai in rassegna, nella mia fantasia, i preti di Mestre e fortunatamente m’è parso di scoprirne alcuni di valore, preti che dimostrano sul campo le loro risorse e la loro volontà di servizio. Lontano da me il voler dare suggerimenti per ora ma anche per il futuro, perché sono ben conscio di non avere la competenza né il compito, e meno ancora la “grazia di stato” per far questo. Invece mi limiterò, come mi è più consono e doveroso, a pregare il Signore che illumini il nostro vescovo perché riesca a mettere nei posti giusti i preti giusti, anche se questo gli comporterebbe non avere tra le mani soldatini di piombo obbedienti ed ossequienti.

Il commerciante benefico

La segretaria di un noto commerciante di Mestre mi ha telefonato per informarmi della morte del suo titolare. A pochi minuti di distanza un’agenzia di pompe funebri mi confermò la notizia e mi chiese di fissare giorno e ora per il commiato. Queste tristi notizie sono frequenti per me e per tutti perché nella nostra città ogni giorno se ne vanno, più o meno silenziosamente, una dozzina di concittadini per raggiungere la “casa del Padre”.

La notizia di oggi però ha per me connotati ed impatto un po’ diversi dal solito. Questo commerciante lo conoscevo indirettamente da molti anni perché i miei collaboratori nel settore della carità me lo avevano segnalato per la sua particolare generosità ed anche quando si è ritirato dal commercio aveva talmente insegnato ai suoi dipendenti il valore della solidarietà che chi gli successe nella sua azienda continuò ad essere generoso.

Lo conobbi invece di persona circa un paio di anni fa. Egli infatti mi invitò a casa sua, si informò delle mie attività a favore dei vecchi e dei poveri, mi chiese la ragione sociale della struttura con cui opero e poi si lasciò andare ad un discorso del tutto confidenziale. Mi disse che ormai era vecchio, assai acciaccato e sentiva che la fine doveva essere prossima, così aveva deciso di destinare il suo patrimonio in maniera lucida. Continuò dicendo che ammirava il mio impegno solidale e che aveva pensato di destinare il suo appartamento per le opere in cui sono impegnato, perché questo servizio verso i poveri potesse continuare a svilupparsi. Gli lasciai i dati della Fondazione Carpinetum e uscii dalla sua casa edificato da tanta lucida saggezza e generosità.

Non ci sentimmo mai più, solamente oggi mi giunge la notizia della sua morte pressoché improvvisa. Non so se abbia dato corso ai suoi propositi nei riguardi della Fondazione, so invece che più volte ha beneficato l’Avapo, in cui pure aveva fiducia e di cui ammirava la giovane ed intelligente presidente.

Comunque vadano le cose, la testimonianza discreta ed appartata di questo concittadino generoso è per me motivo di consolazione e di stimolo a ben pensare.

P.S. Ha destinato il suo appartamento alla Fondazione.

La vera crisi è morale

Non c’è italiano che non avverta e non parli della crisi economica; perfino qualcuno ha detto che è la più grave degli ultimi cinquant’anni. Gli analisti affermano che oggi gli italiani si limitano perfino nei consumi alimentari.

Io in verità non sono preoccupato più di tanto, perché registro che lo sperpero era enorme prima ed oggi continua ad essere ancora tale. In ogni caso le chiusure delle piccole e medie imprese, i continui fallimenti, la riduzione di personale anche per le imprese più grandi ed affermate, costituiscono un segno evidente delle gravi difficoltà in cui versa il nostro Paese.

Sono però altrettanto e più convinto che la crisi più grave che mette in ginocchio l’Italia sia quella determinata dagli scandali, dalla perdita di valori, dal malcostume delle classi dirigenti. I politici, a livello nazionale, regionale e comunale, sembrano i professionisti dell’imbroglio, delle ruberie, dell’accaparramento dei posti di prestigio; la magistratura pare quanto mai inefficiente e faziosa. Ogni anno infatti vanno in prescrizione duecentomila cause e gli arretrati sono ormai milioni per inefficienza e lungaggini.

Nel popolo, e soprattutto nelle nuove generazioni, pare che stiano scomparendo sogni e ideali e la volontà di lavorare, mentre la droga, come una peste inesorabile, miete una massa crescente di vittime.

Lo Stato poi è ogni giorno più burocratico, dispendioso e rapinatore del guadagno dei cittadini onesti che ancora sono impegnati per il bene del Paese.

In questi giorni la nostra Fondazione ha subito una “rapina di Stato”, senza che magistratura e carabinieri possano intervenire per evitare “il furto”. Come tutti sanno, abbiamo ottenuto dalla Regione duemilioni ottocentomila euro per i 60 alloggi per anziani poveri in perdita di autonomia, con l’obbligo di restituire questa somma in 25 anni. Ora la Regione, avallata dalle leggi statali, ci ha imposto il pagamento di quasi 130 milioni di vecchie lire per garantirsi che questa somma sia restituita in rate annuali. Fin qui si potrebbe pensare solamente a mancanza di fiducia (e quando mai lo Stato ha avuto fiducia dei suoi concittadini?). Ma tutto sommato, potrebbe essere anche comprensibile, se passati i 25 anni e constatando la regolarità dei rimborsi, si restituisse la somma, ma così non è. Questa somma enorme non verrà comunque mai restituita, perché lo Stato deve racimolare denaro per pagare generali, magistrati e parlamentari.

La “puzza”, una volta ancora, il male viene soprattutto dalla “Testa”!

Il pensiero del cardinal Martini

Del cardinal Martini ho letto parecchie cose, ma confesso che non avevo colto il filo conduttore del suo pensiero, le sue convinzioni profonde le tesi di certo non eterodosse, ma non sempre condivise dalla Chiesa ufficiale. In occasione della sua morte è venuto a galla un mondo sommerso che mi era rimasto sconosciuto e che ho colto con tanta gioia interiore.

La stampa cattolica ha inquadrato questa splendida figura di studioso e di pastore evidenziandone lo stile, le doti, la ricchezza interiore. L’ha fatto con ammirazione ed entusiasmo, cosa che mi ha edificato e reso orgoglioso che pure la Chiesa del nostro tempo continui ad esprimere figure così belle di testimoni e di profeti. Confesso però che il cardinal Martini, visto “da sinistra” mi è piaciuto e mi ha fatto del bene ancor di più.

E’ vero che se da un lato il mondo cattolico ufficiale gli ha creato un bel monumento che ha coperto un po’ tutte le sue divergenze sotto la lapide tombale del bene della Chiesa, quello laico ha accentuato gli aspetti più critici del pensiero e del messaggio del presule ambrosiano. Forse li ha accentuati fin troppo e ha visto solo quelli; ma pur essi c’erano! Ad esempio mi fa bene quella frase con cui Martini dice che la nostra Chiesa è indietro di almeno duecento anni sullo sviluppo del mondo.

Questa critica per me è un dono, è affermazione stimolante per cercare, per buttar ponti, per dialogare con l’uomo di oggi, per guardare avanti. Oppure quest’altra affermazione:

“Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”.

Mi pare sacrosanto questo invito alla libertà della mente che ha fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e ha inquietato ancora oggi il potere ecclesiastico.

Infine scelgo un’altra affermazione che ha sapore di “lievito di sale” di tipo evangelico:

“Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti^ È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II, è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo.

Credo che soltanto accostando i giudizi e le valutazioni di “casa nostra” con quello del “mondo laico” si possa avere una visione equilibrata e reale di questo profeta del nostro tempo. Guai però tacerne per opportunismo o per faziosità una di queste componenti.

La tromba dello Spirito Santo

Da noi le cose son tutte fatte in casa per quanto riguarda il nostro settimanale. Giornalisti, tipografi, impaginatori, correttori di bozze e gestori della distribuzione sono non solamente volontari, ma pure autodidatti. Io, ad esempio, sono il direttore responsabile, ma non me ne sto dietro ad una scrivania a curare la linea editoriale o a scrivere qualche “fondo” ma, al martedì, porto un gran numero di copie nelle chiese del cimitero che sono diventate “le messaggerie” da cui i singoli distributori attingono le copie da portare alle sessanta postazioni di distribuzione. Questo però non basta perché il lunedì e il venerdì pomeriggio porto una macchinata di copie all’Ospedale dell’Angelo.

Questa manovalanza non è però priva di soddisfazioni. Spesso, mentre riempio l’espositore, si avvicina qualcuno che, accortosi che è arrivato il nuovo numero, mi chiede: «Posso prenderlo?» ed io pronto: «Prenda pure, odora ancora d’inchiostro».

Qualche giorno fa un signore che aveva appena ritirato una copia, sorridendo mi disse: «Mia madre, che abita al Cavallino, è una sua fan, perché puntualmente, ogni settimana, legge “L’incontro”. Posso chiamarla al telefono; le farà molto piacere conoscerla di persona!».

L’altro ieri, mentre camminavo lungo il ballatoio, vidi un signore tra i cinquanta e i sessant’anni che leggeva L’incontro. Mentre passavo, alzò gli occhi e, vedendomi, esclamò: «Ecco la tromba dello Spirito Santo!». Evidentemente aveva letto un episodio della vita di don Mazzolari. Quando infatti il cardinal Roncalli salì al soglio pontificio cominciò subito l’opera di riconciliazione con chi aveva sofferto dalla Chiesa e volle così ricevere don Mazzolari, che di carognate ne aveva ricevute non poche dal mondo ecclesiastico, e l’accolse appunto con queste parole: “Ecco la tromba di Dio!”.

Io di certo non sono “la tromba”, troppo onore, ma spero, nell’orchestra ecclesiale, di essere magari solo un piffero o un tamburo, ma di dare anch’io il mio piccolo contributo al messaggio cristiano. La voce della gente mi ripaga a iosa del silenzio, delle critiche e dei rifiuti di preti e frati.

L’uomo, questo sconosciuto

Tanti anni fa mi capitò di leggere un volume di un famoso scienziato, Alexis Carrel, volume che aveva per titolo “L’uomo, questo sconosciuto”. Non ricordo granché del contenuto di questo libro, perché l’ho letto mezzo secolo fa, però m’è rimasta l’idea di fondo che dietro il termine “uomo” ci sono mondi infinitamente diversi e così vale per tutte le parole.

Monsignor Vecchi, quando ci insegnava filosofia, ribadiva con decisione di diffidare dei nominalismi perché spesso inducono a pensare che dietro ad un certo termine ci sia sempre la stessa realtà. Solamente le etichette che sono apposte sui vasi di piselli o di carciofi indicano che ci sono dentro piselli o carciofi, però quando si tratta di un uomo e dei suoi problemi, il termine è generico, indica qualcosa, dietro questa parola ci sono mille mondi diversi.

Qualche tempo fa una giovane signora m’ha chiesto di fare un funerale per il marito che aveva posto fine alla sua vita. Questa realtà si chiama comunemente suicidio.

Ebbi modo però di conoscere, in un lungo colloquio, la storia di questo dramma. Ammalatasi ella di tumore, lo sposo aveva chiesto ardentemente a Dio la guarigione, cosa che è avvenuta. Colpito anch’egli dallo stesso male, che poi si è trascinato dietro per molti anni, ella era convinta che non abbia avuto il coraggio e non abbia ritenuto giusto insistere nuovamente per sé perché aveva, secondo lui, già ottenuto tanto per la moglie.

Sopraffatto dalla sofferenza ed essendogli tolta la speranza da un medico freddo e disumano che gli aveva pronosticato una fine angosciosa, egli non ha retto ed ha chiesto alla medicina di porre fine al suo dramma, e a quello della sua famiglia, in modo indolore. Apparentemente fu un lucido suicidio, in realtà era stato un dramma terribile che l’aveva travolto, non lasciandogli scampo alcuno.

Volete che io non l’abbia a benedire ed affidare alla Paternità di Dio? Il cuore mi assicura che Cristo avrà ripetuto a lui quello che disse a chi era in croce con lui: «Ti assicuro che oggi sarai con me in Paradiso».

Le cresime

Della mia cresima non ho un gran ricordo. Ai tempi della mia infanzia la cresima era temporalmente legata alla prima comunione; normalmente la si faceva la domenica dopo di essa. Penso di aver ricevuto questo sacramento in terza elementare.

Poi invalse nella Chiesa l’usanza di portare la cresima al tempo dell’adolescenza, affermando che essa rappresenta la scelta personale di diventare discepoli di Gesù e confermando così la decisione dei genitori di battezzare i loro neonati.

Il motivo per cui la ricordo bene è dovuto al fatto che quando il parroco mi fece l’esame per l’ammissione – un tempo, intelligentemente si usava così – mi inceppai sul credo, tanto che fui rimandato e dovetti ripetere l’esame una settimana dopo.

Per tornare alla tempistica della cresima a me viene però il sospetto che i parroci responsabili e saggi abbiano tentato in questo modo di approfondire la formazione cristiana dei loro ragazzi, dato che le famiglie ci tenevano che i loro figli passassero questa tappa. Poi si sa che nella maggioranza dei casi lanciavano tacitamente l’ammonimento: “Si salvi chi può!” e ritenevano che tutto sommato avevano fatto il loro dovere e perciò i loro ragazzi potevano assumersi personalmente le loro responsabilità. Io, da parroco, ho adottato questa dottrina e perciò fissavo la cresima al tempo della terza media.

Ora le cose stanno andando diversamente perché la nuova moda ecclesiastica è di fare la cresima prima della comunione. Non ho capito il perché e le motivazioni addotte mi paiono stupide; d’altronde la moda non è preoccupata d’aver supporti razionali.

Ai miei tempi cresimava solamente il Patriarca, mentre in questi ultimi anni questo compito è stato demandato a preti di prestigio, ma di poco spessore pastorale.

Ho letto con molto piacere su un bollettino parrocchiale della nostra città, che il nostro nuovo Patriarca, Moraglia, desidera impartire lui la cresima. Mi pare una scelta saggia ed importante per due motivi. In primo luogo mi piace che il responsabile primo della Chiesa accolga personalmente la richiesta dei giovani della nuova generazione di diventare discepoli di Cristo, poiché questa è una scelta decisiva. Poi perché i fedeli di tutte le parrocchie del patriarcato, almeno una volta l’anno, si possano incontrare col loro Pastore e padre nella fede.

Una volta all’anno è poco, ma sempre meglio che una volta in vita come avveniva in questi ultimi anni.

“I pensieri”

Mia madre era moglie di un modestissimo falegname e madre di noi sette figli. Solamente pensando a questo dato di fatto si può facilmente immaginare quanti problemi e quante preoccupazioni devono aver pesato sulle sue spalle. Mamma poi mi assomigliava: aveva un carattere riservato, introverso e realista e con qualche venatura di pessimismo. Perciò ogni difficoltà – e queste erano infinite – avevano un forte impatto sulla sua sensibilità, per cui era sempre tentata di chiudersi in se stessa e di incupirsi.

Mentre papà era ottimista, minimizzava le difficoltà e sperava sempre al meglio, la mamma non si scoraggiava, affrontava con concretezza e determinazione i problemi, però pagava a caro prezzo tutto questo, tanto che lasciava trasparire le sue preoccupazioni e talora la sua paura di non farcela o che noi figli non avessimo il necessario.

Ricordo che più di una volta le chiesi: «Cos’hai, mamma?». Lei rimaneva un po’ perplessa e mi rispondeva: «Pensieri!». Questa risposta, evidentemente, a me diceva troppo poco e perciò ribattevo: «Ma mamma, cosa sono questi pensieri?». Lei taceva e cercava di darmi una risposta che non mi allarmasse, che non mi facesse soffrire, però faceva fatica a spiegare ad un bambino problemi che io non potevo capire e che forse non era opportuno che io capissi per non rovinare la mia spensieratezza e incoscienza. Allora soggiungeva: «Capirai da grande!».

Mamma è stata una facile profetessa. Ho capito, e da molto, che cosa sono “i pensieri”.Ora che son vecchio i pensieri mi pesano sempre più e avverto che non posso e non devo scaricarli sugli altri. Io non ho bambini attorno di cui sia in qualche modo responsabile, o meglio ho dei “bambini anziani”, che per molti motivi non è giusto caricare di altri pesi oltre quelli che hanno “di suo”.

Spesso qualcuno mi chiede che cos’ho, perché mi vedono così serio. Avrei sempre la tentazione di rispondere come mia madre: “Pensieri”, però non potrei aggiungere “capirai da grande!”, perciò taccio perché sento che sarebbe assurda questa risposta e quasi sempre i pensieri li tengo per me, ma confesso che essi sono molto frequenti e che mi pesano tanto.

“Temi lo Stato anche quando ti fa doni”

Un giorno, scherzando con degli amici, sono arrivato a definirmi come un anarchico individualista; poi, a scanso di equivoci, perché non si pensasse che io sognassi di buttar bombe contro le istituzioni, aggiunsi che però, contemporaneamente, credevo e volevo praticare la non violenza gandhiana.

Traduco in chiaro questi discorsi che sanno di paradosso. Lo Stato, così com’è articolato e come si muove attualmente, mi sta molto, molto stretto. Della destra berlusconiana sposo un pezzettino di dottrina, molto piccolo, ma significativo, che si traduce con lo slogan “Meno Stato e più libertà”. Ho la sensazione che la burocratizzazione delle istituzioni pubbliche sia così legnosa, macchinosa ed opprimente che ti avviluppi in maniera tanto ossessiva, così da scoraggiarti in ogni iniziativa e soffocarti con le sue lungaggini, le sue carte, i suoi regolamenti e i suoi burocrati, talmente stupidi da costringerti ad infiniti adempimenti formali piuttosto che facilitate più limpide iniziative di carattere sociale.

Non dico che mi conforta il fatto che gli imprenditori esteri non investono in Italia a motivo delle lungaggini e del balzelli degli enti pubblici, ma ciò mi riconferma nel rifiuto che provo verso questo Stato burocratico.

Vengo al motivo che giustifica questa premessa. La Regione ci ha concesso un mutuo di due milioni ottocentomila euro per l’esecuzione di una struttura “esperimento pilota” a favore degli anziani in perdita di autonomia, ma per darteli realmente e per assicurarsi che tu li spenda come pattuito, ti costringe ad una fideiussione del costo di cinquanta-sessantamila euro, oltre una marea di carte di tutti i tipi.

Quando l’altra sera al consiglio di amministrazione della Fondazione sono venuto a conoscere questi discorsi, m’è venuta in mente una massima dell’antica Roma: “Timeo danaos et dona ferentes”, temo i greci anche quando mi portano un dono!, tanto erano astuti e interessati. Questa volta vedo nei greci la Regione, però di tutti gli enti pubblici si può dire la stessa cosa.

Confesso con amarezza che lo Stato e i suoi derivati sono per me dei “nemici”.

Le verità sopravvivono

Mi si è incisa nella memoria una frase pronunciata, di fronte al plotone di esecuzione, da un uomo di governo profondamente religioso, durante l’ultima persecuzione avvenuta in Messico: «Voi potete spegnere la mia vita ma non il mio pensiero».

Ultimamente mi sono tornate in mente le parole di questo martire cristiano in occasione della morte e dei funerali del cardinale Martini. Una folla di popolo ha partecipato alle esequie del presule ambrosiano, la stampa di tutti gli indirizzi ha incorniciato la sua testimonianza e il suo pensiero, gli uomini di Chiesa hanno tessuto grandi elogi, nonostante in passato ci siano state posizioni di pensiero ben diverse e non condivise.

Guai però se qualcuno si illudesse che questa splendida pietra tombale possa seppellire per sempre la testimonianza di questo grande vescovo che ha contribuito e può contribuire ancora alla crescita spirituale della Chiesa alla quale ha dedicato la vita.

Il messaggio del cardinal Martini sopravvive di certo alla sua morte fisica. Io ritengo doveroso facilitare il dono che questo vescovo ha offerto e può ancora offrire alla comunità cristiana riproponendo alcune sue riflessioni.

Riporto un passaggio di un articolo del Corriere della sera che può offrire al mondo ecclesiastico e a quello che gli è vicino, un’occasione per un serio e positivo esame di coscienza.

Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al Papa stesso”. E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.

Almeno da parte mia ringrazio di cuore il cardinale Martini e mi impegno a far tesoro delle sue parole sperando che molti altri ecclesiastici più “tentati” di me e facciano altrettanto.

Che Guevara e la monachella

Ci sono delle tematiche religiose e sociali che non mi lasciano pace. Per quanto mi arrovelli l’animo per coglierne l’anima profonda e mi sforzi di passarle alla coscienza della comunità di cui mi occupo, quasi come un cristiano che soffre di scrupoli, sono tentato di ripensare e di precisare in maniera più approfondita l’argomento, tanto che ho paura di ritornarci in modo ossessivo. “Ripetere, dicevano gli antichi, giova”, ma i contemporanei aggiungono “Ma stufa!”.

Uno degli argomenti che suscitano un tormento nella mia coscienza di uomo, cristiano e prete, è quello di precisare quale sia l’argomento portante, l’anima e il cuore della religione. Ho spesso la sensazione che per tanti, forse troppi, battezzati, la religione sia ridotta ad un ritualismo, anche se devoto ma formale, quasi un guscio di seme vuoto che non metterà mai germoglio e quindi non porterà mai frutto, mentre per me la religione deve essere necessariamente una tensione interiore, una convinzione di un valore assoluto che germogliando dovrà diventare libertà, verità, giustizia, amore, pace, verità, serenità e speranza.

Una religiosità fine a se stessa non mi interessa, è un seme sterile ed infecondo che come il sale scipito può essere buttato e calpestato dai passanti.

In questi giorni questo pensiero mi si è ripresentato in maniera forte in seguito all’affermazione di quella maomettana di cui parlo nell’editoriale de l’Incontro del 30/12/2012. E’ vero che i maomettani sono più praticanti, più ligi alle regole, più assoluti nel loro credo e che i cristiani sono quasi l’opposto. Ma mentre nei Paesi di civiltà cristiana i contenuti e le proposte delle fede sono diffusi e presenti, tanto da far dire a Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”, da noi i contenuti e i frutti della fede sono presenti anche nei non praticanti, nei liberi pensatori e perfino negli atei schierati, mentre nelle nazioni di fede islamica questi valori non solo sono pochissimo presenti, ma anzi la religione che dovrebbe farli fiorire appare all’incontrario: fanatismo, spirito di vendetta, intransigenza, settarismo e discriminazione tra uomo e donna.

E’ pur vero che anche nelle nazioni cristiane sono purtroppo presenti queste male piante, però mentre da noi sono peccati e mancanze, per l’Islam sono pseudo valori cercati e proposti ufficialmente come virtù.

La fede attinge alla sostanza, non alla forma, tanto che uno scrittore cattolico è arrivato ad affermare: «Non mi meraviglierei che in Paradiso ci fosse anche Che Guevara con il suo kalashnikov seduto accanto ad una monachella vergine pudibonda e timorata di Dio, perché se Che Guevara ha cercato giustizia e difesa degli ultimi con cuore sincero e convinto, ha onorato Dio e s’è guadagnato il Paradiso!».

I miei Padri spirituali di carta stampata

Di primo mattino, mentre mi sto preparando per il nuovo giorno, la Rai trasmette una rubrichetta nella quale un giornalista intervista il sindaco di un piccolo paese d’Italia che si sta impegnando in una iniziativa particolare che merita di essere conosciuta da tutti i concittadini. Mentre mi faccio la barba ascolto con qualche curiosità su come “gira questo mondo”.

Questa mattina mi si sono drizzate le orecchie sentendo che invece del sindaco l’intervista era rivolta ad un parroco di un piccolo paese del Friuli di cui qualche mese fa ho letto un volume, “Fuori dal tempio”. Siccome dalla lettura ho capito quanto intelligente e quanto questo prete si prendesse a cuore in maniera appassionata le problematiche della Chiesa e della società, ho ascoltato con estremo interesse l’intervista.

In sostanza questo sacerdote, che si rifà al messaggio di Padre Balducci, morto vent’anni fa, ha aperto una casa di accoglienza per rifugiati politici di ogni Paese e ora organizza un convegno internazionale su Padre Balducci per incorniciare la sua testimonianza e il suo messaggio che egli ritiene attuale e quasi profetico.

Padre Balducci è il prete scolopio, pure a me caro, perché libero, di pensiero, critico nei riguardi degli apparati, in dialogo con la società e teso a scrutare il futuro. Diresse la rivista “Testimonianze”, rivista che ha avuto un ruolo importante nel mio pensiero, a cui sono stato abbonato e che ho letto fin dal suo inizio.

Padre Balducci è anche per me un testimone e un profeta del nostro tempo che, pur divergendo spesso dal pensiero ufficiale della Chiesa, amò e la servì offrendole il suo contributo intelligente.

In questa occasione ho avuto modo di ricordare con riconoscenza le riviste che sono state determinanti nella mia formazione: da “Adesso” di don Mazzolari a “Testimonianze” di Padre Balducci, dal “Gallo” di Genova al “Nostro tempo” di Torino, dal “Molino” di Bologna a “La rocca” di Assisi. Una volta ancora ho capito quanto debbo a questi miei maestri e padri dello spirito. Cosicché sento il dovere di consigliare i miei amici di scegliere dei periodici che esprimano ricerca, che non si accodino al pensiero dominante, che abbiano il coraggio di andare controcorrente e amare la Chiesa anche denunciando i suoi limiti, le sue contraddizioni e le sue lentezze.

Muoia io ma muoiano pure i Filistei

Ho già confidato ai miei amici che quando ero un parroco superimpegnato sognavo di andare in pensione, anche per avere la possibilità di godere la mia amata musica sinfonica, leggere con tranquillità qualche buon volume e poter vedere qualche film in pace.

Le cose non sono andate così perché non sono riuscito a liberarmi del “senso del dovere” e dalla convinzione che non si debba buttar via il tempo e le risorse interiori per cose di poco conto. Ora però nel dopocena non riesco più a lavorare e quindi avrei il tempo per realizzare i vecchi sogni. Confesso però che nel dopocena di tutta questa lunga estate, prima di addormentarmi – cosa che è avvenuta sempre e presto – non ho fatto altro che girare la manopola del televisore senza trovar nulla che mi potesse interessare.

E’ vero pure che durante le ferie estive le televisioni offrono materiale scadente che molto probabilmente comperano a poco prezzo ed è ancor vero che l’infinità di offerte di programmi diversi finisce per creare nausea e rifiuto.

L’altra sera finalmente, girovagando tra l’etere, mi sono imbattuto in quelle immagini naif che introducono “Ballarò”. Sono rimasto sveglio, anzi troppo sveglio perché sono passato dallo scoramento alla esasperazione per la purulenza che è venuta fuori da quella trasmissione. Quella sera si trattava delle ruberie della Regione Lazio e giornalisti, politici ed esperti se la pigliavano con l’agguerrita presidente prestata dal sindacato alla politica.

La Polverini non è certo una sprovveduta, comunque ha fatto esplodere un polverone che ha ingrigito in maniera ancor più evidente le malefatte dei nostri politici.

Io mi ero illuso che gli scandali che hanno coinvolto ora l’uno ora l’altro partito avessero convinto “la casta” se non ad un ravvedimento, almeno ad una certa moderazione. Invece no, sempre peggio, anzi constato una fretta per liberarsi da quella gente sana che oggi governa il Paese e che sottolinea ancor più il degrado e il marcio del mondo politico italiano.

Per la prima volta nella mia vita provo la tentazione di votare scheda bianca per dichiarare lo schifo che provo!

Le testimoni dell’assoluto

Ieri ho sentito il bisogno di spezzare una lancia a favore delle claustrali ed oggi ci ritorno perché ripeto che si può trovare nei loro conventi, un po’ tetri ed incorniciati di passato, una sorgente di vita fresca e pulita.

Per trentacinque anni sono vissuto a ridosso di una piccola comunità monastica; soltanto una strada divideva la mia canonica, settecentesca e tirata a lustro, dal loro convento che era più bello e più antico, ma che una tradizione monacale assai discutibile ed un geometra di pochissimo ingegno hanno oscurato con un gran muraglione, quasi fosse necessario perché qualcuno non rubasse qualche monaca o non ne turbasse la sensibilità, come avvenne per la monaca di Monza.

L’alta mura io però non l’ho mai letta come una difesa di una comunità di vergini, ma ai miei occhi è sempre sembrata uno sgorbio che impediva di vedere le belle linee della villa patrizia del nobile Michiele. Ripeto: nella mentalità ufficiale di certi conventi ci sono purtroppo rimasugli di un mondo fortunatamente scomparso che bisognerebbe rimuovere.

Un giorno chiesi alla badessa di poter celebrare un matrimonio nella loro chiesa, ma essa mi rispose che non era possibile se non con un permesso particolarissimo della curia. Cercai le origini di questo divieto e mi fu detto che era proibito perché le giovani monache non ne fossero turbate vedendo la bellezza dell’amore umano e non rimpiangessero d’essere entrate in convento. In realtà, fortunatamente, ora le cose non stanno così. In questi vecchi conventi ci sono anime belle e preziose.

Ricordo una famosa intervista di Sergio Zavoli ad una monaca di clausura di un monastero di Bologna. Quando Zavoli chiese se non si sentissero isolate, fuori dal mondo, essa rispose con voce calda e convinta: «Noi vogliamo avere il cuore aperto, disponibile ad accogliere l’ultimo naufrago della vita per dirgli: “entra, tutto è pronto per te, ti abbiamo aspettato con amore”».

Nei vecchi conventi ci sono anime sublimi come questa sarebbe vantaggioso frequentarle un po’ di più, perché ci offrirebbero sempre qualcosa di essenziale e di genuino.