Grandi navi e piccoli uomini

La mia prima esperienza di prete la feci nella parrocchia di Santa Maria del Rosario alle Zattere. Quella parrocchia è conosciuta dal tutti come “i Gesuati”, perché chiesa è stata costruita da un ordine religioso che il Papa permise alla Serenissima di sopprimere, incamerandone i ricchi beni, in cambio dell’offerta di una squadra navale di galee per affrontare i turchi a Lepanto.

La mia prima esperienza è stata esaltante, il mio “primo amore” da prete, ma anche difficile perché io, di Eraclea, dovetti inserirmi in un contesto veneziano nel quale la maggior offesa era quella di maledire i tuoi morti, ma la seconda era quella di infamia verso l’avversario chiamandolo “campagnolo”. Ma questo era solamente un aspetto della mentalità corrente.

In quella parrocchia abitavano tanti gondolieri e ricordo bene con quanta superiorità parlavano dei “i foresti”. Ho sempre avuto la sensazione che i gondolieri fossero e siano convinti che le centinaia di migliaia di visitatori che vengono a Venezia, non lo facciano per ammirare la città dei dogi, ma per vedere loro, i conduttori, pur esperti, di quella strana ed atipica imbarcazione che è la gondola.

In questi ultimi tempi, in cui tiene banco il problema delle grandi navi nel bacino di san Marco o il problema della torre di Cardin, i veneziani continuano a guardare dall’alto in basso anche coloro che danno loro da vivere, pensando che il mondo intero debba prostrarsi ai loro piedi solo perché sono i discendenti di antenati intraprendenti e coraggiosi. Troppo spesso mi pare che certi concittadini insulari abbiano la puzza sotto il naso e pretendano di avere quello che noi campagnoli diciamo “la botte piena e la massera ubriaca”.

I veneziani hanno perduto l’occasione del nuovo carcere, fanno i difficili sul quadrante di Tessera, ora sono infastiditi per le navi che portano in città una miniera d’oro, turbati perché c’è chi offre di costruire a sue spese, e porgono su un piatto d’argento, una torre capace di migliaia di posti di lavoro. Ma cosa pretendono questi concittadini insulari che han tenuto malamente al guinzaglio, come servi, i concittadini di terra, privandoli, con la loro insipienza, delle industrie di Marghera e rendendo le fabbriche ferro vecchio senza valore?

Ora Venezia avrà la città metropolitana. Spero che non perda anche questa occasione; mi auguro che non continui a fare la vecchia nobile signora schifiltosa ed arrogante pur senza un quattrino!

Cronaca di un pomeriggio diverso

Le uscite degli anziani del “don Vecchi” le abbiamo denominate “minipellegrinaggi” perché sono il compendio di due componenti che si completano a vicenda.

La prima componente, della quale mi occupo personalmente, è di carattere religioso. La seconda è un ibrido tra una lunga chiacchierata pomeridiane ed una merenda a base di salame, formaggio, mortadella e bevande varie. Il tutto sotto la copertura formale di un interesse culturale in uno dei tanti borghi, quanto mai interessanti, della nostra regione.

L’ultima uscita ha avuto come meta l’antico porto fluviale di Bussolé, il borgo e il relativo porticciolo ora interrato per l’avvenuta deviazione del Sile, ove un tempo le “peate” della Serenissima portavano, via fiume, il sale che poi veniva distribuito con barche più piccole e carri, in tutto il Triveneto.

Questa uscite sono sempre appetibili perché poco faticose e soprattutto alla portata di tutti: con dieci euro infatti ogni anziano riceve generosamente i conforti religiosi e quelli gastronomici.

Partenza ore 14 con due pullman e 112 “pellegrini”, santa messa con presentazione, preghiere dei fedeli e canti. Meditazione sul tema: le “ricchezze” che anche i vecchi posseggono ancora. Penso di essere stato così appassionato e convincente che, uscendo di chiesa, tutti devono essersi sentiti nel fiore degli anni.

Il giovane parroco che esercita il suo ministero nel comune più piccolo del Veneto – 500 anime -, docente di patristica all’Università di Padova, è stato di un’ospitalità sovrana, mettendoci a disposizione la bella sala parrocchiale. Subito è cominciata la festa: tre panini a testa, bevande a volontà. Penso che i miei vecchi non sarebbero più andati via dal piccolo borgo di case del 1300-1400!

Quando sentii intonare l’inno di san Marco “Viva Venezia, viva la gloria del nostro leon” ho compreso che si era giunti all’apice della festa. Purtroppo, con quel vinello galeotto, i monumenti, il ponte, la torre e il deposito del sale divennero ben poco interessanti!

Il colpo finale è stato un baracchino che una giovane bengalese aveva piazzato proprio vicino al parcheggio del pullman, dove vendeva caldarroste, noci, patate americane.

Il nostro pellegrinaggio è stato anche la sua fortuna perché in pochi minuti avrebbe venduto anche la bilancia e l’arnese per la cottura delle castagne.

Ancora una volta ho capito che la “felicità” è a portata di mano.

Non ci sono più soldi per la legalità

Molto probabilmente, anche se non lo sapevamo, gli amministratori pubblici in genere hanno sempre pensato prima per le proprie tasche e per quelle della propria clientela ma, tutto sommato, quando c’erano molti soldi, qualcosa rimaneva anche per i cittadini. Ora, con la crisi, per i cittadini non rimane proprio più nulla. Siamo arrivati non so se al tragico o al ridicolo

Mi rifaccio a due casi concreti nei quali sono coinvolto direttamente. Il Comune ci ha dato il diritto di superficie in un’area agli Arzeroni per costruire la nuova struttura per gli anziani poveri in perdita di autosufficienza. A parte il fatto che il tratto di superficie era impastoiato con altre proprietà e il Comune da anni ha lasciato in abbandono una situazione talmente ingarbugliata che solamente la tenacia e l’intelligenza del giovane parroco di Carpenedo è riuscito a sbrogliare, il tragicomico è apparso quando i rogiti erano fermi solo perché il Comune non aveva neppure un euro che serviva per le marche da bollo.

La seconda vicenda è quella della messa in sicurezza dell’ingresso del “don Vecchi” di Campalto in via Orlanda. La pratica è durata esattamente un anno, dal 15 ottobre 2011 al 17 ottobre 2012. S’era trovato un accordo iniziale per cui la spesa sarebbe stata divisa in tre parti: Comune, Anas e Fondazione. Giunti, sudando non sette ma settanta camicie, alla conclusione, sia il Comune che l’Anas hanno dichiarato con “infinito candore” che né l’uno né l’altra avevano a disposizione neppure un centesimo e perciò, se volevamo il “lusso” della sicurezza per i settanta anziani del Centro, dovevamo accollarci tutta la spesa. Cosa che abbiamo fatto!

A questo punto confesso che mi vergogno di essere un cittadino di Venezia e mi vergogno ancora di più di non aver avuto ancora il coraggio di buttare una bomba su questi carrozzoni non dico inutili, ma esiziali.

Un battimano infelice

Per anni la chiesa ha rifiutato il funerale religioso ai cosiddetti “peccatori pubblici”, ossia a quei battezzati che morivano in una situazione irregolare con le norme fondamentali della Chiesa: divorziati, suicidi, persone che in vita erano state anticlericali o in qualche modo irrispettose verso la religione. Questo atteggiamento in parte era logico e consequenziale ai valori proposti dalla religione ed in parte retaggio di una intolleranza e di una arroganza religiose per le quali la Chiesa considerava i fedeli come sudditi.

Con l’affermarsi della scienza ed in particolare della psicologia, che valuta in maniera più attenta i comportamenti ed i condizionamenti della persona, da un lato, e dall’altro lato temendo la gente meno l’imperio ecclesiastico, fortunatamente le cose sono cambiate.

Attualmente la Chiesa applica meno le leggi del diritto ed è molto più rispettosa delle scelte dell’individuo e dei condizionamenti che egli subisce dalla società in cui vive. Oggi la Chiesa giustamente benedice e prega anche per quelli che un tempo erano ritenuti “pubblici peccatori”. Però, diceva il buon Orazio fin dai tempi di Roma, “ci sono dei limiti al di qua e al di là dei quali non c’è verità e giustizia”.

Ora mi è capitato di sentire che a Portoviro in occasione del dramma del carabiniere che ha sparato ed ucciso il suo comandante e la relativa moglie, la folla dei fedeli che ha partecipato alle esequie ha applaudito lungamente, durante i funerali religiosi, il carabiniere pluriomicida. Quel che è troppo è troppo!

La pietà, il non giudicare è una cosa, ma l’applaudire è un’assurdità religiosa e pure civile. La coscienza dell’individuo determina il grado di responsabilità personale, ma c’è pure una regola di moralità obiettiva che ha il suo peso e che deve essere proposta alla coscienza collettiva.

Oggi la gente definisce “solare”, parola alla moda, creature che perdono la vita a causa della droga o che comunque sono coinvolte in fatti loschi. Credo che questo costume sia socialmente pericoloso e religiosamente amorale e diseducativo. Nella realtà c’è e ci sarà sempre una differenza tra il bianco e il nero!

Ben diverso dal prototipo

Ho già parlato in passato di questa iniziativa pastorale della parrocchia del Duomo (come lo si chiama oggi, mentre nel passato quella era definita come la parrocchia di San Lorenzo di Mestre).

Ritorno sull’argomento perché mi pare un evento poliedrico che presenta almeno due aspetti molto importanti: uno organizzativo ed uno di contenuto. Non nascondo però che ce n’è un terzo che credo mi riguardi, almeno indirettamente.

Veniamo all’evento. Con l’autunno che si è aperto al nuovo anno della pastorale, monsignor Fausto Bonini, arciprete del Duomo, ha fatto stampare il prontuario nel quale sono descritte tutte le attività promosse dalla parrocchia e si informano i fedeli circa date, luoghi, orari, numeri di telefono e di posta elettronica della parrocchia e dei responsabili dei vari settori della vita di quella comunità parrocchiale.

L’opuscolo, di formato dépliant, è quanto mai elegante, per impostazione grafica, per la sequenza delle attività e per l’assoluta completezza delle informazioni. Il fascicolo è composto di 50 pagine, tutte a colori e con foto inerenti l’argomento. Il parrocchiano che prende l’opuscolo, stampato in un numero veramente grande di copie, può trovare tutto, proprio tutto quello che concerne la sua parrocchia. Questo non è poco.

Vengo poi al merito. Da una lettura, anche superficiale di questo prontuario informativo, si evince immediatamente che quella comunità tenta di dare risposta a tutte le attese dei suoi membri: dalla liturgia alla formazione, dalla cultura allo sport, dalla ricreazione alla catechesi, dalla carità all’intrattenimento. La parrocchia di San Lorenzo non è monocorde o bicorde, ossia liturgia e catechesi, come purtroppo avviene in moltissime parrocchie, ma punta ad una visione globale dell’uomo, del cristiano; così si avverte immediatamente che il fedele può trovare tutto all’interno della sua comunità, perché essa, pur con stile religioso, ha una risposta per tutte le attese. L’iniziativa di monsignor Bonini è veramente lodevole, tanto che io gli consiglierei di mandare una copia dell’opuscolo a tutte le parrocchie della diocesi.

Il terzo motivo è di certo marginale: anch’io, da parroco, avevo avvertito questa esigenza e fin da trent’anni fa pubblicavo ogni anno sul mensile della parrocchia l’organigramma della comunità ma, al confronto del prontuario di San Lorenzo, il mio rappresenta un parente povero, un archetipo preistorico. L’esigenza però l’avevo avvertita fin da allora ed avevo tentato una risposta, pur primordiale.

Il fine del Centro don Vecchi

Ci sono detti popolari che probabilmente hanno fatto fortuna per l’assonanza o la rima, o perché legati a tradizioni di un mondo rurale dalla cultura povera che poggia su certa esperienza e soprattutto perché quel mondo non possedeva conoscenze scientifiche aggiornate. Però ci sono dei detti un po’ sornioni che evidenziano limiti e debolezze umane. Ricordo ancora una vecchia sentenza in cui si affermava che la moglie che le pigliava ogni giorno dal marito, se un giorno lui non l’avesse bastonata sarebbe stata felice e riconoscente, concludendo che quell’uomo era fondamentalmente buono, mentre quella che non le prendeva mai, se una sola volta lui avesse alzato la mano, l’avrebbe giudicato come un marito cattivo e crudele.

Sono ritornato a questo vecchio discorso qualche giorno fa in merito ad una questione del “don Vecchi”. Abbiamo scelto vent’anni fa di aprire l’esperienza innovativa di una residenza per anziani poveri, ma autosufficienti: un’alternativa alle case di riposo. Per garantirci questa scelta nel contratto di accettazione l’anziano aspirante ospite e il garante hanno sottoscritto una clausola che sempre viene evidenziata: qualora l’ospite perda l’autosufficienza i suoi parenti provvederanno a toglierlo dal “don Vecchi” per inserirlo in una struttura idonea che preveda l’assistenza che da noi non c’è.

Ora pian piano al “don Vecchi” c’è un po’ di tutto perché, col passare degli anni, anche le tempre più forti sono erose. Ci troviamo dunque nella necessità di invitare i figli o i parenti a provvedere per il loro anziano che non deambula, ragiona poco o niente, ha bisogno di assistenza continua. Apriti cielo! Pare che la nostra sia insensibilità o, peggio ancora, crudeltà mentale.

Dopo qualche incontro in cui ho tentato di ricordare l’impegno, mi sono sentito apostrofare quasi fossi un carnefice. Il “don Vecchi” è bello e inoltre si paga poco, però è inconcepibile che qualcuno pretenda che il centro possa offrire le stesse prestazioni delle case di riposo, che pur essendo meno signorili, nonostante ciò chiedono rette quattro volte maggiori di ciò che si chiede dal nostro Centro.

Comunque il Centro don Vecchi è stato pensato per anziani autosufficienti e tale vogliamo che sia.

Dopo aver sofferto, lottato ed essere riuscito ad offrire a mezzo migliaio di anziani cinque, dieci anni di vita serena in un ambiente signorile, mi si accusa di insensibilità. Mentre decine e decine di colleghi, che han pensato ai fatti loro non curandosi dei poveri, diventano dei santi preti, comprensivi e umani. Vallo a capire questo mondo!

Allergico al rosso

Ognuno, penso, che prima o poi scopra di avere le sue allergie.
Molti anni fa la Benita, la vecchia custode delle suore di clausura che aveva un rimedio empirico per tutti i guai di questo mondo, mi suggerì di fare una cura prendendo della pappa reale. Non l’avessi mai fatto! Dieci minuti dopo l’assunzione mi si arrossò e gonfiò il volto, tanto da diventare un mostro. Il medico sentenziò che ero allergico a quel prodotto delle api.

Da poco tempo invece ho scoperto che sono pure allergico ad un tipo di antibiotico. Ieri sera poi ho fatto un’altra scoperta. Già da anni provavo un certo disagio di fronte a certe scelte ecclesiastiche in genere, ora invece, al vedere alla televisione l’incontro di Assisi tra Napolitano, il capo dello Stato, che non mi era molto simpatico per i suoi trascorsi politici, e monsignor Ravasi, a cui avevo sempre pensato con ammirazione e simpatia per la sua brillante intelligenza, ho scoperto un altro tipo di allergia specifica a cui vado soggetto, ossia l’allergia al rosso e alla pompa.

Confesso che sono contento perché ora che conosco la mia fragilità in merito, ho almeno l’opportunità di curarla.

Veniamo al merito della mia recente e sorprendente scoperta. Napolitano ha tenuto una brillante conversazione e Ravasi altrettanto ha interloquito con la facondia e l’acutezza di pensiero che gli è propria. Però Napolitano vestiva in pantaloni e giacca sobri ed aveva una cravatta appropriata come tutta la gente di oggi, mentre Ravasi aveva la sottana nera filettata di rosso, la fascia più rossa ancora e la papalina dello stesso colore in testa. L’incontro avveniva in piazza, quindi non c’entrava per nulla la liturgia.

Quanto mi sarebbe piaciuto che il cardinale avesse indossato il clergiman, magari con la crocetta d’argento sul bavero; portare in piazza questo armamentario del passato m’è parso una cosa di cattivo gusto, ma soprattutto, una volta ancora, m’è parso quasi che egli, magari senza volerlo, abbia posto un diaframma tra la gente del nostro tempo e il ceto ecclesiastico, mentre in realtà il sacerdote, e più ancora il vescovo, dovrebbe essere un tutt’uno col popolo come il lievito, nascosto e non divisibile dal pane che si sta impastando.

Gli uomini di Chiesa a mio parere devono sempre più mescolarsi con lo stile, la sensibilità degli uomini del nostro tempo, facendo saltare anche gli ultimi steccati. La gran parte dei preti hanno “saltato il muro”, mentre ho la sensazione che i vescovi siano ancora titubanti e reticenti. E si che loro. La lettera a Dioneto la dovrebbero conoscere bene; in essa si dice, ormai da secoli, che il cristiano non differisce per nulla, anzi sposa tutto quello che è proprio degli uomini del nostro tempo, fuorché le miserie e le cattiverie.

La mia semina quotidiana

La lettura del breviario, ossia della preghiera ufficiale della Chiesa, è da secoli il momento forte ed il perno della spiritualità della vita monastica. Quando si vanno a visitare le grandi e splendide cattedrali, spesso ci vengono mostrati i cori – vere opere d’arte dei maestri del legno – destinati ad ospitare i monaci che ad ore fisse vi si raccolgono a pregare e lodare il Signore a nome della Chiesa e del mondo intero.

Da noi sono ormai poche e piccole le comunità monastiche i cui membri pregano in coro: i benedettini a San Giorgio, i francescani alla Giudecca, a San Marco i canonici. Si tratta però di piccole comunità raccogliticce e anziane, per cui spesso sembra di ascoltare un brontolio incomprensibile, piuttosto che una lode solenne.

Quando però la comunità è consistente e i componenti sono creature di Dio, allora è tutt’altra cosa. Io ricordo di aver assistito, nella chiesa del monastero di Marianlac in Germania, alla recita del breviario in coro: era qualcosa di suggestivo e profondamente religioso.

La Chiesa domanda anche a noi preti la recita del breviario, ma mentre i monaci lo recitano intervallato, durante la notte, di primo mattino, a mezzogiorno, nel vespero e al tramonto, noi preti lo diciamo tra un’occupazione e l’altra senza le dovute condizioni. Io, ad esempio, mi alzo presto e lo recito di primo mattino, prima di iniziare la giornata. Ora lo recito ad alta voce per non appisolarmi sul testo.

Talvolta mi trovo in difficoltà con certi salmi e certi testi antichi. Il mondo dei salmi è lontano millenni da noi e perciò ha bisogno di trasposizioni non sempre facili; talvolta mi trovo ben poco d’accordo con le preghiere del mondo ebraico che pensava di essere al centro del mondo e che Dio fosse tutto per lui. Talvolta però incontro dei passaggi molto belli, delle “pietre preziose” che mi incantano e mi aiutano a mantenere la mia anima in carreggiata.

Lunedì sera a compieta (l’ultima preghiera della giornata) il testo mi ha fatto dire: “Donaci, o Padre, un sonno ristoratore e fa che i germi del bene, seminati nei solchi di questa giornata, producano una messe abbondante”. Mi sono addormentato dolcemente sperando che le mille parole, i mille gesti che hanno intessuto la mia giornata stessero per germogliare e fiorire.

Ci sono ancora campioni

Non sto qui a ripetere una vecchia storia che per me è stata una bella avventura, ma che al “mio mondo” può non interessare o essere addirittura noiosa. La riassumo brevemente.

Essendo venuto a conoscenza che presso l’ospedale oncologico di Aviano della gente volonterosa aveva aperto una foresteria per accogliere i parenti degli ammalati provenienti da lontano e sapendo che tantissime persone salivano dal sud più profondo per cure presso l’oculistica di Mestre – allora c’era il primario Rama, che rappresentava una delle eccellenze in questo settore – tentai di ripetere l’iniziativa anche a Mestre. Acquistai un appartamento presso l’ospedale, lo suddivisi in sei stanzette, tanto da ricavarne 10 posti letto, aggiunsi un bagno, cercai una direttrice e lo chiamai “Foyer San benedetto” in memoria della proverbiale virtù dell’ospitalità dei seguaci di san Benedetto da Norcia.

All’inizio la conduzione risultò alquanto tormentata perché, pur essendoci a Mestre duecentomila battezzati che ritengono di essere discepoli di Gesù, è difficile trovarne anche uno, o una sola, disposta a diventare “padre e madre di famiglia”, capace di aprire la porta di casa all’ultimo naufrago della vita e condividere la propria dimora con un’altra decina di persone sconosciute che cambiano più volte la settimana.

Fui fortunato come sempre. Dopo i primi infortuni arrivò la Cleofe, vedova da poco, mingherlina e fragile, ma dal polso fermo come un ufficiale prussiano. Quindi, andata in pensione per vecchiaia, arrivò la Maria, una carissima donna dal volto sorridente e dal cuore d’oro, che non solo condusse avanti in maniera splendida il Foyer per anni, ma si preparò perfino chi le succedesse (forse nell’inconscio intuì che il Signore l’avrebbe chiamata presto in cielo, infatti fu così).

Ora c’è Teresa, una maestrina del sud che ha raccolto l’eredità di Maria come un tesoro autentico. Teresa è una ragazza che sa veramente far miracoli. Ogni volta che il mare agitato della nostra società abbandona sul bagnasciuga un “relitto” che mi capita di raccogliere, ricorro a lei, che riesce a trovare sempre una soluzione.

Qualche giorno fa mi è stato riferito che non avendo posto, concesse il suo letto all’ospite e lei ha dormito in una brandina da campo. Il giorno dopo, essendo occupato anche il letto di fortuna, ha chiesto ad un’amica di ospitarla, per non rifiutare l’ultima venuta.

Quando seppi, mi ricordai di Giacobbe che ottenne la salvezza della città facendo presente a Dio che in quella città c’erano ancora 10 giusti.

Finché a Mestre ci saranno ragazze del genere credo che, nonostante tutto, Dio avrà pietà di noi.

L’esempio dei “Frari”

Sono tornato più volte su “L’incontro” a parlare di don Didimo Montiero, il prete vicentino che ha inventato, per la sua parrocchia di Bassano “Il Comune dei Giovani”.

Questo prete umile ma zelante, soprattutto nei riguardi della gioventù, ancora una quarantina di anni fa, ha compreso la necessità ed ha realizzato un grande centro giovanile a favore dei ragazzi, adolescenti e giovani di Bassano.

Caratteristiche peculiari di questo Centro sono quattro: 1) per struttura e dimensione il Centro è sovraparrocchiale e destinato a tutti i giovani della città pedemontana; 2) il Centro dà risposte alle attese diversificate del mondo giovanile: sport, musica, ricerca, cultura, spiritualità; 3) il complesso è governato da un “consiglio” eletto democraticamente fra i giovani che lo frequentano; 4) un giovane prete, sensibile alle problematiche giovanili è impegnato a tempo pieno per l’animazione del grande complesso.

L’intuizione di don Montiero è quanto mai intelligente ed anticipatrice di un bisogno ora avvertito da ogni comunità parrocchiale.

In uno dei miei interventi in proposito riferii dello stato di abbandono, di precarietà e di inadeguatezza dei nostri patronati che, assai di frequente, sopravvivono in maniera stantia e pressoché inutile. Riferii inoltre dei miei tentativi miseramente falliti, non essendo riuscito a convincere e coinvolgere i colleghi preti, rimanendo avvilito ed impotente di fronte a questa poca apertura, coraggio e lungimiranza pastorale.

Sennonché mi hanno riferito che a Venezia, nella parrocchia dei Frari, ove c’è un giovane parroco intraprendente, il relativo patronato funziona già come Centro giovanile a cui convergono i giovani di un paio di sestieri di Venezia. Infatti abbastanza di frequente la stampa parla di iniziative di questo Centro quanto mai intelligenti e che fanno presa sui giovani.

Tento di far rimbalzare questa notizia nella speranza che a Venezia e a Mestre ci sia chi prenda l’iniziativa e faccia tentativi analoghi.

La tassa sulla fede

Da parecchio tempo avevo sentito dire che il clero in Germania – sia quello protestante che quello cattolico – riceveva lo stipendio dallo Stato e lo Stato finanziava sia i preti che i pastori attraverso una “tassa sulla fede”. Ogni cittadino che si dichiarava credente, tra i vari contributi doveva versarne uno per il mantenimento del clero della Chiesa relativa. La notizia mi aveva lasciato un po’ perplesso, perché non “mi suonava bene” il prete stipendiato dallo Stato: la sua missione mi diventava così professione.

Poi anche in Italia, attraverso un marchingegno magari un po’ diverso, si è arrivati alla stessa conclusione con effetti non del tutto positivi. E’ avvenuto anche da noi quello che capitava nei regimi comunisti di un tempo in cui si garantivano a tutti delle risorse pur modeste, per sopravvivere, motivo per cui impegno o non impegno, a fine mese la paghetta arriva garantita e per tutti uguale, lavorino o battano la fiacca.

Seppi inoltre che molti italiani emigrati per lavoro in Germania, capito il meccanismo, credenti o no, aggiravano l’ostacolo della tassa dicendosi non credenti, pensando che questa dichiarazione formale non avesse nulla a che fare con la loro fede.

Si capisce che il cattivo esempio ha contagiato anche i tedeschi, tanto che qualche giorno fa ho letto una notiziola, non troppo evidente nel giornale perché per il redattore poco rilevante, ma per me invece quanto mai significativa. Si diceva infatti che la gerarchia della Chiesa tedesca aveva, non so bene se scomunicato o espulso o cancellato dall’anagrafe delle parrocchie, chi si comportava in tale maniera.

Onestamente disapprovo chi rinnega, almeno a livello formale, la propria fede per non “pagare il prete”, però mi lascia ancor più perplesso, anzi mi mette a disagio, una gerarchia che discrimina o che “butta fuori dalla Chiesa” il “fedele” che non paga la tassa per l’officiante: una impalcatura religiosa che si impelaga in provvedimenti del genere non mi pare proprio esaltante.

A me pare tanto più bello, ma soprattutto di sapore più evangelico, che le comunità provvedano spontaneamente e per amore ai loro sacerdoti; questa soluzione non solo è più nobile, ma mi appare più stimolante per i ministri del culto a fare bene il proprio dovere.

Pregi e limiti

Se qualcuno legge questi appunti e riflessioni varie che vado facendo di giorno in giorno mi potrà anche dire che queste sono cose da preti. E’ vero, ma io sono un prete e non posso parlare se non delle cose che riguardano e da cui sono interessati i sacerdoti. Qualche settimana fa ho riferito, ammirato, che la parrocchia di San Giovanni Evangelista, che è prevalentemente a conduzione neocatecumenale, ha portato al Family Day di Milano più di trecento sposi e che durante l’estate ben 150 fra adolescenti e padrini hanno partecipato in una casa di montagna ad alcuni giorni di spiritualità.

Tutto questo ed altro ancora sono cose quanto mai positive. Presso i neocatecumenali, quando “i catechisti” decidono qualcosa di buono, gli aderenti, come un solo uomo, partecipano obbedienti e disciplinati.

Riconosco, senza riserva, che gli aderenti a questo movimento, come gli aderenti al Movimento del Rinnovamento dello Spirito, quelli dell’Opus Dei o, ancora, i Pentecostali, o Comunione e Liberazione, sono le forze di punta della Chiesa di oggi. Però non posso non riscontrare che pure questi movimenti emergenti hanno limiti ben consistenti. In genere sono chiusi, come fossero asserragliati per difendersi dal “nemico”, guardando con sufficienza i cristiani senza qualifiche, non sono in dialogo col mondo, praticano un settarismo religioso sempre intransigente, non si fanno carico dei problemi sociali, vivono un cristianesimo elitario.

Io per indole, mentalità e scelta, mi sentirei soffocare all’interno di uno di questi movimenti. Nella parrocchia che avevo, nonostante loro ripetuti tentativi, per questi motivi non ho dato loro spazio. Ero convinto che gli appartenenti alla mia vecchia comunità erano una specie di esercito di Brancaleone, perché c’era dentro di tutto. Ciò nonostante nessuna delle parrocchie dominate da questi movimenti aveva il 42 per cento di presenti al precetto festivo come la mia.

Oggi l’uomo e il cristiano trova molta difficoltà a vivere come persona, cerca i gruppi, come gli “alcolisti anonimi”, che si sorreggono l’un l’altro, ma nessuno di loro sta in piedi da solo. Questa situazione non credo sia l’ideale.

Ho cominciato a provare questo sentimento fin dai primi anni del mio sacerdozio quando alcuni dei miei ragazzi e delle ragazze tra i più promettenti sono stati circuiti dai membri dell’Opus Dei, tagliati fuori dalla parrocchia, imponendo loro un confessore del movimento e condizionandoli con una pressione psicologica quasi ossessiva.

Padre Escriva, fondatore dell’Opus Dei, oggi è un santo, ma non credo che lo sia diventato per aver fondato la sua società segreta sia pure sotto il segno della croce.

“Libertà vo cercando”, diceva Dante. La libertà è per un uomo quello che è l’acqua per i pesci e l’aria per gli uccelli. Non per nulla il Signore ci ha creati unici, irripetibili e liberi!

Preti e “bottega”

La mia è stata una famiglia di falegnami. Purtroppo mio fratello ne è stato l’epigone, perché qualche mese fa ha chiuso bottega per l’età, la crisi incalzante, la burocrazia che fa si che un artigiano debba avere alle spalle uno studio di esperti, e da ultimo perché oggi è difficile riscuotere i soldi per il lavoro fatto.

I comuni mortali hanno purtroppo imparato dallo Stato a pagare dopo mesi e anni dalla consegna del lavoro. Mio padre, più che un falegname, era un ottimo carpentiere però, come si usava allora, faceva tutto quello che riguardava il legno. Ricordo che ce l’aveva a morte con quelli che egli denominava “rubamestieri”, ossia chi si improvvisava, chi non era andato a bottega, chi non sapeva fare bene il suo mestiere. Lo ricordo sempre quando auspicava che il governo mettesse la regola che per esercitare il mestiere uno dovesse fare un lungo apprendistato e dovesse poi fare l’esame di fronte ad una commissione di vecchi falegnami esperti nell’arte del legno.

La bottega e l’apprendistato sono stati in passato un passaggio obbligato sia per gli artigiani che per gli artisti. Oggi tutto questo è soltanto un ricordo perché ormai queste realtà sono scomparse dalla scena. Io, che sono figlio di mio padre, applicherei questa regola anche per i preti. Ho fatto l’apprendista prete per quasi vent’anni ed ho appreso “il mestiere” presso degli ottimi maestri d’arte: monsignor Mezzaroba, monsignor Da Villa e monsignor Vecchi; solo dopo “mi sono messo in proprio”.

Il nostro vecchio Patriarca, cardinal Luciani, un giorno mi confidò che era suo intento far fare l’esperienza ai giovani preti presso tre o quattro parrocchie, guidate da parroci esperti, in maniera che vedessero ciò che si deve e si può fare, perché solo con questo apprendistato, che va fatto in “bottega”, un giovane prete può capire fin dove si può e deve arrivare.

A me sono sempre piaciuti i chierichetti e gli scout. Un prete novello, mio cappellano, affermava che i bambini d’oggi sono tanto occupati da non poter più apprezzare questi percorsi di formazione. Al che, per dimostrargli quanto ciò non fosse vero, mi impegnai a fondo e nonostante l’età non più giovane lasciai in parrocchia cento chierichetti e duecento scout. I miei suggerimenti possono essere ritenuti peregrini e fuori tempo, però quando li ho fatti mi sento la coscienza a posto!

“Il bicchiere d’acqua”

La pagina del Vangelo su cui la Chiesa ci ha chiesto di riflettere e di commentare qualche domenica fa, era quella che la cultura superficiale del mondo moderno ben conosce come quella del “bicchier d’acqua”. La pagina dell’evangelista Marco, che riporta questa immagine, suona così: “Neppure un bicchiere d’acqua offerto ad uno dei miei discepoli per amor mio rimarrà senza ricompensa”. Questa pagina di Gesù, che contiene il noto passaggio del “bicchier d’acqua” mi è quanto mai cara. Da un lato perché è motivo di conforto per chi è “povero” di santità e dall’altro perché mi fa pensare che il buon Dio al “fine corsa” si accontenta di molto meno di quello che gli esperti di morale hanno predicato lungo i secoli. L’offrire un bicchiere di acqua è alla portata di tutti e perciò tutti possono procurarsi “il biglietto per l’ingresso in Paradiso” senza pagarlo troppo caro.

L’affermazione di Gesù mi ha richiamato alla memoria una lettura di un testo di ascetica che incontrai molto tempo fa e di cui non ricordo l’autore, mentre ricordo bene il contenuto. Diceva questo autore saggio che gli uomini del nostro tempo devono recuperare il profumo dei piccoli gesti quotidiani: il saluto, il sorriso, la stretta di mano, l’ascolto, la tenerezza, il grazie, la carezza, ecc. Un mio amico affermava che era stufo di sentirsi dire “buongiorno” senza che quelle parole e quel suono profumassero di un po’ di calore, di umanità, di un po’ di cuore.

Vissi la mia adolescenza nel primo dopoguerra, quando pareva che le agognate riforme avessero risolto ogni problema ed avrebbero fatto felice ogni uomo. Col passare del tempo non ho cessato di sognare e di battermi per un mondo più giusto, ma ora mi par d’aver capito che una persona è più felice per uno sguardo, per una piccola attenzione che per una nuova legge del fine vita o per la diminuzione dell’IVA. Prima di me una grande piccola santa aveva fatto questa scoperta aprendo la “via di sesto grado” che porta alle vette più alte e impervie. Santa Teresina del Bambin Gesù ci ha insegnato che si può arrivare ad un alto grado di santità facendo bene le piccole cose. E prima di me e di santa Teresina ce lo disse Gesù col suo “bicchiere d’acqua fresca”.

“Le perle preziose”

Sto leggendo un volume, appena uscito per i caratteri della Mondadori, dal titolo fascinoso ed enigmatico: “Colti dallo stupore” del compianto cardinale Carlo Maria Martini. Credo si tratti dell’ultima fatica del vescovo di Milano, perché negli ultimi mesi il Parkinson andava di giorno in giorno ad impedire al suo pensiero, ancora lucido, di farsi voce. L’editore infatti annota nelle ultime pagine, contenenti le sue omelie, che esse sono più brevi ed essenziali perché egli non riusciva ormai più ad esprimersi.

Il volume contiene 174 omelie, ossia i commenti al Vangelo festivo che vanno dal 3 agosto 2008 al 4 aprile 2010. Le prediche di Martini sono assai brevi, da una facciata di pagina ad un massimo di due e risentono delle ricerche di riferimento biblico, come è comprensibile dato il suo “mestiere” amato ed esercitato per una vita intera – ossia quella di uno studioso e docente di biblica.

Dalla lettura, fin dalle prime pagine, si avverte che il cardinale aveva una conoscenza profonda della Sacra Scrittura per cui ci si accorge di quanto si muova a suo agio facendo citazioni e confronti con una puntualità ed un rigore assoluto.

Queste prediche mi hanno dato la sensazione che ci sia tanto poco del suo pensiero personale, ma che egli si limiti quasi ad accostare i singoli passi della Sacra Scrittura in maniera da far emergere più nitida e precisa la Parola di Dio. Inoltre m’è parso di cogliere che per il cardinale l’unica cosa importante e necessaria non sia tanto l’attualizzazione o il commento dei passi evangelici, né tanto meno che il pensiero del Signore sia in linea con l’opinione pubblica e la cultura corrente, ma che esso risulti nitido e sicuro.

Per il cardinale vale solamente ciò che dice il Signore perché quello solo è vero, giusto e valido. Egli si limita a mettere una cornice essenziale e per nulla vistosa alla “Parola del Signore”.

La lettura di Martini mi ha colpito così profondamente, tanto che domenica scorsa ho impostato il mio sermone tentando di imitarlo, ossia mettendo in luce che le perle preziose e di grande valore sono le parole di Dio e non le nostre.

Ho estrapolato le frasi clou della pagina evangelica, mettendoci una cornice umile, così da esaltare tutto il loro splendore. Di certo non sono risultato un “orafo” esperto come il cardinale, m’è parso però che l’assemblea dei fedeli abbia ascoltato e reagito in maniera quanto mai positiva a questa impostazione.