La “religione” di Papa Francesco

La catechesi di Papa Francesco si esprimono soprattutto con i gesti e le scelte pastorali.

Mi pare che al primo posto ci siano le sue prese di posizione a favore degli “ultimi”, delle “periferie” e le sue iniziative, pur minimali, ma di grande significato, che sono sempre a favore di quelle creature che egli afferma che la società attuale definisce “gli scartati”, ma che lui coerente con la logica del vangelo ritiene invece “pietre d’angolo!”

Ho letto con estremo interesse la notizia apparsa su l’ultimo numero de “Il Cenacolo”, la bellissima rivista dei padri sacramentini, l’ultimo gesto di carità cristiana di Papa Francesco. Il nuovo “parroco” in tonaca bianca della comunità cristiana de “Il Vaticano” giorno per giorno sta portando avanti con estrema coerenza e con gesti sempre più in linea col Vangelo e una sua linea pastorale che privilegia la solidarietà, annunciata mediante il suo insegnamento papale, immediatamente tradotta con queste scelte pastorali.

E’ da una vita che vado ripetendo che per la quasi totalità delle parrocchie mestrine “la Carità” rappresenta la cenerentola delle attività pastorali, e che è tempo che sia le singole comunità per conto loro, che assieme alle altre, comincino a dar vita a sempre nuove iniziative a favore dei concittadini in disagio.

Solamente allora il volto di Gesù sarà visibile nella Chiesa di Mestre.

Bisogna che ci convinciamo sempre più che se la fede in Dio che non si traduce in gesti concreti di carità cristiana, si riduce ad una pia illusione che può essere ritenuta tutto, ma non proposta evangelica.

 

Ambulatorio in Vaticano per i poveri

Ambulatorio medico-sanitario, recita la targhetta su un portone ligneo sotto il colonnato di piazza San Pietro. È il dono fatto qualche mese fa da papa Francesco ai senzatetto romani, avviando un nuovo servizio accanto a quelli già attivi, e sempre molto frequentati, delle docce e della barberia. Il servizio è stato affidato all’associazione Medicina solidale onlus. “Siamo grati a papa Francesco per aver voluto, ancora una volta, dare un segno concreto di misericordia in piazza San Pietro alle persone senza fissa dimora o in difficoltà”- ha dichiarato in una nota Lucia Ercoli, direttrice dell’associazione. “I nostri medici insieme a quelli del Policlinico di Tor Vergata hanno accettato con grande passione questa nuova sfida che unisce idealmente il lavoro fatto in questi anni nelle periferie con il cuore della cristianità.”

L’ambulatorio, come già accade a Tor Bella Monaca, Tor Marancia, Montagnola e Regina Coeli, garantirà visite, analisi e terapie per i più bisognosi. Il lunedì i circa 150 beneficiari dei locali docce e barberia, inaugurati lo scorso anno, vanno a cambiarsi i vestiti, lasciando gli indumenti sporchi e indossando quelli puliti messi a disposizione dal reparto biancheria. Servizi potenziati con la casa-alloggio per ricoveri notturni nella sede aperta pochi mesi fa a via dei Penitenzieri.

Fuoco sotto la cenere

Ormai m’ero rassegnato. Da almeno vent’anni avevo sognato che a Mestre parroci e parrocchie sentissero il bisogno di avere un centro che da un lato razionalizzasse e controllasse tutte le associazioni e le “agenzie” cattoliche che sono impegnate sul fronte dei poveri, e dall’altro lato fosse pure operativo concentrando in uno stesso luogo le attività più consistenti in maniera che ai concittadini in difficoltà fosse facile trovare una grande istituzione dove sia possibile avere risposte adeguate alle necessità più diverse. Non è che in questi anni sia stato con le mani in mano, tanto che nel seminterrato del don Vecchi c’è già un abbozzo di questo centro, che io ho denominato con una certa enfasi “il polo solidale del don Vecchi”.

Però è una struttura ancora troppo piccola ed inadeguata. Nel recente passato vi fu un momento in cui mi illusi che il progetto prendesse corpo, tanto che avevamo individuato un terreno e si aveva incominciato a disegnare quella che sognavo fosse intitolata la “cattedrale della solidarietà”.

Il Patriarca Scola s’era lasciato coinvolgere, dando appoggio e facendo promesse, però m’accorsi quasi subito che l’ambiente cattolico non era maturo, a cominciare dalla Caritas che affermò di non crederci, e don Franco che mi disse: “Bello, don Armando, però per i soldi dovrai arrangiarti!”

L’uscita poi di scena del vecchio Patriarca e l’insorgere dei guai finanziari della diocesi, che già era poco convinta e propensa di imbarcarsi in un progetto così nuovo e impegnativo, mise una grossa pietra tombale sopra al mio sogno.

La Fondazione poi si impegnava in quello che doveva diventare un progetto pilota per prolungare ulteriormente l’autosufficienza; sennonché la scelta dell’assessore della Regione Senargiotto di candidarsi per il parlamento europeo, pur avendo promesso appoggio finanziario, impegnò a fondo la Fondazione per tentare di portare avanti senza alcun aiuto pubblico suddetto progetto.

Dati i miei quasi novant’anni m’ero rassegnato a lasciare in eredità ai posteri il sogno di razionalizzare e concentrare in una struttura polivalente uno dei più rilevanti problemi di qualsiasi comunità cristiana e in particolare della Chiesa di Mestre, che è costituito di dare autentica consistenza al progetto della carità. Sennonché qualche giorno fa è morta una persona che aveva fiducia in me tanto che aveva deciso di lasciarmi ogni suo avere, ma che per mio suggerimento aveva scelto la Fondazione dei centri don Vecchi.

Data la consistenza del patrimonio ereditato, la brace, che era ancora viva pur sotto la cenere del mio sogno, cominciò a brillare, tanto che da ora in poi ho deciso di non perdere occasione per suggerire e premere sul Consiglio di amministrazione ed impegnarmi su questo progetto.

Ora mi trovo molto di frequente a pensare: “Vuoi vedere che se le cose andranno per il giusto verso e se il Signore avrà ancora un po’ di pazienza a mandarmi “la cartolina di precetto” avrò anche la grazia di vedere questa lungamente sognata cittadella della solidarietà?

Se poi non sarà una cittadella mi accontenterei anche che fosse un piccolo borgo o un villaggio solidale!

Lavoro e “lavoro”

In quest’ultimo tempo ho fatto due esperienze assolutamente contrapposte su quell’attività umana che il vocabolario definisce: lavoro.

Veniamo alle due prime esperienze di lavoro nel quale mi sono imbattuto. La prima: essendo guastato l’impianto di amplificazione sonora della mia “Cattedrale fra i cipressi” sono ricorso ad una ditta del settore.

Penso sia una pìccola azienda formata dal “padrone”, tutto impegnato a reperire lavoro e dal “dipendente” che segue le installazioni e le riparazioni richieste.
Non so se ammirare più il primo che il secondo o viceversa!
Puntualità, disponibilità, competenza, impegno e cortesia!

M’è parso tutto questo un mix veramente meraviglioso, e sorprendente perché non è facile trovarne un altro pari.

Secondo esempio di lavoro, ossia di un impegno serio, competente e generoso: al don Vecchi abbiamo un centro cottura del catering “Serenissima ristorazione” nel quale lavora una cuoca di mezza età, che veramente sarebbe giusto offrirle una croce al merito o il titolo di “maestra del lavoro”. Arriva presto ed ogni giorno cucina dai 150 ai 200 pasti, con una bravura, un senso del dovere, ed una amabilità e generosità pressoché illimitata. Io non l’ho mai sentita lagnarsi, sentirsi vittima e sfruttata dai “padroni”, anzi pare che ci trovi gusto d’accontentare i suoi numerosi clienti diversificando perfino il menù. Credo che la stima l’affetto e la riconoscenza di noi utenti la gratifichi e l’aiuti a lavorare come se andasse a divertirsi.

In contrapposizione a questi esempi purtroppo vengo a conoscenza di “lavoro” apprezzato e sorretto da parte dei sindacati, che avallano i fannulloni, quelli che timbrano il cartellino e poi vanno dal parrucchiere, quelli che pare facciano di tutto perché la loro azienda fallisca, quelli che non accettano uno straordinario per morte a morire, quelli che si nascondono dietro il mansionario e i diritti del lavoratore, quelli che pare siano impegnati a produrre miseria e disoccupazione, quelli che perfino protestano perché altri, “vedi Reggia di Caserta” lavorano troppo!

Da qualche tempo penso che il dizionario dovrebbe descrivere il lavoro serio come attività umana tesa a soddisfare i bisogni e creare benessere, e “il lavoro” concepito dai sindacati e da certi dipendenti dagli enti statali e parastatali che in questo caso potrebbe essere definito: un modo comodo per sbarcare il lunario senza far niente!

Amore ed odio

I funerali e le televisioni hanno appena terminato la “grande abbuffata” sulla vita e sulla proposta civile e politica di Marco Pannella. Dopo gli interventi dei più prestigiosi giornalisti credo che per tutti sia praticamente impossibile scrivere qualcosa che non sia già stato detto. Se questo vale per gli uomini della cultura, tanto di più vale per me povero vecchio prete!

Però credo, che se confido agli amici quali siano stati i miei rapporti personali con questo spirito libero e liberatorio, possa aiutare anche i miei amici a prendere posizione su questo personaggio, che ha influito più di molti altri sul pensiero e sul costume della gente del nostro tempo.

Già in passato ho affermato a chiare lettere che per i radicali in genere e per Pannella e la Bonino in particolare ho sempre nutrito un sentimento di “amore ed odio”. Confesso inoltre che ho ascoltato con molto interesse il loro messaggio e che pure per certi aspetti ne ho tratto beneficio. Non sarei quello che sono a livello civile e pure religioso se non avessi incontrato questi testimoni e profeti laici, verso cui provo ammirazione e riconoscenza!

Comincio con “l’odio”: Ho sempre rifiutato in maniera “radicale” il Pannella dell’aborto, dell’eutanasia, e della liberalizzazione della droga. Perché ho sempre avuto l’impressione che questo personaggio pretendesse di mettersi sul posto di Dio volendo rivedere e riprogettare il volto della creazione voluta dal Signore.

Reputo istigazione all’omicidio, al suicidio e alla corruzione della gioventù le prese di posizione arroganti ed assolute di Pannella e dei suoi discepoli.

Ora vengo “all’amore”; ho ammirato, condiviso e sono riconoscente per le campagne di Pannella: sulla giustizia giusta, “sulla sua crociata” a favore dei paesi sottosviluppati, sulla assoluta presa di posizione contro la disumanità delle nostre carceri, sul suo impegno per i diritti civili, sulla difesa all’ultimo sangue del cittadino di fronte a qualsiasi legge che limiti o mortifichi la sua libertà, sulla sua intransigenza contro una chiesa trionfalista, intrigante e irrispettosa dell’autonomia dello Stato, il quale deve garantire sempre a tutti la libertà.

Ho pure condiviso ed ammirato la scelta di Pannella della non violenza portata avanti con la parola e con i suoi digiuni.

Questo è il Pannella che ho amato, ammirato e di cui mi sento debitore. Da Pannella poi ricevo come preziosissima eredità la lettera che ha inviato a Papa Francesco, lettera di una tenerezza commovente, che io reputo sia la testimonianza più bella e più genuina che emerge dalla parte più pulita e più sana della coscienza di questo “combattente” del nostro tempo.

Caro papa Francesco,
Ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa, questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano.

Questa passione è il vento dello “Spirito” che muove il mondo lo vedo dalla mia piccola finestra con le piante impazzite che si muovono a questo vento e i gabbiani che lo accompagnano.

In questo tempo non posso più uscire, ma ti sto accanto in tutte le uscite che fai tu.

Un pensiero fisso mi accompagna ancora oggi “Spes contra Spem”.

Caro Papa Francesco, sono più avanti di te negli anni, ma credo che anche tu ti trovi a dover vivere “spes contra spem”.

Ti voglio bene davvero, tuo Marco

PS: ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene.
Roma 22 aprile 2016

L’eremita trevigiano

Per una giornata ha tenuto banco sulla prima pagina de “Il Gazzettino” la notizia che un nostro conterraneo da trent’anni vive solo, senza contatti con la gente, nutrendosi con quello che gli offre il campo, e rinunciando a tutto quello che la tecnica ci mette a disposizione e che tutti ritengono  assolutamente necessario; energia elettrica, acquedotto, telefono, radio, televisione e quant’altro.

Immagino che la stragrande maggioranza dei lettori del nostro quotidiano locale avrà giudicato questo nostro concittadino come uno svitato, maniaco, affetto da qualche psicosi occulta.

Il fatto poi che venga a mancare anche la componente religiosa che ha motivato la quasi totalità degli eremiti ha reso ancor più incomprensibile questa scelta esistenziale così anomala e che a parere di tutti sembra pressoché impossibile ed assurda!

Confesso che questa notizia mi ha fatto riflettere, non arrivando a comprendere ed avvallare questa scelta, ma mi è parsa utilmente provocatoria per la grande parte di noi che viviamo in maniera artificiosa, carica di bisogni imposti dalla pubblicità, sommersa dal rumore e dai messaggi più contrastanti e più fasulli, caricandoci di una infinità di esigenze costose e spesso perfino rovinose sul nostro equilibrio fisico ed esistenziale.

Per associazione di idee questa notizia mi ha riportato ad una frase del lavabo posto all’ingresso del grande refettorio costruito dai padri Somaschi e che il seminario di Venezia ha ereditato. Su quel lavabo c’era scritto in latino: “beata solitudine o sola beatitudine!”

Noi, uomini del nostro tempo, di certo pecchiamo per mancanza di silenzio e di momenti di riflessione personale, cosa che spesso ci rende superficiali, poco pensosi e meno saggi!

Prima di addormentarmi ho detto una preghiera per “l’eremita laico” di Preganziol, lui forse esagera da un lato, ma noi di certo esageriamo per il lato opposto!

Ho capito da questa riflessione che ho poco silenzio nella mia giornata!

Riassunta a novant’anni

Ultimamente la Fornero, con grande ira dei sindacati e di certi lavoratori che han sempre lavorato poco, ha elevato l’età della pensione. Renzi, giovane politico che fa un “miracolo” al giorno, spostando le montagne dell’immobilismo della burocrazia e della politica, mediante un meccanismo un po’ contorto e chiedendo qualche sconto sulla pensione, pare stia accorciando i tempi per chi ha poca voglia di lavorare e vuole sedersi in poltrona un po’ in anticipo. Comunque neanche la Fornero si sognerebbe mai di riassumere una novantenne! I sindacati di certo chiederebbero il rogo per chi si sognasse di proporre operazioni del genere! Ebbene, a me che in genere ho sempre navigato contro corrente, pare stia andando in porto una riassunzione, come operatrice di liturgia, di una signora che ha già compiuto novant’anni! Ho incontrato questa signora più di mezzo secolo fa ed è stata “alle mie dipendenze” per una trentina di anni. Il mondo dei poveri di Mestre ricorda la “Golda  Meyer” di Ca Letizia.

L’Emilia che funzionava come cuoca, gestore e diciamo pure madre, seppur burbera, per le centinaia di poveri che cenavano nella prima mensa di Mestre.

Questa volontaria copriva la sua tenerezza materna con un atteggiamento burbero che non ammetteva contraddizioni. Per una trentina d’anni la mensa di Ca Letizia ebbe un capo indiscusso che guidò quella barca di sbandati attraverso mille peripezie.

Metà poi di quel mondo di ragazzi  ch’erano giovani attorno agli anni sessanta e settanta, conobbero la stessa “Giovanna d’Arco” al Rifugio San Lorenzo, la casa di montagna della parrocchia del Duomo. Con la mia dipartita da Mestre l’Emilia s’è presa una pausa per curare il marito ed accompagnarlo all’altra sponda, godendosi un poco “la pensione” della sua lunga dirigenza caritativa.

Per questa estate mi ritrovo in difficoltà per la gestione della “mia cattedrale” e qualche giorno fa le proposi un impiego stagionale e a part-time. Non ci pensò un istante ed “ha firmato il contratto”; il paradiso glielo ho ormai garantito da decenni, ora discutiamo della fila e sul tipo di poltrona da offrirle!

La nuova galleria

Il “don Vecchi sei”, che ora ha un volto, un’articolazione dei locali ed una destinazione a soggetti diversi ai quali è destinata, non è nato per incanto ma, come avviene, per ogni creatura ha avuto una gestazione abbastanza faticosa di almeno quattro o cinque anni.

In quest’ultimo tempo, che precede l’inaugurazione, si è parlato spesso di rette, di regolamenti e di destinatari, però chi ha concepito la nuova creatura, durante questa faticosa gestazione, l’ha sognata accogliente, bella signorile, ad ha lavorato in silenzio e lungamente perché risultasse pari al sogno.

Una delle caratteristiche che si colgono di primo impatto con i centri della nostra fondazione è certamente l’aspetto signorile e la scelta dell’arredo di mobili, piante e quadri. Così è avvenuto anche per quest’ultima creatura, che pur avrà meno spazi comuni delle altre, dato che la maggior parte dei residenti saranno meno “stanziali” di quelli degli altri centri. Comunque anch’essa offre un vastissimo salone perché la popolazione che vi abiterà abbia un ampio spazio per relazioni umane e per i momenti di relax. Quando pensai all’arredo delle sue pareti trovai subito difficoltà ad immaginare una accozzaglia di poveri quadri raccogliticci e mi venne in mente di chiedere ad un mio vecchio parrocchiano, che nel passato mi ha aiutato nelle situazioni più diverse, di dipingere una serie di quadri per farne una galleria permanente. Questo signore, che di professione ha fatto il fisico, in enti di risonanza mondiale, ma nel contempo ha dimostrato di avere un ottimo rapporto con la tavolozza, alla mia richiesta, dopo qualche resistenza dovuta soprattutto alla sua modestia naturale, mi ha offerto la sua disponibilità tanto che da alcuni mesi sta lavorando a tempo pieno per offrirci una galleria di una trentina di sue opere.

La disponibilità e la generosità di questo signore dall’ingegno e dalle risorse di tipo michelangiolesco sono arrivate non solamente a donarci un numero così consistente di opere, ma a regalarci pure le cornici.

Quando penso a tutto ciò mi viene da concludere che la fatica per il “sei” trova già una sua ricompensa per la scoperta che a Mestre ci sono anche cittadini così bravi e generosi.